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La guerra, il drago rosso, l’Anticristo e l’impero. La perenne attualità dell’Apocalisse

Luca Signorelli, Cappella di san Brizio, Predica e punizione dell'anticristo

Luca Signorelli,  Predica e punizione dell’Anticristo, Orvieto, Duomo, Cappella di San Brizio, 1499

di Leo Di Simone

Immerso in un bagno di folla osannante, allo stadio Lužniki di Mosca, lo “zar di tutte le Russie” ha arringato i suoi sudditi. Per spiegare i motivi della “manovra militare” avviata in terra di Ucraina. Era il 18 marzo, l’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea, ma soprattutto la data di nascita di Fëdor Fëdorovic Ušakov, ammiraglio dell’era zarista proclamato santo dalla Chiesa ortodossa russa nel 2001. Una data dal chiaro significato simbolico: l’operazione militare in corso (mai dire guerra, è una parola disdicevole) è stata posta sotto la protezione di un santo guerriero, il quale, tra l’altro, nel 2005 fu dichiarato, incredibile a dirsi, patrono dei bombardieri nucleari, per accompagnare con la preghiera la giusta direzione delle testate; sempre per la sicurezza della santa Russia. A riprova della sua fede cristiana adamantina e della sua ortodossia indiscussa lo zar ha citato le Scritture, un passo dal vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13); un encomio e un incitamento ai soldati impegnati nell’operazione “di difesa” dell’amata patria dalle brame occidentali, e, implicitamente, una sua personale dichiarazione d’amore per i diletti sudditi!

Ma sarà stato per via dell’emozione per le ovazioni e gli applausi che lo zar si è dimenticato di citare il versetto successivo, il 14, che col precedente costituisce una frase unica nel discorso che Gesù sta facendo ai suoi discepoli: «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando». Ora, scrutando i Vangeli, non vi si legge nessun comando di natura bellica da parte di Gesù, mentre risulta chiaro quello dell’amore, universale, perentorio, radicale fino all’amore per i nemici: 

«Ma a voi che ascoltate io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano [...] Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso» (Lc 6, 27. 32-33).

A sentire quella citazione evangelica in bocca allo zar, intuendo la perversa e pretestuosa intenzione con cui l’ha pronunciata, strumentalizzandola per i suoi malefici fini ed estrapolandola dal suo contesto veritativo, sono stato colto da uno sgomento indicibile, pensando all’effetto deleterio provocato sui poveri sudditi russi cui da tanto tempo si propina la menzogna come fosse verità e si sanziona la ricerca della verità come un delitto. Con associazione immediata mi è balzata agli occhi della mente un’immagine artistica, profeticamente descrittiva dell’attuale assurda e atroce situazione e simbolica, nel suo complesso, della condizione di sudditanza cui è costretta l’umanità: ho pensato all’affresco La predicazione dell’Anticristo di Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto. La tematica degli affreschi della Cappella è escatologica; tratta cioè del giudizio finale al concludersi della storia.

Entrando e alzando gli occhi sulla grande scena delle storie dell’Anticristo, affrescate sulla parete di sinistra, si legge la scena apocalittica e surreale. In primo piano si erge la figura dell’Anticristo, in atto di predicare. Gli fa da podio la base di una colonna sulla quale è scolpito un uomo che vuole domare un cavallo imbizzarrito, simbolo di ambizione e superbia. Ai suoi piedi sono gettati alla rinfusa il vasellame, gli ori e gli arredi sacri strappati al Tempio. Tra la folla che ascolta il falso profeta si muove un uomo che distribuisce le monete della seduzione alle donne. Gli avvenimenti descritti tutt’intorno richiamano ancora un versetto di un’importante lettera paolina: 

«La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati. Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna e siano condannati tutti quelli che, invece di credere alla verità, si sono compiaciuti nell’iniquità» (2Ts 2, 9-12).
Signorelli, Il diavolo anticristo

Signorelli, Predica e punizione dell’Anticristo, part.

In secondo piano, nella scena affrescata, sono rappresentati i miracoli e gli omicidi profetizzati da Matteo nel capitolo 24 e descritti dalla Legenda aurea [1]: al centro un morto risuscita miracolosamente e si solleva dalla bara; a destra due prigionieri incatenati sono decapitati per ordine dell’Anticristo. In primo piano, sulla sinistra, i carnefici uccidono gli innocenti: un domenicano ha la testa spaccata e un uomo è strangolato dal suo aguzzino. Dietro l’Anticristo un gruppo di frati domenicani è colto nel mezzo di una vivace disputa sul significato delle Scritture. In alto a destra c’è il Tempio di Gerusalemme, profanato dalla presenza di inquietanti uomini neri e di soldati armati. Sulla sinistra l’Anticristo tenta la sfida suprema a Dio, alzandosi in volo, novello Simon Mago. Ma si descrive la sua fine: un angelo lo fulmina in volo e insieme a lui fulmina a terra i suoi seguaci. Si avverano ancora una volta le parole della lettera di Paolo: «Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta» (2Ts 2,9). 

Viscida e ambigua appare la figura dell’Anticristo: ha sembianze che imitano quelle gesuane ma ne costituiscono una inquietante parodia. Il suo volto è tetro e il suo sguardo gelido e impassibile. È una controfigura del demonio-burattinaio che gli sta dietro e gli suggerisce le parole all’orecchio, gli inquina lo sguardo e addirittura gli sostituisce il braccio sinistro esibendo una mano con lunghe unghie diaboliche. Questa immagine dell’Anticristo richiama un’altra pagina delle Scritture, tratta sempre dalla seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio» (2Ts 2,3-4).  Sarà Giovanni, il veggente, a dare a questo enigmatico “uomo dell’iniquità” il nome di “anticristo” che declina sia al singolare che al plurale: «Avete udito che deve venire l’anticristo e di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo sappiamo che è l’ultima ora […] l’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo» (1Gv 2, 18-19; 4,3).

L’arrivo dell’Anticristo e di altri falsi profeti negli ultimi giorni è profetizzato anche nel Vangelo di Matteo:

«I discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: “Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”. Gesù rispose loro: “Badate che nessuno vi inganni! Molti infatti verranno nel mio nome, dicendo: “Io sono il Cristo”, e trarranno molti in inganno. E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori. Vi abbandoneranno allora alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, e si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24, 3-13).

L’apostolo Paolo ha ben chiara la consistenza di quella realtà oscura e mortifera cui dà il nome di «mistero di iniquità»: «Infatti – dice – il mistero dell’iniquità è già in atto» (2 Ts 2,7). All’avanzare della forza devastante dell’iniquità Paolo attribuisce il nome di «mistero», un termine spesso usato e abusato nel senso di incomprensibile per la ragione umana. Nel Nuovo Testamento non è questo il senso di «mistero». Il «mistero» è qualcosa che è in Dio e che gli uomini giungono a comprendere solo nel momento in cui Dio lo svela. Allora esso appare in tutta la sua evidenza. C’è bisogno di una Apocalisse, di una rivelazione ultima: per comprendere il perché della tenace persistenza del male, gli orrori distruttivi della guerra in ogni epoca della storia, la brutalizzazione degli esseri umani, l’ossessione per la sicurezza materiale e tutto ciò che produce un clima in cui la realtà di un potere fondamentale e oscuro sembra pericolosamente gravida di potenzialità.

Tutta la Bibbia narra del «mistero di iniquità», tutta la storia da essa narrata ne è segnata mortalmente: dal fratricidio di Caino fino alla morte violenta sulla croce di Gesù di Nazareth. Dal mito alla storia, dove la storia è interpretata dal mito che cerca di sviscerarne il senso e di farsene avviso profetico in forma simbolica. C’è anche, nella Bibbia, come macroemblema, la storia mitica e reale di Israele, fatta di lotte per la conquista della terra, guerre e battaglie fratricide, violenze, schiavitù, carestie, stragi, oppressioni, esilio, deportazioni, fino alla nemesi del male estremo e terribile di Auschwitz; dalla distruzione di Gerusalemme a quelle di Hiroshima e Nagasaki, di Mosul, Sarajevo, Aleppo e Mariupol… e alla distruzione di tutto ciò che in questi terribili giorni di guerra è passato sotto i nostri occhi e di tutto ciò che è accaduto tragicamente lontano da noi e noi non abbiamo visto o non abbiamo voluto vedere.

Tutto ha una identica matrice, un unico mandante, il «mistero di iniquità» in atto nella storia, dalla fondazione della prima città fino all’eschaton della Gerusalemme celeste. Da Genesi ad Apocalisse, dal primo all’ultimo libro, la Bibbia compie la meganarrazione di tale storia: della ribellione umana al progetto benevolo di Dio che va dalla creazione alla redenzione. Un progetto tremendo e stupendo ad un tempo, pagato col dono della libertà, di quel libero arbitrio che può fare dell’essere umano, per dirla con Pascal, un angelo o un bruto.

L’intera Bibbia è un unico racconto di un popolo che lotta contro i vari Imperi, cercando di mantenersi fedele a Dio e non sempre riuscendovi. Si tratti dell’Egitto del faraone, dell’impero Assiro o Babilonese o della Roma di Cesare noi siamo interni a quel racconto; quelle antiche situazioni sociali, politiche e religiose non sono che archetipi, paradigmi della condizione umana di tutte le culture e di tutti i tempi, per cui il racconto biblico non termina con l’Apocalisse, si fa nostro contemporaneo, pur avendo detto tutto ciò che c’era da dire, perché nell’umanità non ci sono situazioni nuove; c’è semmai sempre il vecchio che indossa panni nuovi. Inoltre, il racconto biblico, tra simbolo, storia e allegoria non vuole e non può darci spiegazione razionale del «mistero di iniquità» che infatti non ha logica alcuna. Aristotelica almeno.

La logica, la razionalità di cui l’antropo va fiero e che sembra essere arrivata ai vertici delle sue possibilità in campo scientifico e tecnologico, subisce una battuta d’arresto formidabile davanti alle incongruenze dell’iniquità empiricamente tangibili e annichilenti. Sarebbe più logico e razionale convertire i miliardi di dollari spesi in armamenti e testate nucleari in cibo, acqua, utensili di benessere e “civiltà” per i milioni di “poveri della terra” invece di polverizzarli in azioni di folle distruzione. Che intelligenza è mai questa? Quanta stoltezza culturale e istituzionale si persegue? Qui il “mistero” assume davvero l’accezione di qualcosa di incomprensibile, di estremamente irrazionale, di inaudita stupidità. «La stupidità del male» parafrasando Hanna Arendt? Sarebbe stato meglio non aver avuto l’intelligenza di spaccare l’atomo per non giungere alla stoltezza della bomba atomica! Con il “progresso” l’umanità ha solo affinato strumenti di morte!

Una cultura astratta, idealistica, ci aveva convinti che esistessero dei modelli adeguati alla nostra natura, plasmati dal progredire dell’intelligenza, che esistesse un umanesimo dentro il quale fosse possibile trovare i canoni della pienezza di umanità. Invece le antropologie critiche ci hanno insegnato a scoprire il sottosuolo oscuro e contraddittorio delle nostre “virtù”; ci hanno fatto capire che la nostra giustizia è un escamotage per crearci una buona coscienza quotidiana ma che non ha niente a che fare con la giustizia vera. In fondo in fondo se ne può trarre una costante culturale: il fatto che siamo tutti malati e che i canoni della “normalità” sono irreperibili. Appurare questo fatto può essere il primo passo verso la verità. Significa essere consapevoli, arieggiando il linguaggio biblico, che noi viviamo in una terra tenebrosa, coperta da ombre di morte, o, cambiando registro semantico, che viviamo perennemente con la spada di Damocle atomica sulla testa.

La nostra vita cosciente, e lo dico citando il buon Freud che pensava di aver trovato il metodo per decifrare il mistero antropico, è solo una piccola porzione che galleggia sull’immenso inconscio, dove si annidano i complessi più duri, le fobie più terribili, per cui dobbiamo diffidare anche delle nostre virtù e comprenderne tutta l’ambiguità. Anche se affermiamo di cercare e voler amare il bene, di fatto abitiamo in una terra di iniquità di cui non riusciamo, razionalmente, a trovare la radice. La distinzione tra civili e barbari ormai non ha più senso. Siamo barbari tutti, assassini e violenti e lo avvertiamo mentre il mistero di iniquità si va facendo sempre più globale, in crescita esponenziale parallelamente alla crescita dell’economia capitalistica e neoliberale che non ha liberato nessuno mentre sta strangolando con le catene dorate del libero mercato l’umanità intera, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, senza sosta. Mentre accresce il suo potere dispotico con gli enormi guadagni dell’industria delle armi che colmeranno la misura della distruzione dell’umanità.

Tutto ciò può sembrare fantastico rispetto ai calcoli estremamente razionali che reggono le leggi dell’economia e delle sue sudditanze politiche ed istituzionali; il risultato di quei calcoli e di quelle leggi sono sotto gli occhi di tutti, li contempliamo con raccapriccio nelle immagini terribili di morte e distruzione, ne avvertiamo l’impotente inconsistenza umanitaria e l’unilaterale funzionalità: servono solo a quanti si arricchiscono anche con la guerra, considerandola un business, un bene di consumo, ma non hanno avuto nessuna intenzione di fermarla: non era conveniente!. «Se Satana è diviso in se stesso, come può stare in piedi il suo regno?» (Lc 11,18). Con questa immagine di “comunione dia-bolica”, ossimoro di studiata e astuta solidarietà interna alla struttura del male, Gesù stigmatizza e dichiara presente il mistero di iniquità di cui lui stesso sarà la vittima più rappresentativa, anzi, la vittima per eccellenza, essendo stato individuato come l’avversario pericoloso da eliminare ad ogni costo. Quando Pilato invia Gesù da Erode per farlo giudicare anche da lui, «Erode se ne rallegrò molto» annota l’evangelista Luca; «Erode e Pilato che prima erano nemici, da quel giorno diventarono amici» (Lc 23, 7-8; 12). Gesù è sopraffatto dalla “solidarietà del male” che risultò dalla somma dei poteri istituzionali che lo giudicarono, sia politici che religiosi: Pilato, Erode, Anna, Caifa, Scribi, Farisei, Sadducei sono le multiformi ipostasi del male, la manifestazione storica del “mistero di iniquità”.

Gerard van Honthorst, Cristo davanti a Caifa

Gerard van Honthorst, Cristo davanti a Caifa, 1617

L’Apocalisse di Giovanni simbolizza la polimorfa ontologia dell’iniquità con «il grande dragone color rosso fuoco, con sette teste e dodici corna e sette diademi sulle sue teste» (Ap 12, 3). Questo scritto escatologico che chiude la rivelazione biblica sigillandola, propone una visione mistico-simbolica della manifestazione del potere avverso al regno di Dio, della sovrastruttura demoniaca che ne ostacola il compimento definitivo. Nel contempo descrive il punto di arrivo del “mistero della salvezza”, superando il banale dualismo manicheo che riduce la visione rivelativa alla lotta tra il bene e il male. Al male è concesso, sempre per via del dono della libertà, di agire iniquamente nel mondo, ma non gli è concessa l’ultima parola. E il punto teleologico del percorso salvifico è antitetico all’azione velenosa del serpente delle origini, colui che «è chiamato diavolo e Satana, che induce in errore tutta la terra abitata» (Ap 12, 9), e fomenta anche l’odio verso il genere umano rappresentato dalla «donna che è incinta e grida per le doglie, ed è in grave travaglio per partorire» (Ap 12, 1-2). La tradizione medievale ha poi identificato «la donna coronata da dodici stelle» con Maria, ed è una esegesi ulteriore del testo che è polisemico e non si presta a letture fondamentaliste; se teologicamente è vero che in Maria si compie in anticipo il mistero del popolo di Dio, allora la sua identità emblematica reca il segno della morte nel tentativo fatto dal drago di divorarne il figlio (Ap 12, 4).

Anche l’umanità è succube di questo segno di morte scritto dall’ira del drago che «con la sua coda trascina un terzo delle stelle del cielo e le precipita sulla terra» (Ap 12, 4), quasi figurando gli esiti di una finale conflagrazione atomica. In questa visione mistica del potere avverso al regno di Dio, la morte però non è che un momento, quello decisivo, che svela la sostanza di tutti gli altri e che l’autore dell’Apocalisse rappresenta nel drago come ipostasi dell’Impero Romano. La donna che partorisce è il popolo di Dio, la giovane Chiesa che genera nuovi figli e che si trova davanti questo drago terribile, questo potere assoluto e disumanizzante. Così l’Apocalisse esprime la situazione conflittuale delle fragili e povere comunità dei credenti, delle ekklesíai dell’Asia minore e l’immenso apparato dell’Impero Romano che cerca di fagocitarle; il conflitto tra il nuovo popolo cristiano il cui principio è l’amore, la mitezza, la non violenza e il drago che della violenza è la personificazione.

Dall’Impero Romano ai blocchi atomici c’è una linea di continuità. Ai nostri giorni più che un veggente è uno scienziato che potrebbe descriverci, senza bisogno di simboli, un’immagine molto più tetra e realistica di quella apparentemente ingenua e fantastica del drago rosso dell’Apocalisse. Basterebbe fare il conto delle testate atomiche già pronte per capire cos’è il potere dell’Impero dell’Anticristo, intrinsecamente disumano, nemico dell’umanità, bugiardo e omicida; regno di Satana di cui siamo tutti contribuenti in qualche modo, se non altro a livello consumistico e fiscale. Tolkien, nel preludio alla sua saga, Il signore degli anelli, lo colloca nella terra di Mordor, governata da Sauron l’Oscuro Signore. Sintomatico che di questa parafrasi apocalittica di Tolkien la nostra contemporaneità abbia apprezzato soprattutto le connotazioni violente ed orride. La Terra di Mezzo, l’ombra di Mordor è stato tramutato negli anni scorsi in un celebre videogioco grondante horror e violenza. L’oscuro fascino del male?

Vergine dell'Apocalisse, Duerer, 1491

Vergine dell’Apocalisse, Duerer, 1491

L’attrazione esercitata dal male sull’umanità, tema cardine di tutta la rivelazione biblica, è sempre stata alimentata da condizioni storiche e culturali specifiche. Le figure di Satana e dell’Anticristo sembrano appartenere all’immaginario e alla letteratura esegetica del Medioevo o a letture fondamentaliste della Scrittura; deve però essere presa in considerazione la loro densa valenza simbolica per non sminuire il loro potenziale significativo contenuto in un testo metastorico qual è il libro dell’Apocalisse. Relegarle nell’ambito della superstizione e della magia in cui pur subiscono un processo di reificazione, comporta il sottostimare il loro potenziale significativo ed emblematico. Il loro riapparire nel XX secolo deve essere preso seriamente in considerazione, alla luce della Shoah e di Hiroshima, dei Gulag staliniani e della guerra del Vietnam e della miriade di altri crimini contro l’umanità in atto in questo nostro tempo di false democrazie e falso umanitarismo.

Non c’è una ragione plausibile per crimini così efferati che si sono riprodotti come metastasi tumorali fino alla guerra in Ucraina. È il mistero dell’iniquità che si manifesta con crudeli vessazioni e che individua i suoi anticristi di turno come causa strumentale, e il cui simbolo è l’unica bestia con sette teste e dieci corna di cui parla l’Apocalisse (Ap 13). Sotto l’egida dell’Anticristo, in particolare, sono state viste le figure dei più grandi dittatori della storia più antica e più recente, ma la percezione che se ne è avuta è stata, più che di repulsione, di grande fascino: il male affascina a causa di allettanti promesse e per la ricompensa offerta in cambio della dedizione a lui. La personalità dei grandi dittatori può essere considerata come capace di suscitare calamitante attrazione. La gente è spinta a seguirli attratta o dalla loro presenza fisica o dalle loro ammalianti parole. Hitler e Mussolini sono stati un esempio cogente di fascinazione malefica.

L’obiettivo dell’Anticristo-Satana è il potere. Il potere ad ogni costo e con ogni mezzo. Il potere totale, assoluto, senza spartizioni e antagonisti. Le tre tentazioni di Gesù nel deserto da parte di Satana rivelano gli strumenti della fascinazione e il fine della tentazione: il miracolo, il mistero e l’autorità sono gli strumenti ammalianti, mentre il fine è l’adorazione. Satana è disposto a concedere a Gesù tutti i regni della terra a condizione di essere adorato: «Tutte queste cose io te le darò se prostrato a terra mi adorerai» (Mt 4,9). Gli aveva prima chiesto il miracolo di mutare le pietre in pane, per saziare la fame dopo il digiuno dei quaranta giorni, e poi di farsi soccorrere dagli angeli buttandosi giù dal pinnacolo del tempio per mostrare di essere figlio di Dio.

conv«E tu rifiutasti la prima, la seconda e la terza volta» rinfaccia a Gesù con tono aspro il Grande Inquisitore di Dostoevskij in una di quelle splendide pagine de I fratelli Karamàzov che scandagliano psicologicamente quella che potremmo chiamare la sindrome del potere da cui scaturiscono l’odio, l’omicidio, il nichilismo [2]. Chi ha pensato di boicottare la Russia boicottando Dostoevskij ha fatto una scelta sciagurata [3]; nelle pagine di Delitto e castigo, de I demoni, de I fratelli Karamàzov il mistero dell’iniquità che alberga nel cuore umano viene scandagliato con limpida acutezza; la trama del suo progetto di morte è descritta sin nei minimi dettagli, con una tecnica di introspezione che fa impallidire la più studiata psicoanalisi:   

«È mai possibile che tu abbia supposto, seppure per un attimo, che anche gli uomini potessero resistere a una tentazione simile?» continua redarguendo Gesù il Grande Inquisitore. «Ormai sono trascorsi quindici secoli: chi hai innalzato fino a te? Ti giuro, l’uomo è stato creato più debole e più vile di quanto tu pensassi! […] Ma se è così questo è un mistero che noi non possiamo comprendere. E se è un mistero, avevamo noi pure il diritto di predicarlo e di insegnare agli uomini che non la libera decisione del loro cuore importa, né l’amore, bensì il mistero a cui devono assoggettarsi ciecamente, anche contro la loro coscienza. E così abbiamo fatto. Abbiamo corretto la tua opera, fondandola sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere guidati di nuovo come un gregge […]  Noi diremo che obbediamo a te e che governiamo in nome tuo. Così li inganneremo di nuovo perché non lasceremo più che ti accosti a noi. […] Perché mi fissi in silenzio, con il tuo sguardo mite e penetrante? Adirati, io non voglio il tuo amore perché io stesso non ti amo. E che cosa avrei da nasconderti? Vuoi proprio sentirlo dalle mie labbra? Allora senti: noi non siamo con te, ma con Lui: da ormai otto secoli. Sono precisamente otto secoli che accettammo da Lui ciò che tu avevi respinto con sdegno, quell’ultimo dono che Egli ti offriva mostrandoti tutti i regni terreni: noi accettammo da lui Roma e la spada dei Cesari e dichiarammo di essere i soli re della terra, gli unici, benché finora non siamo riusciti a portare a compimento la nostra opera […] Ancora a lungo bisognerà attendere il suo compimento e la terra soffrirà ancora molto, ma noi raggiungeremo il fine, saremo Cesari e allora ci occuperemo della felicità universale. […] Con noi saranno tutti felici e non si ribelleranno più né si stermineranno a vicenda, come facevano ovunque con la tua libertà. Oh, noi li convinceremo che saranno liberi soltanto quando rinunceranno alla loro libertà in nostro favore e si assoggetteranno a noi. […] Domani stesso tu vedrai questo docile gregge che al mio primo cenno si precipiterà ad attizzare i carboni ardenti del tuo rogo, sul quale ti farò bruciare perché sei venuto a disturbarci. Giacché se vi è qualcuno che più di tutti abbia meritato il nostro rogo, quello sei tu. Domani ti farò bruciare. Dixi».

Così il Grande Inquisitore! Ho citato solo qualche stralcio, tra i più significativi, della lunga requisitoria dell’Inquisitore magistralmente uscita dalla penna di Dostoevskij. Rende più di qualsiasi discorsiva considerazione sul mistero dell’iniquità. Il Grande Inquisitore è anticristo, una delle tante teste della bestia apocalittica [4], emanazione del dragone rosso, Satana o dia-bolo come lo si voglia chiamare. La sua azione cinica e spietata ha di mira solo la conquista dell’Impero e dell’imperio. Ed è di questo perfido travaglio interiore, spirituale, elevato a dimensione cosmica che tratta l’Apocalisse di Giovanni. L’ultimo libro della Bibbia è stato scritto in un mondo lontano ma la sua struttura altamente simbolica, che le fornisce l’apparente fisionomia del fantastico, contiene un messaggio vitale anche per l’oggi.

81lwybu9mnlNel libro di Wes Howard-Brook e Anthony Gwyther, l’Impero svelato [5], il contesto storico dell’Apocalisse è messo a confronto, con termini duri ed espliciti, con la realtà del nostro tempo, per suffragare la tesi che oggi l’Impero si manifesta essenzialmente sul piano economico, come volontà di dominio globale da parte delle grandi potenze transnazionali ormai indipendenti da ogni controllo politico e che dettano agli Stati le politiche da seguire per implementare il suo culto. «Nel mondo intero l’ideologia del libero mercato è stata abbracciata con il tipico fervore della fede religiosa fondamentalista… la professione economica è il suo sacerdozio… mettere in discussione la sua dottrina è diventato praticamente un’eresia» [6].  Dobbiamo dunque convincerci che

«anche noi oggi viviamo all’ombra di un gande Impero, il più grande Impero esistito al mondo, l’Impero del denaro, che permette al 20% dell’umanità di “papparsi” l’83% delle risorse. Un Impero pagato salatamente dall’80% della popolazione mondiale, di cui almeno il 20% vive nella povertà assoluta, con meno di un dollaro al giorno, mentre l’altro 60% vive sulla soglia di tale miseria. Questa è la nuova Bestia! Se il profeta dell’Apocalisse ha chiamato Roma la grande Bestia, cosa direbbe del nostro sistema!» [7].

L’Apocalisse è parte di un più vasto fenomeno di letteratura apocalittica ma non ci svela il segreto della fine del mondo, semmai del suo fine! È un invito a tutte le generazioni cristiane a fidarsi di Dio piuttosto che dell’Impero e delle sue ammalianti seduzioni che ci hanno condotti a questo punto antropologicamente insostenibile e di non ritorno. Il futuro di felicità paventato dal Grande Inquisitore si conquista al prezzo della rinuncia alla propria libertà. Dostoevskij l’ha intuito con chiarezza. Un altro grande scrittore, americano, Thomas Merton, monaco cristiano e contestatore, negli anni della guerra del Vietnam, preparando un libro sulla pace che sarebbe stato censurato dalla Chiesa su richiesta dei “poteri forti” americani e sarebbe uscito solo quarant’anni dopo la sua morte col titolo La pace nell’era postcristiana, denuncia con lucido realismo, sferzando l’insensibilità dei cattolici americani, la falsità dell’Impero:

«Ma siamo così sicuri che quando parliamo di difendere la nostra libertà, i nostri diritti, la nostra integrità personale, non stiamo semplicemente parlando di irresponsabilità, di divertimento, di una vita comoda e della libertà di fare un po’ di soldi? Che cosa stiamo difendendo? La nostra religione o la nostra ricchezza? O abbiamo così identificato le due cose che la distinzione non è più possibile?» [8].

Anche Merton ha parlato di Impero nei suoi scritti, stigmatizzando l’apparato politico americano e la stessa Chiesa statunitense; anche lui vede nell’Apocalisse la descrizione dello stadio finale della storia del mondo, dall’incarnazione di Cristo all’Eschaton:

«Una lotta di potere totale e spietata, in cui sono impegnati tutti i re della terra, ma che ha una dimensione spirituale interiore che questi re sono incapaci di vedere e di comprendere. Le guerre, i cataclismi, le epidemie che distruggono la realtà terrena sono in realtà la proiezione e la manifestazione esteriori di una battaglia spirituale nascosta» [9].

la-pace-nell-era-postcristiana«E ci fu guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combatterono contro il dragone. Anche il dragone combatté, e con lui i suoi angeli» (Ap 12, 7). Ed è conscio, Merton, che in un simile mondo che lui aggettiva “postcristiano”, quella che era chiamata la “società cristiana” sia semplicemente «un paganesimo materialistico con una patina cristiana» [10], perché anche il cristianesimo si è lasciato lusingare dall’Impero e ha ceduto alla sua triplice tentazione, così come ha candidamente confessato il Grande Inquisitore.

Nell’esegesi de L’Impero svelato viene chiarito come Giovanni veda nella stessa guerra contro i santi, i fedeli e Gesù Cristo, un’azione liturgica demoniaca, ritmata dalle «parole d’orgoglio e bestemmie» che escono dalla bocca della bestia «salita dal mare» che trova un valido accolito nell’altra bestia «che sale dalla terra» e che «compie grandi prodigi fino a far piovere fuoco dal cielo e induce in errore gli abitanti della terra» (Ap 13, 1-6. 11-14). Se il contesto originario del capitolo 13 dell’Apocalisse induce ad identificare le due bestie, la prima con Roma che veniva ad Efeso dal mare e la seconda con l’élite locale che collaborava con Roma per implementare il culto efesino di Domiziano ad Efeso con la sua colossale statua liturgica, gli strumenti cultuali, fuoco dal cielo, grandi prodigi, immagini parlanti sono descritti come altrettanti mezzi con cui l’Impero seduce le persone inducendole alla sottomissione e al culto.

Quando papa Francesco ha definito la guerra in Ucraina «blasfema» ha implicitamente fatto riferimento al demoniaco apparato liturgico della guerra che adesso consiste in un processo altamente organizzato, tecnologicamente sofisticato e psicologicamente efficace atto a sviluppare in modo sistematico una realtà falsa che viene spacciata per vera dalla contraffazione mediatica imperiale. D’altra parte il demonio, «menzognero e padre della menzogna e omicida sin dal principio» (Gv 8, 44-45), trova nella guerra la più alta manifestazione del suo culto sanguinario e immorale che richiede l’immolazione a lui dell’umanità intera.

Tradotti in termini storici i misteriosi simboli dell’Apocalisse mostrano l’atteggiamento cristiano primitivo verso la guerra, l’ingiustizia, le persecuzioni, i genocidi da parte dell’impero mondano; si comprendeva chiaramente che quelle terribili manifestazioni avevano una forza demoniaca, sovrumana. Il martirio dei cristiani dei primi tre secoli fu originato dal loro rifiuto di prestare culto pubblico all’imperatore e praticare la liturgia dell’Impero. Poi arrivò Costantino che riuscì a compiere il processo di integrazione, e fu la prima corruzione del cristianesimo che diventò “religione dell’impero”: «E noi prendemmo la spada dei Cesari, e prendendola, naturalmente ripudiammo te e seguimmo Lui. Oh, trascorreranno ancora secoli di eccessi del libero pensiero, di scienza e di antropofagia perché, avendo iniziato a erigere la Torre di Babele senza di noi, è con l’antropofagia che finiranno» dice il Grande Inquisitore di Dostoevskij [11]. Quest’uomo di potere, accolito di Satana lui stesso, è convinto di dover tenere unita l’umanità con la forza e tramite l’annullamento della libertà, col metodo di ogni manifestazione imperiale che la storia ha puntualmente registrato come opera di grandi autocrati e dittatori. È persuaso che l’ordine mondiale debba coincidere con la riunificazione degli imperi terrestri, da perseguire con metodi che evidentemente non possono essere evangelici ma satanici: «Allora la bestia striscerà verso di noi e leccherà i nostri piedi [12], spruzzandoli con le lacrime di sangue che sgorgheranno dai suoi occhi. E noi ci assideremo sulla bestia e leveremo in alto un calice su cui sarà scritto Mistero [13]. Solo allora e da lì avrà inizio il regno della pace» [14], conclude il Grande Inquisitore. Ciò che potrà apparire guerra e divisione nella prospettiva dia-bolica è pace ed unità: la “solidarietà del male” nella sua ontologia è divisione e conflitto; le guerre contribuiscono all’unità del grande Impero. La locuzione latina di Vegezio «si vis pacem para bellum» è altamente sintomatica.

L’adozione del modello imperiale di governo e di culto, di cerimoniali liturgici e sistemi amministrativi ha provocato, in realtà, una profonda spaccatura nella Chiesa di Gesù Cristo; una profonda divisione che perdura, tra “Cattolicesimo” e “Ortodossia”, creando due modelli simmetrici e complementari: Cesaropapismo ad Oriente, a partire da Costantinopoli; Teocrazia in Occidente, a partire da Roma. Altre volte ho fatto riferimento a questa situazione ideologica e pragmatica ad un tempo la cui comune origine risiede nell’emulazione dell’esercizio del potere imperiale descritto nell’Apocalisse [15]. In Occidente esercitato dai papi, almeno ufficialmente ed in teoria fino a Pio IX, in Oriente esercitato dagli imperatori costantinopolitani e poi della “Terza Roma”, l’impero moscovita dei Romanov che nei confronti dei cristiani ortodossi agiva come erede storico dell’impero bizantino e patrono della spiritualità orientale contro la tirannide ottomana e l’egemonia papista.

Considerato che per la “Terza Roma” tutto cominciò a Kiev nell’860 con Vladimiro il grande, si comprende bene anche la portata ideologica della guerra in Ucraina innescata dall’ultimo Vladimiro che dell’altro vuole emulare l’epopea e la gloria. E lo fa oculatamente, servendosi non solo delle armi belliche ma anche di quelle simboliche e ideologiche che sono molto più sottili e che la nostra contemporaneità non è in grado di leggere perché emulano il linguaggio apocalittico e usano la stessa logica viscida e contorta del Grande Inquisitore. Anche qui una grande simulazione, una grande bugia: lo zar non dice apertamente di voler mettere le mani sugli ingenti tesori geologici custoditi nel sottosuolo ucraino, per impinguare le sue ingenti ricchezze e quelle dei suoi vassalli oligarchi; copre questa sua avida intenzione con cortine religiose e ideologie nazionalistiche ormai superate in un mondo globale dove non si possono distinguere peccati occidentali e orientali. Chi è senza peccato scagli per primo la pietra!

Lo zar Vladimiro si serve dell’aiuto di un ideologo e di un cappellano di corte. La linea ideologica che i tre hanno elaborato è quella della riduzione del cristianesimo a tradizione e moralismo. Due filoni non originali in verità, essendo costanti privilegiate delle religioni. Ma è proprio la riduzione del cristianesimo a religione che lo snatura più di tutto; e questo è un fatto di cui pochi si avvedono, apparendo ai più inessenziale la distinzione tra religione e fede che per molti sono sinonimi. Viene così proposta l’immacolatezza dell’ortodossia russa, viene ostentato l’orgoglio dell’unica tradizione cristiana mantenutasi immune dalle contaminazioni del mondo e soprattutto dell’Occidente.

Sulla scena bellica sono perciò apparsi Alexander Dugin e il patriarca Kiril, anche lui “di tutte le Russie”. Il primo, ispiratore di un movimento che si richiamava ai «nazisti di sinistra» Gregor e Otto Strasser, è approdato poi a quella che definisce «rivoluzione conservatrice» che lo ha reso famoso in Europa e apprezzato negli ambienti della nuova destra europea; il secondo già “compagno” di Vladimiro nelle file del già KGB di sovietica memoria che reclutava membri del clero che garantissero la fedeltà della Chiesa ortodossa all’impero sovietico. Il meglio delle tradizioni ideologiche totalitarie. L’uno banditore del mito russo della Terza Roma, la capitale del nuovo impero dopo la caduta di Roma e Costantinopoli, il secondo impegnato a recuperare l’autorità e la giurisdizione sul Patriarcato di Kiev che dal 2018 ha ottenuto l’indipendenza dal Patriarcato di Mosca; Kiril lo ha dichiarato “scismatico” e quindi fuori dalla comunione ortodossa russa [16]. E l’uno e l’altro, nelle loro esternazioni si esprimono in termini apocalittici, strumentalizzando il libro giovanneo per sostenere tesi che il libro stesso, nell’ottica esegetica che abbiamo mostrato, rivolge contro di loro.

Dugin propaganda l’impegno attuale della Russia di ricostruire un impero mondiale cristiano-ortodosso. La vera Roma adesso è a Mosca e la nuova Cartagine che bisogna sconfiggere è con molta evidenza l’Occidente raffigurato, in termini apocalittici, con «la grande prostituta, Babilonia» della cui distruzione trattano i capitoli 17 e 18 dell’Apocalisse. «Noi non possiamo abbandonare il cammino della storia sacra, che si ripete da epoche ed epoche – afferma Dugin – E da epoche e epoche l’Oriente russo salva l’Occidente russo dall’Occidente non russo: Perché noi siamo Roma» [17]. La sua dottrina filosofico-esoterica è labirintica, visionaria e sincretica, fondendo paganesimo, sistemi esoterici e cristianesimo “slavo-ariano” che vede sintetizzati nella vecchia ortodossia russa, ossia nelle credenze religiose di quegli ortodossi russi che si distaccarono dalla Chiesa ortodossa russa nel XVII secolo, perché contrari alle riforme occidentalizzanti operate dal patriarca Nikon (1605–1681) che volle allineare la Chiesa russa, nella dottrina e nella pratica, alla Chiesa ortodossa greca, emendandola dai suoi elementi slavo-russi paganizzanti. Secondo Dugin entro l’ortodossia russa sarebbero i “vecchi credenti”, i rappresentanti più genuini della continuità della tradizione spirituale russa slavo-ariana, integrata con la gnosi escatologica del cristianesimo originario che identifica i Russi come la “Terza Roma” e il Katechon che contrasta l’Anticristo. Su questo Katechon bisognerà tornare perché in qualche modo rappresenta la chiave di volta di tutta la situazione. Il ruolo di Dugin, in breve, è quella del Rasputin di turno, guru e santone di cui lo zar non può fare a meno per essere rassicurato nelle sue turbe psichiche.

Il patriarca e lo zar

Il patriarca e lo zar

Il patriarca Kiril è invece il pontefice ufficiale dell’impero russo ma, come vuole la tradizione bizantina originaria, non autonomo nelle scelte religiose e confessionali e immediatamente soggetto all’imperatore. Kiril ha dovuto archiviare la sua pur positiva esperienza fatta negli anni ’70 quando fu rappresentante del Patriarcato di Mosca presso il Consiglio Ecumenico delle Chiese, quindi attivamente coinvolto nel movimento di dialogo ecumenico. Ora le sue posizioni sono integriste, di arroccamento nelle politiche dello zar e di collusione con le sue azioni criminali. La Chiesa ortodossa russa non è mai riuscita ad affrancarsi dal potere statale, dal tempo zarista, da quello stalinista, dal regime sovietico fino ad oggi.

Nonostante molti vescovi e preti ortodossi russi oggi contestino vibratamente la posizione collaborazionista di Kiril, lui continua imperterrito a biascicare bugie col linguaggio della bestia, a non parlare di guerra ma soltanto di difesa della Russia, della sua Chiesa, del suo popolo contro gli attacchi dei nemici interni ed esterni, dell’Occidente “imperialista” e del gay pride. Per il patriarca lo stato delle relazioni internazionali è tale da indicare che siamo davanti a un «conflitto non solo politico, ma metafisico», per cui bisogna impedire, proprio come dice Dugin, che un pezzo del «mondo russo», l’Ucraina, venga corrotta, contaminata dalla cultura occidentale, nemica di Dio. Evidentemente il patriarca non ha visto la distruzione dell’Ucraina ad opera dall’esercito russo, né le stragi degli innocenti. La televisione russa non passa quelle immagini. Né si scandalizza per le smodate ricchezze degli oligarchi che supportano il regime dittatoriale dello zar e fanno largo uso dei costumi occidentali. Forse questi soggetti fanno parte della “tradizione russa”, quella più antica e zarista sponsorizzata da Dugin, nuovi Boiardi dell’erigendo impero russo.

Né Kiril né Dugin tuttavia hanno tratto profitto dalla tradizione spirituale ortodossa russa più autentica, più lirica, pacifica, teologicamente più pregnante, incarnata in uomini del secolo scorso come Pavel Nikolaevič Evdokimov, teologo laico esiliato dopo la rivoluzione bolscevica e osservatore ortodosso all’ultima sessione del Concilio Vaticano II [18]; Pavel Aleksandrovič Florenskij, prete, teologo, matematico, fisico elettronico, filosofo della scienza, fucilato per ordine del regime sovietico l’8 dicembre 1937 [19]; Nikolaj Aleksandrovič  Berdjaev, filosofo esistenzialista, teologo e scrittore, contestatore di ogni forma di autoritarismo,  espulso dalla Russia dai bolscevichi nel 1922 e vissuto in Francia fino alla morte.

413pzpr8ial-_sx323_bo1204203200_Di quest’ultimo, per chiudere, voglio ricordare una “visione”, una immagine strana che spunta come una allucinazione in un suo testo, una profezia, ma più che una profezia una “previsione” di ciò che sta accadendo in Russia adesso e che per riflesso tutti stiamo vivendo. L’avevo letta tanti anni fa, in tempi non sospetti, ma non la ricordavo nei dettagli; ricordavo però che ha qualche relazione con quel Katechon di cui ho parlato più sopra. Ho ripescato perciò Nuovo Medioevo di Berdjaev [20] e ho subito trovato il testo sottolineato in rosso. È un libro del 1923, un testo di filosofia della storia, e in particolare una filosofia cristiana della libertà lirica, che descrive una nuova era, un nuovo inizio dopo l’ecatombe della Prima guerra mondiale, superando le previsioni di Oswald Spengler e Thomas Mann.

Nello sviluppo del testo Berdjaev parla dell’esperienza spirituale che si può acquisire dalla constatazione della guerra e della rivoluzione, e del fatto che «non si può tornare al vecchio liberalismo dell’intelligencija, al populismo, al socialismo, alla monarchia e alla vecchia vita nobiliare. Dobbiamo aspirare a una vita nuova e migliore». Per far questo dice che è necessaria una rivoluzione interiore, delle coscienze, una rivoluzione spirituale che in Russia però non si è realizzata. «Esistono solo la burocrazia sovietica e un’intelligencija oppressa». Tuttavia in Russia, dice Berdjaev, si è affermato un nuovo tipo antropologico dopo la rivoluzione russa, e lo descrive:

«È apparso un giovane col giubbotto, rasato di fresco, l’atteggiamento marziale, molto energico, pratico, animato dalla volontà di potere e di arrivare ai primi ranghi della vita, per lo più impertinente e sfacciato. Lo si incontra ovunque e ovunque comanda. È lui che va in giro in automobile a grande velocità, mettendo sotto tutto e tutti; occupa posti di responsabilità nell’amministrazione sovietica, fucila e fa la sua fortuna con la rivoluzione […] Si dichiara padrone della vita, costruttore della Russia futura. I vecchi bolscevichi temono questo tipo nuovo ma sono costretti a fare i conti con lui. […] È prima di tutto un nuovo tipo antropologico […] simili facce una volta non esistevano in Russia. Il nuovo giovane non è di tipo russo, ma di tipo internazionale. […] La guerra ha reso possibile la comparsa di un simile tipo: è stata la scuola che ha formato questi giovani. I figli e i nipoti di questi giovani daranno già l’impressione di solidi borghesi, di padroni della vita. […] E il sangue non li fermerà nella soddisfazione della loro bramosia di vita e di potere. La figura più sinistra in Russia non è la figura del vecchio comunista destinata a scomparire, ma la figura di questo giovane, nel quale forse l’anima russa, la vocazione del popolo russo, andranno alla perdizione. Questo nuovo tipo antropologico può, da un giorno all’altro, rovesciare il comunismo e trasformarlo in fascismo russo» [21].

Una visione inquietante ma nitida questa di Berdjaev, uno sguardo lungo un secolo brulicante di guerre e di dolori come mai in quantità ed intensità se n’erano visti. Nel XX secolo si è forse colmata la misura del mistero di iniquità? Se è “in atto”, come ci ha detto Paolo, questa attualità è già il suo compimento o è in atto il fieri del suo colmarsi fino alla venuta di Cristo che ci libererà svelandoci il mistero della libertà? Mistero tremendo quello di un Dio che ha imposto all’umanità il peso insopportabile e lieve della libertà nella responsabilità; l’Inquisitore-anticristo impone invece un ordine in cui non ci sono più né dolori né responsabilità, ma neppure libertà. L’Anticristo lotta per affermare tale infera agevolazione “filantropica” e fa guerra alla natura aristocratica della religione di Cristo, ne vuole impedire ad ogni costo il culto e la piena manifestazione finale. Ne frena la venuta!

Quando finirà la guerra? Quando sorgerà la pace? Quando finirà il dolore e giungerà la libertà? Chi trattiene il pleroma parusaico di quel momento? Non si può dire,

«[…] se prima non viene l’apostasia ed è rivelato l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione […] E ora sapete ciò che lo trattiene, in modo che si manifesti nella sua ora. Infatti il mistero dell’iniquità è già in atto, c’è solo da attendere che chi lo trattiene sia tolto di mezzo. Allora si manifesterà l’empio che il Signore Gesù distruggerà col soffio della sua bocca e annienterà con la manifestazione della sua parusia» ricorda Paolo ai Tessalonicesi (2 Ts 2, 3. 6-8).

cover_9788845927652__id3074_w1200_t1361811674«Ciò che trattiene» nel testo greco è to katechon (neutro); «chi lo trattiene» è ho katechon (maschile). Qualcosa o/e qualcuno frena, trattiene il manifestarsi della felicità umana con la parusia di Cristo? La guerra, il drago rosso, l’anticristo, l’impero? Prima però si manifesterà «l’uomo dell’iniquità» e poi Cristo per il suo definitivo annientamento; il testo di Paolo sembra parlare, dunque, del trattenimento della manifestazione dell’Anticristo, «il figlio della perdizione». Chi bisogna “togliere di mezzo”? È un testo difficile questo di Paolo, cui Massimo Cacciari ha dedicato un libro appassionato: Il potere che frena [22], un saggio di teologia politica in prospettiva escatologica in “divergente accordo” con le posizioni di Carl Schmitt. Bisognerà approfondirne l’esegesi!

E noi a che punto siamo? Da che parte stiamo? Che rapporto abbiamo con quel potere di empietà, con l’Impero? Siamo solo spettatori della guerra o combattiamo su qualche fronte? Molti si sono avventatamente pronunciati con decisione, ma il mistero di iniquità ha molte teste e molte bocche e nessuna dice verità. Possiamo adesso pensare di dare una risposta? Non adesso. Possiamo tentarci più avanti, magari alla prossima puntata. 

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Note
[1] Legenda nel senso letterale di didascalia, spiegazione. Il titolo dell’opera medievale di Iacopo da Varazze, Legenda aurea, è una raccolta di biografie agiografiche che costituisce ancora oggi un riferimento indispensabile per interpretare la simbologia e l’iconografia inserite in opere pittoriche di contenuto religioso.
[2] F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Mondadori, Milano 1994. In questa 21^ ristampa la “leggenda” del Grande Inquisitore nelle pagine 258-273.
[3] Ha destato stupore la decisione dell’università Bicocca di Milano di cancellare il 3 marzo u. s. un ciclo di quattro lezioni dedicate allo scrittore russo.
[4] La bestia che sale dal mare di Ap 13 ha la stessa fisionomia del drago rosso.
[5] Wes Howard Brook – Anthony Gwyther, L’Impero svelato. Riscoprire la forza dell’Apocalisse per il nostro tempo, EMI, Bologna 2001. Con la presentazione di Alex Zanotelli.
[6] Ivi: 370.
[7] Ivi, dall’introduzione di Alex Zanotelli: 7.
[8] T. Merton, La pace nell’era postcristiana, Qiqajon Com. di Bose, Magnano 2005: 163.
[9] Ivi: 107.
[10] Ivi: 160.
[11] F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, cit.: 271.
[12] Riferimento ad Ap 13; 17, 3-17.
[13] Riferimento ad Ap 17, 3-5.
[14] F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, cit.: 271.
[15] L. Di Simone, Liturgia medievale per la chiesa postmoderna? La questione del rito antico nel racconto del rito romano, Feeria, Panzano in Chianti (FI) 2013: 105-106.
[16] Nel settembre 2018 il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli, primo tra i patriarchi ortodossi (una specie di Papa d’Oriente) e il suo Sinodo, richiesti dal presidente e dal Parlamento ucraino, avviarono le procedure per concedere la “autocefalia” alle Chiese ucraine riunite, prima dipendenti da Mosca: iniziativa che il patriarcato di Mosca, guidato da Kirill, considerò “anti-canonica”. Ma il 15 dicembre, nella cattedrale di Santa Sofia a Kiev, in un Concilio per la riunificazione (un “Conciliabolo”, per i russi) le chiese non moscovite hanno formato la Chiesa ortodossa d’Ucraina. 
[17] Cf. A. Cristiano, La presa di Kiev antipasto del trionfo della “Terza Roma”. A chi parla Dugin? La visione messianica dell’ideologo coincide con quella del Patriarcato. E Putin?, in «RESET» 22 marzo 2022.
[18] Il primo scritto di Evdokimov è su Dostoevskij e sulla libertà umana, cupa e tragica, tema che richiama le riflessioni di Berdjaev. Se Bulgakov gli ha dato “l’istinto dell’ortodossia”, è Berdjaev che ha svegliato in lui le intuizioni decisive: la debolezza di Dio davanti alla libertà dell’uomo, l’antinomia dell’abisso e della croce, una penetrazione rinnovata del mistero trinitario dove si svela un Dio “patetico”, “pathôn théos”.  Per lui esiste una provvidenzialità dell’emigrazione russa, grazie alla quale, per la presenza attiva di una brillante élite di pensatori religiosi russi in Occidente, l’Ortodossia esce dal suo isolamento secolare e il confronto tra Oriente e Occidente diventa un fatto irreversibile e provvidenziale della storia.
[19] Nel 1914 pubblicò quella che oggi viene definita la “summa del pensiero teologico ortodosso”, capolavoro del pensiero filosofico-teologico contemporaneo: La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere. Pioniere di un nuovo orientamento di pensiero in campo teologico e scientifico, si impegnò a contrastare l’avanzata del pensiero nichilista. Lavorava in settori che interessavano il potere sovietico che lo lasciava così relativamente tranquillo: condusse ricerche tecnico-scientifiche nel settore della fisica, curando molte voci dell’Enciclopedia Tecnica e collaborando con l’Istituto Elettrotecnico di Stato. Nel 1933 venne per l’ennesima volta arrestato e condannato a 10 anni di Gulag per “oscurantismo”. In prigionia gli consentirono di continuare ricerche tecniche, come quelle sul gelo perpetuo o sull’estrazione dello iodio. Realizzò alcune scoperte scientifiche, come quella di un liquido anticongelante. Solo di recente si è scoperta la data della sua fucilazione: 8 dicembre 1937.
[20] N. Berdjaev, Nuovo Medioevo, Fazi, Roma 2004.
[21] Ivi: 144-145.
[22] M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.

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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Attualmente è Referente diocesano per il Sinodo dei Vescovi. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).

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