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La Grande Muraglia d’Europa. Viaggio a Ceuta e Melilla

Il-confine-tra-il-Marocco-e-Melilla,(foto-Koerner)

Il-confine tra il Marocco e Melilla,(foto-Koerner)

di    Roberta Cortina

In Africa, affacciate sul Mediterraneo, a sud-est dallo Stretto di Gibilterra ‒ ponte tra due continenti ed ex ‘fine del mondo’ ‒ sorgono le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, veri e propri residui coloniali d’Occidente tuttora rivendicati dal Marocco che li circonda. Per la loro posizione strategica su un tratto di costa privilegiato, le due città autonome, fazzoletti di terra iberica nella vastità del continente africano, da decenni sono identificate dai migranti come possibili porte d’accesso all’Europa. Giorno dopo giorno, infatti, uomini, donne e bambini provenienti dai più svariati Paesi africani ed asiatici danneggiati da guerre, povertà e persecuzioni d’ogni tipo ‒ disperati a tal punto da lasciare famiglie, case e luoghi d’origine, nonché da affidarsi a bande di malviventi ‒ attraversano interi Stati per poi provare a varcare la soglia sbarrata di Ceuta o Melilla, in alternativa al viaggio per mare verso le coste spagnole, italiane, maltesi, greche o cipriote. Lungo il percorso, gruppi di migranti sfidano sorte e legislazioni, fame e sete, criminali e trafficanti, barriere naturali e artificiali, milizie e prigioni, col fine di giungere, essere accolti e lavorare nella bramata Europa, col sogno di poter al più presto aiutare i propri cari rimasti in patria e finalmente ricongiungersi a loro.

Negli ultimi mesi, su alcuni quotidiani spagnoli e italiani, è apparsa la notizia ricorrente dei nuovi tentativi d’incursione, a Melilla o nella vicina Ceuta, da parte di centinaia di migranti, principalmente africani dell’area maghrebina e subsahariana. Le parole di questi articoli, accompagnate da immagini e suoni carichi di significato, hanno richiamato alla mia mente i ricordi del viaggio d’istruzione al quale ho partecipato pochi anni fa, insieme ad alcuni colleghi universitari, che ha avuto come principale destinazione proprio le due assai singolari città, metà Africa e metà Europa. Le graziose Ceuta e Melilla, in apparenza quiete ed accoglienti cittadine spagnole dai tratti multiculturali, ad un’osservazione più profonda mostrano segni tangibili sia di separatismi tra i due continenti, sia di una coesione interna piuttosto marcata che sembra lasciare poco spazio alle minoranze etniche e linguistiche presenti. Entrambi i fenomeni, di origine storico-politica, socio-economica ed etno-culturale, sono amplificati e resi ancor più evidenti dalla presenza di imponenti mura metalliche a protezione della frontiera Spagna-Marocco, ovvero Unione Europea-Paesi del Sud del Mondo.

Fortezza inespugnabile, o quasi, questa Grande Muraglia d’Europa, costruita poco prima del Terzo Millennio con il preciso scopo di ostacolare l’ingresso e l’accoglienza dei migranti extraeuropei nei territori dell’Unione, è costituita, a Ceuta come a Melilla, da una doppia recinzione alta sei metri, lunga poche decine di chilometri ed estesa dalla terraferma fino alle acque marine, dotata di camminamenti interni per i soldati della Guardia Civil ed i loro mezzi, continuamente sorvegliata su entrambi i fronti da milizie spagnole e marocchine, corredata da torri d’avvistamento, filo spinato e lame di metallo, telecamere a circuito chiuso e rilevatori di vario tipo per un monitoraggio diurno e notturno della frontiera.

Migranti sulla recinzione che separa il Marocco da Melilla vicino a Beni Ansar, 28 marzo 2014.  (JOSE COLON/AFP/Getty Images)

Migranti sulla recinzione che separa il Marocco da Melilla vicino a Beni Ansar, 28 marzo 2014.
( foto JOSE COLON)

Ma l’unione fa la forza e i migranti, a volte in attesa al confine da mesi o anni, accampati fuori dalle mura di cinta o presso limitrofe baraccopoli, non demordono. D’altronde, ormai lontani dalle proprie case e da un passato fatto di disagi, del tutto immersi in un presente instabile, braccati dalle pattuglie marocchine, non potrebbero che andare avanti. E così, se da un lato ci si arma con barriere ipertecnologiche finanziate dall’UE, dall’altro si costruiscono scale di fortuna accumulando legna e frasche, ci si infagotta in indumenti e imbottiture varie per scampare alle insidie di lame metalliche e filo spinato e, soprattutto, si sfruttano caratteristiche come complicità, rapidità e prudenza per sottrarsi il più possibile ad occhi e dispositivi indiscreti. Per incrementare le remote possibilità di compiere l’impresa della scalata delle mura e mettere quindi ufficialmente piede in terra di Spagna, con tutti i diritti di accoglienza e asilo che questo comporta, i migranti si organizzano periodicamente in cospicui gruppi e tentano un’incursione di massa.

Tra centinaia di persone all’assalto della muraglia, solo pochi fortunati, complice il caos generale creatosi, riescono talvolta a sfuggire ai severi controlli incrociati e ad entrare in Europa, supportati dalle grida di incitazione dei tanti che invece sono stati vinti dalla fortuna o dalle proprie forze. Soltanto a questo punto, come stabilito dalla legge spagnola in materia di immigrazione, gli uomini acquisiscono il diritto di essere ospitati in un centro d’accoglienza locale. Da qui potrebbe prospettarsi per loro una nuova vita nella penisola iberica o altrove nel Vecchio Continente, ma la strada da percorrere non è certo finita, così come permangono le insidie, gli ostacoli da superare e il rischio di dover affrontare un rimpatrio. Anche se felici del proprio successo, i vittoriosi sono spesso costretti a separarsi dai propri cari rimasti oltre il muro. Non tutti gli uomini giunti in cima alla seconda muraglia riescono però nella discesa verso la libertà. Molti sono prontamente stanati dalla Guardia Civil spagnola e, temendo di essere respinti e consegnati ai soldati africani, sostano in equilibrio precario, fino allo stremo delle forze, sulle recinzioni o sugli adiacenti pali della luce. Tra coloro che sono rimasti intrappolati in terra d’Africa o tra le due recinzioni, alcuni sono arrestati dai militari marocchini, altri sono riportati indietro, vicino al confine con l’Algeria, altri ancora fuggono nei dintorni, verso le baraccopoli; quasi tutti ritentano però di varcare in qualche modo le soglie dell’Europa.

Durante i tentativi d’ascesa, qualche indumento rimane impigliato alle reti o è abbandonato per strada dopo l’accesso in città, tra urla e manifestazioni di gioia. Nonostante le precauzioni prese, come l’indossare più strati di abiti, guanti e calzari, diversi uomini si feriscono col filo spinato. Altri subiscono ancora violenze d’ogni specie sull’uno e/o sull’altro versante, trovando persino la morte. I feriti sono curati dai volontari di Medici Senza Frontiere o di altre organizzazioni umanitarie, come Amnesty International. Questi sembrano essere gli unici ad assisterli a dovere, soprattutto fuori dai confini europei. Nei territori dell’Unione, infatti, si trovano dei sovraffollati centri di prima accoglienza per migranti, diversi dai centri di detenzione sparsi in tutto il Nord Africa con il beneplacito dei governi europei. Secondo quanto riscontrato dai medici dell’organizzazione MSF, agli abusi esercitati dai trafficanti d’esseri umani, si sommano non di rado quelli dei militari, sia spagnoli che marocchini. Si tratta di mancata assistenza ai feriti, punizioni corporali e a sfondo sessuale, esercitate anche a danno di minori, deportazioni e abbandoni in zone semidesertiche, o addirittura omicidi. Nel 2005, ad esempio, sia a Melilla che a Ceuta, alcuni uomini impegnati nell’ascesa della muraglia hanno trovato la morte, colpiti alle spalle dalle armi dei soldati in nome di un assai discutibile diritto alla difesa.

Migranti cercando di attraversare la recinzione che separa il Marocco a Melilla, 3 aprile 2014.  (Alexander Koerner/Getty Images)

Migranti cercano di attraversare la recinzione che separa il Marocco a Melilla, 3 aprile 2014. (foto A. Koerner)

Tutto ciò può accadere ai migranti solo per avere osato oltrepassare il proprio Paese ed una parete. Si potrebbe affermare, dunque, che le barriere di Ceuta e Melilla non solo non abbiano affatto arrestato il flusso dei cosiddetti viaggi della speranza, ma abbiano altresì contribuito ad alimentare gravi episodi di violenza, abuso di potere e calpestio dei diritti umani fondamentali. Non bisogna dimenticare, inoltre, che tra i migranti, spesso etichettati indistintamente come “clandestini” e “irregolari”, vi sono anche diversi profughi richiedenti asilo politico, dunque probabili rifugiati, che meritano per legge di essere accolti.

A Ceuta e a Melilla c’è una netta predominanza culturale della maggioranza spagnola sulle minoranze africane ed asiatiche presenti. Nonostante la convivenza con la prima sia buona ‒ come testimoniano l’aspetto orientaleggiante di alcuni edifici e la presenza di luoghi di culto islamici e indù ‒ queste minoranze sembrano concentrarsi in quartieri periferici o un po’ isolati dai rispettivi centri storici cittadini, ricchi di abitazioni in stile coloniale, chiese e qualche ardita architettura che ricorda la catalana Barcellona. In parecchi scorci delle due città, quasi a voler ostentare un patriottismo esasperato e a giustificare la presenza iberica sul suolo nordafricano, svettano stemmi e bandiere ispaniche. Ricordo bene quando a Ceuta, insieme ai miei compagni di viaggio, ho assistito ad un solenne alzabandiera domenicale, tra pomposi saluti militari, trombette della banda musicale, inno nazionale spagnolo ed ampio sfoggio di fucili. Tutt’attorno, gli applausi di una folla di soli ispanici con indosso gli abiti della domenica, i saluti composti delle autorità locali dall’alto di una finestra del palazzo del governo, i bambini pigiarsi nell’agguantare le bandierine della Spagna dalle mani di un’austera donna in divisa mimetica. In quella particolare occasione, noi studenti di antropologia siamo stati spettatori interessati di un concentrato di segni e simboli che alludono al bisogno degli ispanici dell’enclave di mostrare a se stessi e agli altri la propria identità culturale e territoriale.

All’esterno di Ceuta e Melilla, in territorio marocchino, il paesaggio culturale cambia radicalmente. D’altronde si passa in modo repentino dal Primo al Terzo Mondo. Persino il tempo cambia; bisogna infatti ricordarsi di sintonizzare gli orologi secondo il fuso orario adottato dallo Stato, avanti di una o due ore, a seconda se è in uso l’ora solare o legale. Una volta superati i controlli documentali e varcata la frontiera in entrambe le direzioni‒ azione che il nostro gruppo ha compiuto più volte per visitare i dintorni ‒ si notano subito, oltre al diverso aspetto e alla differente distribuzione di abitanti, strade e edifici nel territorio, le differenze linguistiche nelle indicazioni stradali, castigliano da un lato, arabo dall’altro, e il diverso modo di vestirsi, parlare, comportarsi della popolazione. Ciò che ci ha maggiormente colpito sono stati i caotici e variopinti mercati, per certi versi così simili a quelli siciliani, soprattutto quello labirintico della medina di Fez, antica città imperiale dell’entroterra marocchino, dove è possibile trovare praticamente di tutto: dagli alimenti mediterranei a quelli più esotici, dall’argenteria alla ferramenta, dagli abiti tradizionali alle dentiere di seconda mano, dagli acquirenti in sella ad asini agli sventurati animali del macellaio, uccisi al solo sguardo di un probabile cliente. Ad attirare la nostra attenzione lungo la tortuosa strada per Fez sono state anche le tecnologie assai rudimentali adottate nelle campagne, fatte di aratri e bestie da soma, le enormi distese di cannabis sulle colline e i diversi coltivatori affrettatisi, al solo passaggio del pulmino, a pubblicizzare ‒ tramite gesti ‒ spinelli e altri prodotti. In confronto alla più tranquilla e benestante Spagna, il Marocco si presenta insomma come il regno del caos e dell’arte dell’arrangiarsi. Ma in fondo, le stesse Ceuta e Melilla, per la presenza delle barriere di contenimento continuamente assaltate e, paradossalmente, del contrabbando di sostanze più o meno lecite e illecite, somigliano solo apparentemente al regno dell’ordine. Impossibile non notare, infatti, sia i migranti accampati fuori dalle mura delle enclave, in attesa di un nuovo assalto, che le file dei contrabbandieri, soprattutto donne, cariche fino all’inverosimile di merci, in attesa di entrare o uscire dal confine con l’evidente consenso delle guardie corrotte.

 bandiera di Melilla

Bandiera di Melilla

La bandiera di Melilla, in età classica terra alla fine del mondo, raffigura ‒ su uno sfondo azzurro mare ‒ lo stemma della città tra l’effigie delle antiche Colonne d’Ercole, una delle quali, secondo alcuni locali, sarebbe identificabile con la vicina Ceuta, mentre l’altra, com’è noto, con Gibilterra. Fra le colonne dell’icona, appare la scritta Non plus ultra, quasi ‒ per uno scherzo del destino ‒ a voler rammentare la fine di ogni viaggio, il confine oltre al quale non è possibile avventurarsi. Allo stesso modo, tanti viaggiatori contemporanei, giunti di fronte ad una barriera invalicabile, hanno visto svanire il sogno di poter presto concretizzare i loro diritti umani fondamentali. Ma la Storia ha prontamente superato il Mito e le Colonne non hanno certo ostacolato la Speranza; quella di poter trovare, oltre il vecchio mondo conosciuto, altri luoghi, forse migliori, dove potersi riscattare da un’esistenza fatta di soprusi, privazioni e precarietà. C’è da chiedersi, pertanto, se innalzare delle mura ‒ oltretutto attrezzate come squallide trincee di guerra ‒ davanti alle porte d’Europa sia la giusta soluzione, o semplicemente una soluzione, al fenomeno dei flussi migratori della contemporaneità. Come lasciano intuire le attuali dinamiche geopolitiche, l’inasprirsi dei governi in materia di nomadismi ha determinato soltanto lo spostamento di alcune rotte migratorie verso l’Europa, qualche cambiamento di percorso che non ne ha affatto diminuito il flusso, semmai ha dato origine a itinerari di viaggio più lunghi e rischiosi. È probabile che, nonostante le violenze e le perdite umane degli ultimi decenni, qualsiasi barriera fisica e culturale si intrometta tra la certezza di un’esistenza estremamente disagiata e la possibilità di un riscatto, continuerà ad essere presa d’assalto da individui disperatamente coraggiosi, armati solo di speranza, intrappolati in una sorta di limbo tra Oriente e Occidente, vita e morte.

Dialoghi Mediterranei, n.8, luglio 2014

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Roberta Cortina, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, ha discusso una tesi, esito di ricerca sul campo, intitolata La cuccagna sul mare. Il gioco della ‘ntinna sulle coste siciliane. È interessata agli ambiti d’indagine relativi alla cultura del mare e ai processi culturali connessi alle dinamiche migratorie. Attualmente è impegnata nella raccolta di storie di vita nell’ambito di uno studio sulle attività del Terzo Settore.

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