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La funzione curativa della letteratura al tempo delle pandemie. Boccaccio, l’onesta brigata e un mazzetto di basilico

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Maestro dello Scambinato di Rouen (1460 c.), La compagnia dei giovani siede nel giardino mentre a Firenze infuria la peste, Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Ms. Fr. 129, c. 1r

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di Valerio Cappozzo

Con l’avvento della pandemia è ritornato in auge uno dei classici più noti della letteratura italiana scritto in occasione della peste del 1348. Negli ultimi mesi sul Decameron sono state organizzate letture pubbliche, conferenze accademiche, oltre a riedizioni del testo e filmati che hanno preso spunto da una o più novelle.

Contravvenendo a ogni decreto comunale che vietava assembramenti, nel libro trecentesco Boccaccio fa incontrare in un luogo pubblico dieci giovani, sette donne e tre uomini non congiunti tra di loro, i quali decidono «per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose» (I, I, Introduzione § 79) di trovare conforto raccontandosi delle storie in un luogo ameno e isolato dalla città. I dieci narratori escono così da Firenze, epicentro del contagio pestifero, e si accomodano in una villa nelle campagne di Fiesole.

In Italia, all’epoca come ora, il «numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo» (§ 13), per cui ognuno lanciava la propria idea, virologi professionisti o improvvisati tali, non facendo chiarezza sui numeri dei contagi, sui rimedi da adottare o sulle eventuali cure e le loro oggettive funzioni preventive. Nel Medioevo come questa estate, dove la voglia di vacanze ha fatto saltare le misure contenitive imposte dal governo, molte persone «in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito» (§ 21), con il risultato matematico di un incremento esponenziale dei contagi.

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Andrea del Castagno, Ritratto di Giovanni Boccaccio, c. 1450 (particolare modificato)

Se il Decameron è tornato negli ultimi mesi sotto gli occhi di molti, anche a livello internazionale, lo si deve a queste somiglianze con il tempo presente, e di certo al periodo storico a cui appartiene come alla pandemia durante la quale è ambientato. Ma oltre allo svago che offre la lettura e alla conseguente consolazione che se ne può ricavare, in relazione alle preoccupazioni per il futuro e al dolore per la morte di tante persone, l’opera di Boccaccio si inserisce in quel filone letterario medievale definito enciclopedico, ovvero colmo di saperi e di informazioni sui più disparati campi della conoscenza. Non solo testo di finzione, dunque, ma contenitore di princìpi validi per la cultura e la formazione umana e sociale degli individui.

La praticità che sta alla base del testo letterario corrisponde appieno alla diffusione del sapere scientifico che nel basso Medioevo arricchisce la letteratura fornendo elementi interpretativi essenziali per la comprensione dell’opera. L’utilizzo effettivo della letteratura non si basa solo su episodi che si avvicendano lungo la narrazione, ma principalmente su una funzione atta a esprimere per metafora anche nozioni importanti altrimenti difficili da comprendere data la loro natura scientifica. Dante, per esempio, usa l’astronomia per inquadrare il cammino oltremondano del personaggio, calcolando la posizione delle costellazioni che, riportate sul meridiano di Firenze, tracciano precisamente la geografia celeste dei primi anni del Trecento, con la considerazione degli influssi che gli astri possono avere sulle azioni e sul destino degli individui.

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Maestro di Jean Mansel (1430-1450), Lorenzo viene ucciso dai fratelli di Lisabetta; Lisabetta nasconde la testa dell’amato in un vaso, Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal, Ms. 5070, c. 162r

Nel Decameron Boccaccio utilizza alcuni rimedi erboristici mediorientali da adoperare in caso di contagio epidemico. Nella celebre novella di Lisabetta da Messina (IV, 5), raccontata nella giornata dedicata agli amori che hanno avuto una fine infelice, l’amato Lorenzo viene ucciso dai fratelli della donna, contrari al loro amore. Durante un sogno l’uomo rivela a Lisabetta il luogo dove è sepolto e così la ragazza, pur di rimanergli vicina, disseppellisce il corpo, ne preleva la testa, l’avvolge in un drappo e la mette in un «testo» di basilico, ossia in un vaso di terracotta che innaffierà quotidianamente con le proprie lacrime:

«con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di questi ne’ quali si pianta la persa o il basilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo; e poi messavi sú la terra, sú vi piantò parecchi piedi di bellissimo basilico salernetano, e quegli da niuna altra acqua che o rosata o di fior d’aranci o delle sue lagrime non innaffiava giammai» (IV, 5, § 17).
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Maimonide insegna la misura dell’uomo, 1347, Copenaghen, Biblioteca Reale, Ms. Heb. 37

Insieme alle sue lacrime Lisabetta deterge la pianta di basilico, che ricopre la testa di Lorenzo, con acqua di rose e infusi di bucce d’arancia per tenerla in un buono stato di conservazione. L’utilizzo della pianta aromatica insieme agli infusi fanno parte dei precetti mediorientali in vigore nella Scuola Medica Salernitana – conosciuta da Boccaccio durante l’adolescenza napoletana (1327-1340) –, con il fine di curare le malattie epidemiche, «levianiscum cum basilico resoluto in oleo rosato» [1].

Nella stessa Scuola, più di un secolo prima del Decameron, circolavano le teorie dell’andaluso Mōsheh ben Maymōn, più noto come Mosè Maimonide (1138-1204), uno dei grandi pensatori, medici e talmudisti dell’ebraismo, il quale utilizza piante ed erbe curative, tra cui il basilico, nei suoi medicamenti:

«Non bisognerebbe mai dimenticare di rafforzare il potere psichico con nutrimento e con buoni odori, come aromi caldi come il muschio, l’ambra, le foglie di basilico e l’aloe ligna per malattie fredde o ingredienti freddi come rose, ninfee, mirto e viole per le malattie calde associate al calore, cioè alla febbre».

Il brano di questi scritti medici a cui sembra ispirarsi Boccaccio si trova più avanti con la descrizione di come comportarsi per essere di compagnia al paziente, esattamente come fanno tra di loro i dieci narratori decameroniani:

«Allo stesso modo, si dovrebbe rafforzare il potere della vita con strumenti musicali, raccontando al paziente storie gioiose che allargano la sua anima e dilatano il suo cuore, e mettendo in relazione notizie che distraggono la sua mente e lo fanno ridere insieme ai suoi amici. Bisogna selezionare le persone che possono tirarlo su di morale, servirlo e prendersi cura di lui. Tutto questo è obbligatorio in ogni malattia. Se manca un medico, è necessario organizzare queste cose da soli»[2].

Nel caso di Boccaccio è la letteratura ad assumere una funzione curativa laddove il paziente è il lettore stesso al quale vengono raccontate cento storie per distrarlo e consolarlo dai tempi pestiferi che sconvolsero il mondo nel 1348, novelle che anche oggi nel 2020 continuano ad alleviare la tensione e a dare spunti per ragionare su come affrontare il tempo presente.

Boccaccio si rivolge al passato per costruire le sue storie, non solo con riferimento alle tradizioni scientifiche dell’antichità greco-latina o del Medioevo cristiano, ebraico e arabo, ma anche alla cultura popolare, quella saggezza mista di superstizione e di dottrine leggendarie attraverso cui il Decameron poggia per generare il suo aspetto più squisitamente letterario.

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Roma, Biblioteca Casanatense, pianta di basilico, Historia Plantarum, Ms 459 (fine XIV sec.), c. 188r

Opera che da secoli continua a restituire l’idea della letteratura come strumento utile a diversi fini, da quello più immediato del piacere della lettura a quelli più sottili e nascosti che riguardano i saperi che all’epoca erano ritenuti essenziali per la formazione della società civile.

All’origine di un mazzetto di basilico ci sono, infatti, diverse storie che hanno ispirato lo scrittore toscano. Quella relativa alle Teste di Moro, i vasi antropomorfi che diventeranno il vaso di Lisabetta, di cui si narra che durante la dominazione moresca della Sicilia intorno all’anno Mille, nel quartiere palermitano Kalsa, ora Mandamento Tribunali, un uomo si innamorò di una fanciulla la quale, una volta ricambiata la passione, scoprì che era sposato e in procinto di ritornare in Oriente. Tradita e disonorata, durante la notte, uccise il Moro e gli tagliò la testa che trasformò in un vaso di basilico per tenerla sempre vicino a sé.

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Teste di Moro siciliane con piante di basilico, Caltagirone

Tale fu la cura che ebbe dell’“erba del re”– dalla probabile etimologia greca basilikos, a sua volta proveniente da basileus – da spingere i vicini, estasiati dall’odore delle foglie, a costruire vasi a forma di testa e a piantarvi l’erba aromatica.

L’infelice storia della stessa Lisabetta da Messina, dove il vaso di basilico è parte centrale del racconto, finisce con la citazione dei primi versi di un’antica ballata popolare siciliana in cui un vaso, in siciliano «grasta», o in toscano «testo» – termine usato da Boccaccio –, viene rubato ad una donna. Secondo la struttura della khargia, composizione poetica ispano-araba che esprime il lamento per l’assenza dell’uomo amato, ella piange il furto del basilico salernitano che cresceva rigoglioso sotto le sue attente cure e di cui l’odore ha provocato l’invidia delle altre persone:

 Qual esso fu lo malo cristiano
che mi furò la grasta
del bassilico mio selemontano?
Cresciut’era in gran podesta,
e io lo mi chiantai colla mia mano:
fu lo giorno de la festa.
Chi guasta l’altrui cose, è villania.
Chi guasta l’altrui cose, è villania
e grandissimo peccato.
E io, la meschinella, ch’i’ m’avia
una grasta seminata!
Tant’era bella, a l’ombra mi stasia
da la gente invidiata.

Il dolore per il furto della pianta, che «sanava» la proprietaria e che la confortava dalle inquietudini quotidiane, le procurerà tanto dolore che se non riuscirà a ritrovarla la porterà alla morte, come succederà per Lisabetta da Messina una volta che i fratelli scopriranno il vaso in cui è custodita la testa dell’amato:

Suo ulimento tutta mi sanava,
tant’avea freschi gli olori;
e la mattina quando lo ‘nnaffiava
a la levata del sole
tutta la gente si maravigliava:
«Onde vien cotanto aulore?»
E io per lo suo amor morrò di doglia.
E io per lo suo amor morrò di doglia,
per l’amor de la grasta mia.
Fosse chi la mi rinsegnar di voglia!
Volontier la raccateria:
cento once d’oro ch’i’ ho ne la fonda
volontier gli le doneria
e doneria- gli un bascio in disianza [3].

 In questi tempi recenti che ci hanno visti reclusi, possiamo capire meglio di prima il valore di un «bascio in disianza» e di quanto un oggetto possa significare il desiderio di conforto in una situazione difficile e fuori dal comune. Lisabetta coltiva un mazzetto di basilico in un «testo», un vaso che contiene la testa dell’amato suggerendoci con questo gioco semantico – Lisabetta «disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico» (IV, 5, § 1) – l’intento di Boccaccio di usare la letteratura come mezzo consolatorio con fine curativo.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] La citazione è tratta dal cap. XCV, Cura ad omnes infirmitates epatis – dove l’epatite è intesa come malattia epidemica –, della Collectio Salernitana ossia documenti inediti, e trattati di medicina appartenenti alla scuola medica salernitana, raccolti ed illustrate da G.E.T. Henschel, C. Daremberg, e S. De Renzi, a cura di S. De Renzi, t. IV, Napoli, Tipografia del Filiatre-Sebezio, 1856: 250. Per uno studio critico di questi testi, si rimanda a: La Collectio Salernitana di Salvatore De Renzi, a cura di D. Jacquart e A. Paravicini Bagliani, Edizione Nazionale: La Scuola Medica Salernitana, vol. 3, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2008. Sulla conoscenza di Boccaccio della Scuola Medica Salernitana, si pensi alla novella che vede protagonista Matteo Silvatico (IV: 10), medico di Salerno e maestro nell’utilizzo di erbe medicinali, probabilmente incontrato da Boccaccio nel periodo napoletano.
[2] Traduco entrambe le citazioni dall’edizione degli scritti medici di Mosè Maimonide edita in tempi moderni in inglese: «One should never forget to strengthen the psychic power with nourishment and to strengthen the psychic power with good odors, such as hot aromatics like musk, amber, basilicon leaves and ligna aloe for cold illnesses, or cold ingredients such as roses, water lily, myrtle and violets for hot illnesses associated with heat, i.e., fever […]. Similarly, one should strengthen the vita power with musical instruments, by telling the patient joyful stories which widen his soul and dilate his heart, and by relating news that distracts his mind and makes him laugh as well as his friends. One should select people who can cheer him up, to serve him and to care for him. All this is obligatory in every illness. If a physician is lacking, one must arrange for these things by oneself», M. Maimonides, Maimonides’ Three Treatises on Health. Maimonides’ Medical Writings, a cura di F. Rosner, vol. IV, Haifa, The Maimonides Research Institute, 1990: 47.
[3] Si cita dall’edizione: Poesia italiana. Il Trecento, a cura di P. Cudini, Milano, Garzanti, 1978: 268-270.

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Valerio Cappozzo, vice-presidente dell’American Boccaccio Association e Professore di letteratura italiana all’University of Mississippi dove dirige il programma di Italianistica, è autore del Dizionario dei sogni nel Medioevo. Il Somniale Danielis in manoscritti letterari (Leo S. Olschki 2018). Oltre all’interpretazione dei sogni lavora sul concetto di diplomazia culturale tra il mondo cristiano e musulmano nel Medioevo e nel Rinascimento. Membro del comitato scientifico di diverse collane e riviste letterarie e filosofiche, è il co-direttore della rivista «Annali d’Italianistica».

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