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La didattica a distanza nell’Università. Voci degli studenti e spunti per una riflessione

coverdi Veronica Mesina

Qual è l’impatto che la didattica ha avuto sugli studenti e sui loro vissuti personali? Questa è la domanda da cui muove questa indagine ancora in divenire [1]. Preliminarmente è necessario che io ponga delle avvertenze precauzionali. Durante il mio lavoro di ricerca e lettura mi sono imbattuta in una letteratura le cui dimensioni hanno avuto, ironicamente forse, una crescita esponenziale dall’insorgere della pandemia fino ad oggi. È difficile approcciarsi alla tematica senza il timore che ciò che ci si appresta ad esporre non sia già stato detto in mille altre forme, talvolta migliori. In questa circostanza, inoltre, più volte mi son domandata e continuo a domandarmi quali siano i confini e i limiti temporali perché un lavoro di ricerca possa dirsi un lavoro scientifico – e con questo aggettivo non intendo neutrale – che accresce il sapere sulla realtà, e non semplicemente merce all’interno del bulimico mercato delle pubblicazioni.

Abbiamo avuto e tuttora abbiamo di fronte ai nostri occhi un fenomeno di una portata epistemologica inaudita, eppure già dopo una settimana dal lockdown cominciavano a moltiplicarsi le pubblicazioni e gli interventi pubblici. Nello specifico, specie nella fase iniziale, era naturale domandarsi: in un momento in cui l’attendibilità dei dati e delle statistiche è ancora in costruzione, quali sono le tempistiche per un lavoro di effettivo valore scientifico intorno a questioni di salute pubblica e società?

Nondimeno, per un beffardo rovesciamento delle priorità, se è vero che son stati redatti innumerevoli articoli sulla spersonalizzazione indotta dall’uso delle mascherine, è altrettanto vero che sono veramente esigue, per non dire assenti, pubblicazioni che si dedichino a un’indagine delle voci di chi, da un anno a questa parte, ha vissuto i piaceri e dispiaceri della DaD come studente universitario [2]. Senza avere la pretesa di dichiarare gli studenti universitari come le uniche vere vittime senza voce di questa pandemia, questo articolo si propone, con consapevolezza prospettica e parziale, di esprimere e riflettere sulle parole di chi la pandemia l’ha vissuta come studente universitario, ma anche come persone con i propri specifici problemi e le proprie specifiche esigenze, materiali e contingenti.

In quest’ottica, il presente contributo si strutturerà come segue: due sezioni preliminari di inquadramento generale della situazione pandemica e dei meccanismi che essa ha innescato, tanto sul piano delle agency collettiva quanto sul piano delle discorsività prodotte; infine, la penultima sezione – seguita poi dalle conclusioni – si focalizzerà specificatamente sulla DaD e sulle interviste, da me raccolte tra maggio e luglio 2020, ad alcuni studenti universitari.

bergamo

Bergamo

La collettività ai tempi del Covid

A marzo del 2020 il nostro Paese stava attraversando quello che possiamo definire senza troppi giri di parole il momento più critico della pandemia e, senza eccessivi azzardi, uno dei momenti più difficili della sua storia repubblicana. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo sono dieci i comuni in Lombardia e uno in Veneto che vengono dichiarati zona rossa – non si entra e non si esce da questi comuni. Nel marzo 2020 l’Italia è la seconda nazione più colpita al mondo. Si assiste ad un’esponenziale crescita dei casi e delle morti, che ha come conseguenza diretta l’adozione da parte del governo italiano di drastiche misure di contenimento del contagio. Dal 5 di marzo viene sospesa su tutto il territorio nazionale ogni sorta di attività didattica e dal 9 il presidente del Consiglio Conte dichiara l’Italia come zona protetta – senza distinzioni di zone: gli unici spostamenti autorizzati devono essere motivati da ragioni di lavoro, salute o necessità.

Da questo momento in poi fino all’estate, la vita sociale in Italia – e in un secondo momento, nel resto del mondo – è costretta a un mutamento forzato: niente più aperitivi dopo lavoro, niente più cene con amici o in famiglia, niente più cinema, teatro e concerti, niente più passeggiate al parco, niente più momenti conviviali tra anziani e niente più lezioni, né a scuola né all’università. Ma, mentre le strade delle città si fanno deserte e spettrali e gli ospedali – come molti ripetono – «le trincee» in cui si affronta con dedizione e disorientamento il virus, lo spazio domestico si riempie. Le porte di casa varcate le quali, fino a quel momento, si accedeva alla sfera dell’intimo, diventano ora il luogo dove i confini del pubblico e privato sfumano progressivamente fino a scomparire.

In un primo momento di spaesamento iniziale, son state attuate una serie di strategie di salvaguardia della socialità tramite l’uso di internet e delle varie piattaforme social e peculiarmente in Italia – per la salvaguardia della prossimità più prossima – tramite l’uso dei balconi. Nel primo approccio al domicilio coatto i balconi son stati i veri protagonisti: teatro di concerti e iniziative di solidarietà [3], si son proposti come luogo nel quale poter esorcizzare l’angoscia e rinnovare un senso di comunità.

«Sono nate così le pratiche più disparate e bizzarre: flash mob sui terrazzi con canti e balli, aperitivi virtuali sui social, lenzuola appese ai balconi con arcobaleni colorati e la scritta ‘Andrà tutto bene’, frase ripetuta come un mantra senza avere precisa cognizione del quando e come e se tutto sarebbe finito. Così si è cercato un surrogato di socialità per esorcizzare la paura e al contempo preservare il (proprio) corpo dal contagio. Questo surrogato, veicolato dai social, si concretizza nella forma di appuntamenti definiti e veicolati online, a volte supportati da artisti o perfino da radio (come nel caso della trasmissione a radio unificate dell’Inno di Mameli di venerdì 20 marzo). Sono rituali collettivi in cattività, ciascun individuo confinato sul proprio terrazzo o balcone, ma al contempo unito ad altri confinati, i quali generano, attraverso la musica e il canto, l’effervescenza collettiva descritta da Durkheim (1912). Sono riti di una religione civile (Bellah 2009) che non credevamo ci appartenesse come popolo italico: esporre la bandiera tricolore dal balcone, cantare l’Inno di Mameli, mettere il tricolore e un cuore azzurro su Instagram o Whatsapp»[4].

Questo fenomeno è andato via via dissipandosi con l’aggravarsi della situazione e lo stabilizzarsi dello stato di emergenza. Le persone, piano piano, hanno dovuto riadattare i loro stili di vita a una sedentarietà fisica e mentale, aggravata dalle specifiche problematiche familiari e sociali – spesso gravi come emerge dal rapporto annuale ISTAT del 03/07/2020 [5]. Inoltre, il moltiplicarsi di notizie e continui aggiornamenti sui dati della pandemia e, ancor più, le immagini di una Bergamo straziata [6], che dal 18 marzo hanno iniziato a popolare le prime pagine dei principali quotidiani del paese, hanno posto una battuta d’arresto sulle grandi manifestazioni sonore ai quali nei giorni precedenti la maggior parte delle città aveva dato sfogo. Le immagini che ritraevano le strade Bergamo – in quel momento, la provincia più colpita dal virus – attraversate dai camion dell’esercito, che trasferivano le salme in altre città resesi disponibili per la loro cremazione, hanno sprigionato uno sgomento che ammoniva la collettività al silenzio e alla riflessione. È nato tutto un dibattito sull’appropriatezza di tali flash mob: alcuni lo consideravano irrispettoso nei confronti del lutto che le persone dell’area di Bergamo e altre regioni del Paese stavano affrontando in quel momento [7].

balcone-jpg-ftaglio_full2h605w1280pfhw4a80231I discorsi e la pandemia come fatto sociale totale

Nel momento in cui la storia fa il suo solo ritorno a gran voce nelle nostre vite, un’altra dialettica che si impone è quella tra il lessico aggressivo e il lessico rassicurante che, facendo appello in un caso sul principio di autorità e nell’altro sul principio di fiducia, ha caratterizzato le discorsività degli attori coinvolti nel dibattito pubblico – giornalisti, divulgatori scientifici, medici e figure istituzionali in generale [8]. Le tv nazionali, le dirette streaming, gli articoli dei giornali hanno via via intessuto la fitta trama discorsiva attraverso la quale il virus veniva testualizzato e la comunità immaginata [9]:  il virus come il nemico invisibile e l’Altro come sospettato e possibile untore; l’odio verso i runners e l’attentato alla salute pubblica; il ritorno alla metafora della natura o della divinità come punitiva; l’assalto ai supermercati e le iniziative di raccolta di beni di prima necessità; la metafora della guerra e l’eroicizzazione dei medici come soldati in prima linea; l’archivio simbolico – le mascherine, l’igienizzante, i guanti – e fotografico – gli operatori addetti alla sanificazione ambientale delle strade vuote, il personale sanitario catturato nei momenti di maggiore affaticamento e i segni delle mascherine sui loro corpi; il “Modello Lombardia”, il “Modello Veneto” e il “Modello Italia” e l’inevitabile evidenza di un Sistema Sanitario Nazionale impreparato e prosciugato dai tagli alla spesa sanitaria fatti dai precedenti governi. In merito a quest’ultimo punto, pur nella dissonanza teorica, non si può non afferrare con chiarezza quanto dice Eva Illouz:

«La salute, secondo Michel Foucault, è l’epicentro della governance moderna (parlava, in questo senso, di biopotere). Attraverso la medicina e la salute mentale, affermava, lo Stato amministra, sorveglia e controlla la popolazione. In un linguaggio che egli non avrebbe utilizzato, potremmo dire che il contratto implicito tra gli Stati moderni e i cittadini si fonda sulla capacità dei primi di garantire la sicurezza e la salute fisica dei secondi. Questa crisi mette in luce due elementi opposti: in primo luogo, il fatto che questo contratto, in numerose parti del mondo, è stato progressivamente violato dallo Stato che ha modificato la sua vocazione tramutandosi in un attore economico unicamente interessato a ridurre il costo del lavoro, ad autorizzare o favorire la delocalizzazione della produzione (quella dei farmaci necessari, tra le altre cose), a deregolamentare le attività bancarie e finanziarie, e a provvedere alle esigenze delle imprese. Il risultato, intenzionale o meno, è stata una imponente erosione del settore pubblico. E il secondo elemento è il fatto, evidente agli occhi di tutti, che solo lo Stato può gestire e superare una crisi di tale portata. Anche il mammut Amazon non può fare altro che spedire pacchi postali, peraltro, con grandi difficoltà» [10].

La nuova realtà emergente ha senza dubbio messo in luce il forte disorientamento e la vulnerabilità che la collettività e i singoli individui hanno avvertito di fronte alla portata inedita di un evento che rientra a pieno titolo nella definizione muassiana di fatto sociale totale – ovvero quei fatti che nel loro verificarsi «mettono in moto, in certi casi, la totalità della società e delle sue istituzioni»[11]. Da un giorno a un altro lo sfavillante mondo moderno ha assistito attonito al delinearsi di una nuova realtà, fatta di nuovi dubbi, nuovi significati e nuove pratiche. Così i gesti di affetto e conforto che, nel nostro contesto, sono innervati da una fondamentale prossimità relazionale e spaziale – il via à vis, due mani che si stringono, i baci, gli abbracci, il mangiare insieme – hanno dovuto dilatare gli spazi in nome di una distanza solidale. Nelle parole del sociologo Tommaso Vitale:

«Innanzi tutto, la solidarietà̀ oggi reinterpreta la grammatica di cui dispone ripensando i significati corporali e fisici delle dimensioni di vicinanza, relazione e continuità̀. Non penso che la dimensione profondamente corporea dell’esserci, maturata negli anni dentro le culture laiche e religiose dell’Italia civile, sia stata sostituita da un esserci su Facebook. Vedo semmai che la voce e l’emozione diventano più̀ importanti del contatto fisico, dell’abbraccio: esse articolano un rapporto verso l’altro profondamente diverso da quello tradizionale, in cui bisognava esser presenti a fianco degli altri in situazione difficile in maniera discreta, silenziosa, operosa. Si andava per stare, proporre e realizzare alternative solidali. Oggi mi sembra che in parallelo emerga anche un’altra dinamica: si tratta di esprimere una condivisione che non possiede più̀ un repertorio semplice di gesti, e che richiede quindi di esprimere con la voce un’emozione. Sia attraverso una ricerca personale di modalità̀ proprie e uniche, sia, invece, aderendo a delle modalità̀ espressive più̀ collettive» [12].

Nella sfera del sociale si è assistito alla compresenza di forze contrastanti e, in una certa misura, dialettiche anche all’interno della relazione individuo-collettività: se la salvaguardia della collettività è determinata dall’auto-isolamento, se la direzione dell’ingiunzione a “fare il bene” cambia direzione – dall’uscire di casa per “fare il bene del prossimo” al “fare il bene del prossimo” stando a casa – cosa cambia nelle pratiche di solidarietà? Abbiamo visto i balconi e le finestre come luoghi di ricostruzione del ‘sociale’; nondimeno, questi stessi balconi e finestre son diventati, talvolta, luoghi da cui l’occhio poliziesco di alcuni zelanti cittadini redarguiva le azioni altrui – comportamento che, si potrebbe anche ammettere con onestà, incentivato in alcuni casi dai discorsi di alcuni personaggi pubblici [13]. Laddove la possibilità di azione del cittadino viene posta sotto scacco e investita della moralizzazione del discorso pubblico, la sua partecipazione alla vita collettiva si manifesta tanto in iniziative di solidarietà quanto nella sfera del controllo e dell’auto-controllo, della disciplina che auto-disciplina. Di qui l’ambivalenza della sfera del controllo: da un lato, come possibilità di controllo del bene comune e, dall’altro, come tentativo di rivalsa nei termini per cui “l’uscita di uno vanifica l’autoisolamento dell’altro”.

Come si legge in un contributo sull’Atlante della Treccani, nella sezione dedicata al Coronavirus:

«Le crisi favoriscono le innovazioni, i cambiamenti anche profondi del nostro modo di agire e di pensare, trasformano la nostra vita quotidiana. Cambiamenti che spesso sono positivi e sorprendono le persone proprio perché le crisi non le desideriamo affatto e ci feriscono; è difficile uscirne tutti insieme, in quanto, come sta succedendo per il Covid-19, causano delle perdite che non ammettono compensazioni. […] Un aspetto importante è il ripensare la solidarietà; nell’atmosfera surreale che avvolge le nostre vite, è a un tempo più facile e più difficile esprimere solidarietà. Più facile perché sotto attacco siamo noi e non l’altro, il diverso da noi, ed è quindi spontaneo ‘stringerci a coorte’. Più difficile perché la paura può generare insieme all’ansia anche l’egoismo, attenzione a sé e distrazione dal pericolo e dalla paura altrui. Si sono verificati proprio in questi giorni atti estremi di altruismo e abnegazione per la comunità e azioni di sciacallaggio e prevaricazione» [14].

Pertanto, nonostante l’abbandono dei balconi, il progressivo stabilizzarsi della situazione di crisi generalizzata e l’intensificarsi di quella che possiamo definire una sofferenza economica, politica, sociale e quindi anche psicologica, tante son state le iniziative – locali e non – di solidarietà digitale e promozione culturale messe in atto [15], al fine di sopperire laddove possibile – digital divide permettendo – alle mancanze, alle contraddizioni e soprattutto alle disuguaglianze socio-economiche che la crisi inaugurata dal Covid-19 ha soltanto peggiorato e fatto emergere in maniera più dirompente rispetto al passato. Ancora, nel testo sopraccitato:

«Parliamo dunque del proliferare della cosiddetta ‘solidarietà digitale’ che ha assunto molteplici forme. Musei che aprono le loro sale, momentaneamente chiuse, a visite digitali, in modo da consentire una fruizione gratuita, sia pur parziale, di opere in tutto il mondo. Psicologi che offrono sostegno gratuito a distanza contro il panico e la depressione imposte dall’epidemia; lettura ad alta voce di romanzi classici e di novità, abbonamenti a riviste e giornali, fino a poter attingere allo straordinario patrimonio documentaristico dell’Istituto Luce. […] Ai docenti delle scuole vengono forniti, per affrontare l’esperienza dell’insegnamento a distanza, strumenti tecnologici e materiali didattici integrativi. Molte le iniziative di formazione a distanza e in generale diffusa messa in rete di contenuti altrimenti a pagamento» [16].

Di contro a queste posizioni iniziali le quali, seppur nella verità dei fatti, sono spesso animate – oltre che di buone intenzioni – anche di quello strampalato e talvolta ingenuo ottimismo che, forse per ammortizzare il colpo dell’angoscia esistenziale innescata, tendono a voler piuttosto evidenziare i potenziali margini di progresso che la crisi apre, si sono alzate altrettante voci le quali, con non meno radicalismo, hanno espresso opinioni diametralmente opposte. E così, c’è chi ha parlato di «emergenza immotivata» e stato di eccezione «come paradigma normale di governo»[17]; coloro che hanno parlato di militarizzazione progressiva e permanente della società da parte di un capitalismo neoliberale disciplinante; coloro che, partendo da riflessioni anche corrette, anticipano un futuro apocalittico fatto di una natura maligna, depredata delle sue risorse, che riprende ciò che è suo vendicandosi sugli uomini; scenari catastrofici che proiettano una luce inquietante su uomini ridotti a semplici o semplici ombre, se non addirittura a manichini, schiacciati dall’alienazione e falsa coscienza indotta dall’uso spasmodico dei social media; chi ha affermato la democrazia del virus e chi, anche giustamente, ha messo in luce le disastrose conseguenze sociali – tutt’altro che naturali – della pandemia; chi ha espresso forti dubbi – in alcuni casi confermati – sulla futura salute psicologica della collettività e sulla sua futura capacità di agentività.

Tuttavia, nonostante le grandi teorie che non scongiurano la chimera della origine [18], non si può che essere d’accordo con quanto sostiene l’antropologo Fabio Dei:

«Questi mesi sono stati strani, abbiamo visto le cose fermarsi, siamo scesi dal mondo per un momento, e questo ha aperto un’altra prospettiva. È stata anche prospettiva di terrore, per un po’: abbiamo immaginato (e qualche volta visto) i supermercati presi d’assalto, abbiamo paventato la corsa all’ammasso. E certamente, lo ripeto, per una parte consistente (ma minoritaria) degli italiani lo stop delle attività è stato davvero un incubo: perdere il lavoro o perdere i clienti per chi vive su un precario equilibrio economico mensile si è rivelato drammatico. La ricchezza ha smesso di circolare a pieno flusso: di conseguenza molti hanno aumentato i risparmi, mentre qualcuno è sceso sotto i livelli di sussistenza. Ma proprio questo ha suscitato una sorta di riorientamento gestaltico. Ci siamo fermati un attimo, il tempo di vedere con più lucidità, senza la distorsione della solita nostra corsa affannata. E abbiamo cominciato a interrogarci sul senso di un sistema economico e di vita che si fonda sull’affaticamento continuativo di masse turistiche da ogni parte del mondo; sul costante andirivieni di voli lowcost e di grandi navi da crociera; sulla delocalizzazione sistematica delle imprese in altre parti del mondo, non importa quanto lontane, dove il costo del lavoro è minore; e ancora, sulla deregolamentazione radicale del commercio (per non parlare dell’e-commerce che ci porta a cercare beni in un unico magazzino di estensione planetaria, con flussi di merci che sembrano non tener conto della distanza, e strategie di prezzo che accettano la rimessa pur di stritolare le reti locali e territoriali). Abbiamo potuto per un attimo considerare l’assurdità di un mondo trasformato in un grande luna park di scala globale, con milioni e forse miliardi che aspirano a quell’opulenza e a quel «divertimento» che fino a qualche decennio fa solo in pochissimi potevano permettersi [19].

Così, per concludere questo quadro che non mira in tutta evidenza ad essere esaustivo dell’infinita complessità di un processo storico ancora in corso e, in quanto tale, non storicizzabile; senza lasciarci inondare dalle grandi narrazioni che intravedono in tutte le grandi crisi in un caso il progresso e nell’altro la catastrofe, dobbiamo pur riconoscere che qualsiasi resoconto micro-contestuale deve nascere da una genealogia generale dei fattori politici, economici, culturali e sociali che costituiscono l’orizzonte storico nel quale gli individui si trovano collocati e impegnati nel tentativo di ricostruire un nuovo modo di vivere e una nuova cornice di senso.

fb_aid_quale_dad_per_i_bisogni_educativi_speciali_v2Didattica a distanza all’università

Come ho appena esposto, la pandemia è stato un fenomeno globale e locale al contempo, perché è andato ad innestarsi e a modificare ogni livello dell’esperienza umana. Le istituzioni educative son state coinvolte e stravolte dall’emergenza sanitaria come mai prima dal dopoguerra: al fine di evitare zone di assembramento e mantenere un distanziamento sociale tutte le attività didattiche in presenza sono state sospese e convertite in didattica online. Il sistema universitario è riuscito a fronteggiare rapidamente e efficacemente la situazione:

«[…] nel giro di pochi giorni, le università, le accademie e le altre istituzioni di formazione superiore […] hanno dimostrato di riuscire a garantire (seppur a distanza) i propri servizi essenziali, attività didattica in primis. Lezioni, esami, lauree non hanno sostanzialmente registrato alcuno stop. Le prime stime della CRUI (la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) hanno rilevato un dato pari a oltre il 94% dei corsi universitari confermati e “migrati” online, con più di 70 mila esami svolti, 27 mila sedute di laurea e più 1,4 milioni di studenti coinvolti. Certo, (…), non è la stessa cosa svolgere e seguire lezioni virtuali a distanza e non si pensa che il destino delle università e della formazione superiore sia ormai una loro definitiva trasformazione in massa in atenei telematici. Va però innanzitutto rilevata la “tenuta” del sistema di fronte ad una situazione oggettivamente imprevista ed emergenziale. Una tenuta che, guardata a posteriori, può apparire ovvia e scontata ma che non lo è affatto per chi conosce e vive il mondo universitario»[20].

Se è vero che l’Università ha avuto una marcia in più rispetto alla scuola nell’immediata risposta all’emergenza – basti pensare all’Ateneo pisano che è riuscito a riattivare la didattica in un fine settimana, consentendo agli studenti e ai docenti di poter riprendere le lezioni già il 9 di marzo – è pur vero che l’improvvisazione a cui son stati costretti gli Atenei non ha permesso un’adeguata preparazione del personale. Come conseguenza di questo, molto spesso la didattica online è stata semplicemente utilizzata come surrogato della didattica in presenza tradizionale, trasponendo le stesse modalità delle aule all’interno del virtuale. La costrizione imposta dalle tempistiche e, in parte, anche dall’incapacità della politica di prevedere e organizzare sul lungo periodo, non ha permesso di svolgere una riflessione strutturale efficace intorno alla DaD, ai nuovi obiettivi formativi, alle nuove modalità di insegnamento e di apprendimento online e alla ridefinizione dei relativi processi valutativi.

L’impressione percepita è quella di un insieme di docenti che si sono trovati di fronte, in completa autonomia, a una rosa di scelte e soluzioni in merito alle piattaforme da usare, a come strutturare i corsi e la didattica e a come strutturare il momento di verifica. Questo si è chiaramente potuto riscontrare nella estrema diversità con i quali ogni docente strutturava la propria didattica – chi in modalità sincrona e chi in modalità asincrona, chi con le slides e chi senza, chi con le webcam accese e chi senza, chi con delle esercitazioni e seminari e chi solo con lezioni ‘frontali’, chi con molteplici prove scritte da verificare in un secondo momento tramite un orale, chi con degli elaborati scritti da discutere all’orale e chi invece soltanto tramite orale. Il forte disorientamento, di fronte al quale ogni insegnante ha avuto la sua propria risposta, ha sfidato ogni docente a mettersi in gioco, costringendolo nella maggior parte dei casi a un aumento del carico e del monte ore di lavoro [21].

Per quanto riguarda la vita degli studenti universitari, nella maggior parte dei casi, i cambiamenti delle loro condizioni materiali di vita non è stata indolore. Le città “universitarie”, specie quelle nelle quali hanno sede gli atenei medi e piccoli, hanno assistito a un progressivo svuotamento delle città – con tutte le conseguenze economiche sul territorio che questo comporta, fatto quest’ultimo che ha finalmente sollevato degli interrogativi sulla sostenibilità e le contraddizioni di certe politiche abitative. Lo svuotamento di città, nelle quali ci si trova nella condizione di ‘fuori sede’, è stato determinato dal ritorno alla “propria sede” nella maggior parte dei casi motivato da esigenze economiche, spesso aggravate dalla pandemia. Questo ha comportato nella vita degli studenti fattori di stress e disagio organizzativo per quanto concerne lo studio e non solo.

universita-e-didattica-a-distanzaNella scuola come nell’università gli studenti italiani hanno dovuto scontrarsi con la mancanza di una copertura a banda larga sufficiente e con l’assenza di dispositivi adeguati ad accedere alle lezioni e poter studiare per preparare gli esami. La copertura a banda larga ultraveloce è fortemente disomogenea e l’impossibilità, per alcune famiglie, di disporre di devices personali per ciascuno dei membri ha inevitabilmente ridotto, se non azzerato, le possibilità di alcuni studenti di accedere a una formazione adeguata. In Italia questi ritardi in termini di tecnologie e infrastrutture hanno causato l’ampliamento delle disparità e delle diseguaglianze nell’ambito del diritto allo studio e alla formazione – questione particolarmente spinosa in ambito scolastico e sicuramente più accentuato nelle aree del sud e delle isole. Si ha quindi di fronte un problema articolato su più livelli in cui le disuguaglianze digitali sono intrinsecamente intrecciate con le disuguaglianze sociali, economiche e culturali e determinano, nel loro complesso, nuove forme di esclusione.  Una definizione interessante di questa espressione, che è entrata con tutta la sua forza nel lessico della pandemia, viene data dalla studiosa Donatella Selva:

«In effetti, il digital divide è, in primo luogo, una metafora: coglie una linea di frattura tra chi sta dentro e chi sta fuori dalla società digitale, e quindi tra inclusione ed esclusione, tra uguaglianza e vari aspetti delle disuguaglianze e delle segregazioni» [22].

Inoltre, in certi casi, a questa disparità è andata a sovrapporsene un’altra: la chiusura dei dipartimenti, delle biblioteche e delle aule studio ha costretto molto spesso a situazioni abitative non sempre adeguate alle esigenze di studio dello studente. Tutto questo ha incentivato un’originale auto-organizzazione da parte degli studenti di spazi virtuali nei quali potersi confrontare sullo studio e le lezioni – laddove in presenza si sarebbero sfruttati gli spazi tra una lezione e un’altra – ma anche dove poter socializzare e costruire relazioni con persone ben distanti le une dalle altre. In questo senso, per esperienza personale posso riportare come molto utile la creazione di gruppi generali e gruppi più ristretti su WhatsApp e Telegram nei quali poter discutere dei singoli esami e scambiarsi materiale, ma anche il ricorso alla piattaforma Teams per videochiamate in cui poter studiare insieme, ma anche svagarsi e conoscersi – laddove in presenza si sarebbero potute sfruttare le biblioteche e le aule studio.

Questa modalità, neanche poi così nuova, di istituire relazioni umane è del tutto in linea con gli studi condotti dall’antropologo britannico Daniel Miller e il suo gruppo di ricerca, in particolare, con la ricerca etnografica contenuta nell’opera il cui titolo italiano è Come il mondo ha cambiato i social media:

«La percezione comune delle relazioni online come qualcosa in contrasto con la ‘vita reale’ – popolata dalle proprie relazioni offline, più autentiche o reali – sembra pertanto semplicistica e foriera di fraintendimenti. […] gli antropologi rifiutano l’idea di un’autenticità senza mediazioni, e considerano tutti gli aspetti dell’identità e della relazione come intrinsecamente mediati dalle norme culturali e sociali, inclusi il genere e l’etnicità. È un assioma per l’antropologia il fatto che una società tribale non è meno immersa nella mediazione di una società metropolitana. Quando ci incontriamo, la comunicazione faccia a faccia è completamente mediata da convenzioni e etichette che riguardano il comportamento appropriato fra i partecipanti alla conversazione. Le regole della parentela possono limitare ciò che è permesso dire in modo altrettanto efficace dei limiti tecnologici. Per gli antropologi, quindi, comunicare online si può considerare come un passaggio nella mediazione culturale, ma non rende una relazione più mediata. C’è il rischio che il nostro timore sulla nuova tecnologia ci porti a negare semplicisticamente la natura mediata della precedente socialità offline, considerata non solo come più vera, ma anche come ‘più naturale’» [23].

In linea con questa affermazione, c’è un ulteriore quesito che è stato proposto da uno degli intervistati, P.M.:

Lo studente che ruolo gioca in questa interazione? Alla fine, l’interazione funziona se c’è anche una risposta, altrimenti stiamo parlando di lezioni che potrebbero essere caricate da chiunque, potrebbero essere moltiplicabili e replicabili, senza la necessità che ci sia uno spettatore. Anche al cinema, quando si guarda un film, tu sei uno spettatore che non è passivo, bensì interagisci con uno schermo. Quindi mi chiedo che tipo di interazione si ha? Che ruolo ha? […] Non ti so spiegare, secondo me, c’è una dimensione del non-detto che è comunque una dimensione attiva, però effettivamente la presenza corporea è importante […] Comunque, quel supporto, per quanto fittizio, contribuisce al funzionamento di quell’attività e quindi mi chiedo che ruolo gioca l’immagina ma anche l’assenza dell’immagine – nel sapere che nella tua aula ci sono persone che non hanno né la webcam accesa né il microfono acceso… che ruolo gioca lo studente in quell’aula? È uno spettatore passivo? Beh, direi di no perché altrimenti sarebbe come fare lezione in un’aula vuota… Tu docente sai che è presente… Che tipo di presenza è?

M.N. risponde in questo modo:

[…] è una presenza analoga a quella reale, è semplicemente spostata in un altro posto. Sei la stessa persona presente, con lo stesso professore presente, che ti sta dicendo le cose simultaneamente e quindi non hai da riascoltare dopo – volendo lo puoi fare perché registrato – però effettivamente tu puoi fare concretamente delle domande al professore e lui ti risponde subito. Quindi è semplicemente un cambio di contesto, è un problema di contesto. Non è un problema della presenza, ma del contesto: la presenza è uguale, il contesto è diverso.

192135681-5bad2d98-211b-4a5e-ba98-40b1e53300e7Nonostante la dimensione sociale abbia in qualche modo trovato i suoi strumenti per sopperire alla totale mancanza di relazioni offline, nella sfera privata dei singoli individui una delle questioni emerse spesso tanto nei questionari quanto nei dialoghi informali tra studenti, c’è il fatto che chi si è trovato costretto a tornare a vivere in famiglia, ha dovuto spesso adattarsi a spazi da condividere, con ridotti limiti di privacy, e nei quali più membri del nucleo familiare svolgevano contemporaneamente le proprie attività. Sebbene possa sembrare scontato e ragionevole il ritorno alle proprie famiglie in caso di necessità economica, è pur vero che molti studenti, ormai abituati ai propri spazi di autonomia, hanno dovuto fare i conti con il ritorno a una dimensione “adolescenziale”, aggravata dalla permanente costrizione all’interno delle mura domestiche e quindi da una socialità offline del tutto assente.

Ancora, oltre a una difficoltosa organizzazione dello studio laddove le condizioni abitative non sono ottimali, un ulteriore aspetto restituito da alcuni questionari è una differenza di genere significativa:

«Le studentesse riportano infatti un ulteriore elemento di aggravio nello studio: la condivisione dei ruoli di cura e gestione nella sfera domestica. Doversi occupare dei minori, degli anziani o di ammalati incide negativamente sulla capacità di gestione dei tempi di studio delle studentesse rispetto agli studenti, rimandando al tema della diseguale distribuzione dei carichi di lavoro nella sfera domestica ed extradomestica che evidentemente pesa anche sulle giovani studentesse» [24].

Senza per questo disconoscere la ragionevolezza delle misure di distanziamento sociale che hanno condotto alla DAD, sarebbe senz’altro un’occasione sprecata non riflettere sull’imprescindibilità dell’università come spazio democratico di formazione e socialità, in cui le disuguaglianze sociali, economiche e infrastrutturali messe in luce dalla pandemia vengono modulate e in alcuni casi persino appianate.

Per quanto riguarda invece il gradimento da parte degli studenti della didattica a distanza ci sono una molteplicità di possibili risposte. Tra gli aspetti sicuramente apprezzati della didattica a distanza c’è sicuramente la maggiore flessibilità nella fruizione della didattica: il fatto che le lezioni siano state – in alcuni casi – registrate e quindi ascoltate e riascoltate in base alle esigenze degli studenti oltre che rappresentare una grande opportunità per gli studenti pendolari e soprattutto lavoratori, i quali molto spesso in passato si sono trovati a dover sacrificare la frequenza in base agli impegni lavorativi. Inoltre, la possibilità di riascoltare le lezioni ha aperto lo spazio di studio a possibili tattiche di personalizzazione nell’ascolto: poter tornare indietro con gli strumenti del player per riascoltare qualcosa che non si è capito, poter saltare momenti di vuoto o velocizzare la riproduzione – in breve, poter intervenire sul contenuto della lezione in base alle proprie esigenze è qualcosa di molto apprezzato, come dimostra anche A.A.:

Secondo me il grande vantaggio della didattica a distanza, ancora poco sfruttato, è poter intervenire sul contenuto delle lezioni.  

D’altra parte, però, è utile riscontrare che è stato constatato anche un forte affaticamento e difficoltà di concentrazione, dovuti al tempo trascorso davanti agli schermi dei più diversi dispositivi in ambienti non necessariamente consoni alle esigenze di studio. A.A. a questo proposito ha detto:

Nel questionario di valutazione della DaD io ho messo che ho smesso di frequentare, perché dopo un po’ che io sono in un ambiente in cui mi distraggo: ci sono tutte le distrazioni… Io se vengo lì ho il professore davanti; poi magari mi distraggo nella mia mente, però sono lì. […] Ognuno ha i suoi problemi e le sue esigenze… Oltretutto il fatto di uscire e fare una passeggiata per andare a lezione, ti dà un ritmo, ti costringe a lavarti, prepararti e uscire. Lì sei ancora in pigiama, ti sei svegliato mezz’ora prima, ti stai ancora facendo il caffè e comincia la lezione. Come se stessi guardando Netflix… Che soglia dell’attenzione hai? La stessa che se fosse in presenza? Secondo me no.

Inoltre, uno studio cinese molto interessante pone in relazione il burnout accademico, la pandemic fatigue e l’uso intensivo dei social media:

«As a result of the COVID-19 pandemic, the learning and lifestyle of university students in China have undergone drastic changes. To curb the spread of the pandemic, universities delayed the spring semester and students were, in advance, asked not to return to university and stay at home as much as possible. Consequently, long periods of isolation at home and uncertainty about when to return to university may increase the risk of anxiety among university students (Wang et al., 2020). Additionally, universities have started using internet platforms to develop different types of online courses, for example, requiring students to complete their study tasks at home via social media. Although previous studies reported a positive influence of social media usage on mental health and well-being (Clark et al., 2018; Glaser et al., 2018), many studies have found that the excessive use of social media has negative effects on users (Steers et al., 2014; Muench et al., 2015; Nesi and Prinstein, 2015; Hormes, 2016). During the pandemic, university students who were  forced to stay at home had to learn, communicate, and obtain the latest information about the pandemic from social media, thus increasing the time and frequency of mobile social media usage. Given that preoccupation and the excessive amount of time spent on social media are symptoms of problematic use, excessive social media use among Chinese university students may easily turn into problematic use» (Andreassen et al., 2012) [25].

gggbar004__71055319Chiaramente si tratta di affermazioni frutto di indagini svolte presso gli studenti delle università di Shanghai, tuttavia è abbastanza estendibile la considerazione rispetto all’incremento delle ore trascorse davanti agli schermi, in una situazione ambientale che in nessun luogo è stata serena. La permanenza prolungata davanti agli schermi va ad innestarsi su un altro cambiamento che investe la dimensione spazio-temporale. Gli studenti – ma anche i lavoratori di ogni genere in smart working – oltre alla succitata commistione di pubblico e privato, hanno dovuto convivere con uno spazio i cui confini tra ambiente domestico e di lavoro (in questo caso, di studio) erano del tutto assenti. Sorgono spontanee molte domande: come cambia il rapporto che il soggetto intrattiene con il lavoro o con lo studio? Come si rimodellano le relazioni familiari e come si ricostruiscono gli spazi privati affinché possano esser resi adeguati al dominio pubblico? Come emerge dalle interviste, in realtà, la commistione degli spazi è stato da un lato causa di minore formalità e dall’altro causa di scarsa concentrazione. In merito a ciò, è interessante l’intervento dell’intervistata M.N.:

io ho sofferto la mancanza di separazione tra luogo di studio e luogo di vita, però ho apprezzato il clima di collaborazione che alcuni docenti son stati in grado di creare proprio in virtù di questa cosa – quindi anche proprio meno formalità che invece il luogo istituzionale richiede che, secondo me, ha sbloccato anche tante persone nel provare ad interagire anche in maniera diversa con l’insegnante, a me è successo questo. Secondo me, non solo le persone, ma anche il professore – forse per la difficoltà di non vedere i volti – sembravano maggiormente interessati alla ricerca di un feedback, di un’interazione e gli studenti devono rispondere, si sentono più coinvolti. Più umanità sicuramente… Poi, ci son stati professori che alla fine di una lezione, ci ha fatto vedere cosa si vedeva dalla finestra di casa sua. Oppure un altro metteva la musica classica in partenza. […] Lui desiderava le webcam accese, che voleva vederci, che interagissimo in maniera più umana, ci chiedeva se avessimo idee o interventi. A me non piaceva questa cosa di stare tutti con le webcam spente. Mi sembrava disumano. […] Mi sembrava che parlasse solo il professore, fare i commenti in chat mi sembrava ridicolo e limitante. Preferivo che si aprisse il microfono perché la conversazione è più immediata.

Di contro, invece, la possibilità di tenere le webcam spente, apre le porte ad uno degli aspetti più rilevati: la maggiore facilità di interazione anche per i soggetti che in presenza sarebbero più restii a prender parola. In merito S.D. osserva:

Anche io, che non sono mai intervenuto in vita mia – né alle elementari né alle medie né alle superiori né all’università – ho fatto i miei primi interventi con la didattica a distanza.

Scappa anche la battuta di D.A. che dice:  Sei un leone da tastiera, eh!

Tuttavia, anche P.M. si trova d’accordo:

Io una volta ho fatto finta che la webcam non mi funzionasse, perché stavo male all’idea di intervenire con la webcam accesa. A me imbarazza… Non so perché. In realtà in presenza stavo molto più a disagio. Probabilmente è perché una voce senza volto è dimenticabile, mentre un volto è più difficile da dimenticare per cui mi pongo il problema che se dico una stupidaggine se lo ricorderanno. La voce è qualcosa che rimane meno impresso rispetto al volto.

Su questo fronte F.A. ha proposto una sua lettura personale:

Questa cosa mi fa venire in mente due cose. Una che l’intervento così potrebbe essere dato dal fatto che il silenzio non è sostenibile con la realtà. Nella realtà se il professore fa una domanda e tu ti prendi il tuo tempo e se non la sai dici che non sai rispondere. Nel video vedere quei secondi in cui il professore fa una domanda e nessuno risponde, è di un imbarazzo impressionante. E poi dall’altro secondo me non hai le conseguenze del dopo: mal che vada, hai fatto una figuretta; però finisce la lezione, chiudi lo schermo e più o meno viene dimenticata, si ridimensiona. […] se tu in classe fai quella figuretta, tu in classe ci devi tornare e le persone non si dimenticano di te, ma associano il tuo volto a quella domanda stupida che hai fatto o alla risposta stupida che hai dato. Online, a parte che puoi non ricollegarti e finisce così la tua esperienza di essere partecipativa oppure altrimenti non ti fai vedere e le persone si dimenticano, non è che si ricordano a maggio di una voce sentita a marzo.

Inoltre, sempre in merito alla questione delle webcam, S.D. dice:

Dal punto di vista dello studente ti lascia molta più libertà: puoi decidere se esserci veramente, se andartene, se accendere la webcam o tenerla chiusa. Da un certo punto di vista dipende anche se il professore vuole che tu tenga la webcam accesa o meno. Se tutti stanno con la webcam spenta, allora ritorna la verticalità del professore che è l’unico con la webcam accesa; che il professore chieda a tutti di chiudere la webcam, lì c’è il fatto che lo studente sia sotto il professore.
Però poi a quel punto lo studente ha un sacco di possibilità che gli si aprono, nel tenere le webcam spente. E invece, se il professore chiede le webcam accese allora lì c’è una dimensione più paritaria. Anche se è chiaro che la lezione è comunque tenuta dal professore. Poi manca il fatto che gli studenti si trovino in classe. Perché magari in classe ci possono essere persone che si guardano tra di loro, degli scambi tra gli studenti… Nella lezione con le webcam spente devi guardare per forza il professore, non puoi vedere come gli altri interagiscono con la lezione, come prendono appunti, come reagiscono alle parole del professore. Se hai la webcam accesa, è un po’ meglio, ma comunque non puoi ricambiare lo sguardo. Più che altro, dal momento che hai la webcam accesa, pensi di essere sempre osservato. Perché lo sguardo del professore potrebbe posarsi su di te in qualsiasi momento. Mentre nella lezione lo sapresti, lo controlli di più lo sguardo del professore.

Un altro aspetto che assume centralità nel vissuto della DaD riguarda la temporalità: all’inizio della pandemia molti parlavano di temporalità sospesa in cui esisteva un generico prima del coronavirus. Questo estratto mette in luce questa impressione molto chiaramente:  

«Come dicevamo, il virus come fatto sociale totale stravolge le stesse coordinate spazio-temporali intorno alle quali si organizza la realtà sociale: l’hic et nunc ai tempi dell’epidemia sono uno spazio vuoto (quello delle città deserte) e un tempo sospeso (quello del presente continuo del coronavirus). Tempo sospeso e spazio vuoto che impediscono il rapporto per eccellenza che fortifica e determina la nostra vita sociale, quello faccia a faccia. I rituali sacri del sorriso, della deferenza, del contegno che Goffman (1971) ha descritto in maniera magistrale, sono anch’essi sospesi»[26].

Col cronicizzarsi della situazione e il proseguire delle norme di distanziamento sociale – che solo d’estate hanno conosciuto un momento di interruzione – la vita lavorativa come quella dello studio si è ritrovata immersa, non più in un tempo sospeso nel quale poter ancora nutrire la speranza di una fine, bensì in un presente a-temporale, nel quale il virus è diventato un elemento con cui convivere e nel quale sono stati smarriti del tutto i confini spazio-temporali: non ci sono più degli orari o degli spazi definiti in cui studiare; si ha solo un imperativo categorico atemporale che ingiunge allo studio in ogni momento utile, non importa come e con quale concentrazione o stato mentale, si fa quello l’unica cosa che ci è concesso fare – studiare. In merito a questa situazione A.A. afferma:

Io avevo dei giorni in cui non sapevo più nemmeno che giorno fosse, che ora fosse, era tutto uguale. È come se ti chiedessi: ieri cosa hai visto su Youtube? Devi andare nella cronologia per dirmelo. Le volte che sei andata al cinema te lo ricordi: perché se non altro ti ricordi se ti è piaciuto o meno; ti ricordi con chi sei andato…

In ultimo, tornando alla questione-formalità, durante un’intervista è emerso un aspetto molto interessante per quanto riguarda le dinamiche studente-insegnante e come queste possono essere mutate con la DaD. P.M si esprime così:  

Sia lo studente che l’insegnante sono collocati in un ambiente diverso, domestico, intimo, per cui si viene a creare una certa confidenza che va a ridurre gli effetti della formalità degli spazi istituzionali. In un certo senso, in quel momento lo studente ha accesso una finestra sullo spazio domestico e intimo del docente, se il professore non pone il filtro.

 Analogamente anche M.N. risponde:

Questo potrebbe anche essere positivo. Il fatto che il professore non sia più quello che, anche in presenza corporea comunica tutte le informazioni che ti dà, si crea magari una diversa dinamica di identificazione con il professore che magari è positiva. Il fatto che il professore in queste età delicate abbia un potere sugli studenti anche grazie a come lo veicola, alla fascinazione che può potenzialmente esercitare, il fatto che sia in una dimensione molto più paritaria e informale può essere positiva per come le persone recepiscono il messaggio molto più svincolato dal corpo e quindi dalla sua statura. […] anche il ruolo della soggettività del professore cambia. Cioè come attraverso la tua soggettività fai il professore. Anche questa cosa è importante per un ragazzo, che spesso e volentieri assorbe grazie a chi lo dice e a come lo dice, proprio per la soggettività che ha. Soprattutto nei primi anni che si sta formando e in cui si identifica molto attraverso chi lo dice, attraverso tutto. Quindi in questo modo cambia anche il modo in cui tu elabori la materia, l’oggetto

studentessa-al-pc-825x495Come si può notare, le relazioni umane e tutti i contesti in cui esse hanno la loro origine sono sempre essere oggetto di rimodulazione e adattamento finalizzato alla permanente possibilità di essere comunità e di costruire un orizzonte di senso entro cui poter vivere – anche e soprattutto nei momenti in cui si hanno di fronte eventi storici di questa portata.

Conclusioni

Non era intenzione di questo articolo far apparire la condizione di studente come l’unica vittima senza voce della pandemia, ma semplicemente far emergere le difficoltà e contraddizioni che hanno animato le vite quotidiane degli studenti universitari. Gli effetti della pandemia hanno coinvolto tutti i livelli dell’esperienza umana e sono stati soprattutto occasione di messa in discussione e sfida per tutte quelle istituzioni che hanno a che fare con il pubblico e le relazioni umane. Cercare di studiare e comprendere la pandemia per poterla affrontare meglio «passa necessariamente dal considerarla non solo un fatto biologico, ma anche come un fatto sociale» [27].

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] L’idea che ha guidato la stesura di questo articolo è scaturita nell’ambito del Seminario di Cultura Digitale tenuto e curato da Maria Simi ed Enrica Salvatori per gli studenti del corso di laurea di Informatica Umanistica – nello specifico, a seguito del seminario La didattica a distanza dall’emergenza alle buone pratiche, tenuto il 25/03/2020 dal docente Giuseppe Fiorentino, della Accademia Navale di Livorno e dell’Università di Pisa.
[2] Al contrario, per quanto riguarda la DaD dal punto di vista di ‘chi la fa’ e non di ‘chi la riceve’ – ossia, i docenti – è possibile reperire sul web una molteplicità eterogenea di contributi. Anche per questo motivo, il presente articolo non intende focalizzarsi su tematiche che sono già state esposte lungamente e in maniera eccellente, bensì focalizzarsi su coloro ai quali le varie pubblicazioni che si sono succedute nel tempo non si sono dedicate.
[3] Per una rassegna di alcune delle iniziative, si rimanda a questi link – in alcuni casi corredati di testimonianze fotografiche. Dal portale inglese della UCL, diretto dall’antropologo inglese Daniel Miller: https://anthrocovid.com/2-2/contributions-from-italy/; dal sito della Treccani: https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Balconi_di_tutto_il_mondo_unitevi.html.
[4] M. E. Corlianò, Il virus come fatto sociale totale tra paura del contagio e ricerca della comunità, Università del Salento, 2020.
[5] Istat, Rapporto annuale 2020, La situazione del Paese, Istituto nazionale di statistica, Roma, 2020. La versione pdf del documento è reperibile al seguente link: https://www.uil.it/documents/ISTAT_Rapporto%20annuale%202020_POST%20COVID%2019.pdf.
[6] Tanti son stati i quotidiani a riportare la notizia. Per brevità, se ne riporta qui soltanto uno di questi: https://www.ilpost.it/2020/03/19/coronavirus-bare-bergamo-esercito/.
[7] Tra i personaggi noti che hanno espresso opinioni contrarie alla musica sui balconi riporto qui, come esempio, l’intervista al musicista Ennio Morricone: https://www.huffingtonpost.it/entry/ennio-morricone-la-musica-in-questo-momento-non-ha-valore-i-canti-e-i-balli-sui-balconi-mi-fanno-simpatia-ma-oggi-sono-inopportuni_it_5e747f32c5b6eab77945bd57.
[8] Di particolare interesse riguardo a tutti questi filoni tematici, i contributi elaborati dai dottorandi e laureandi del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa (diretti e coordinati dall’antropologo Fabio Dei), nell’ambito del seminario Contagio e socialità sospesa. Rimando anche qui il collegamento alla pagina, nella quale è possibile trovare il collegamento all’evento di presentazione dei contributi contenuti nel volume Antropologia di un mondo in cambiamento della rivista Testimonianze, Sommario NN.532-533, 4/5, Associazione Testimonianze, Firenze, 2020.
[9] Cfr. il concetto di nazione come comunità immaginata di Benedict Anderson: «Con lo spirito di un antropologo, propongo quindi la seguente definizione di una nazione: si tratta di una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana. È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità.» (B. Anderson, Comunità immaginate, manifestolibri, Roma 1996: 24-25).
[10] E. Illouz, L’insostenibile leggerezza del capitalismo, https://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/L_insostenibile_leggerezza_del_capitalismo.html.
[11] M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002: 200.
[12] Distanziati ma vicini: la solidarietà ai tempi del Covid-19. Intervista al sociologo Tommaso Vitale, a cura di Aggiornamenti Sociali: https://www.aggiornamentisociali.it/articoli/distanziati-ma-vicini-la-solidarieta-ai-tempi-della-covid-19-intervista-a-tommaso-vitale/.
[13] O. Crowcroft, Sceriffi da balcone, crescono le tensioni tra vicini in tutta Europa: “State a casa, idioti!”: https://it.euronews.com/2020/04/03/sceriffi-da-balcone-crescono-le-tensioni-tra-vicini-in-tutta-europa-state-a-casa-idioti.
[14]https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Le_mille_iniziative_della_solidarieta_digitale.html.
[15] Per una riflessione e una rassegna di alcune delle attività di solidarietà messe in atto in alcune città rimando all’intervista già citata: https://www.aggiornamentisociali.it/articoli/distanziati-ma-vicini-la-solidarieta-ai-tempi-della-covid-19-intervista-a-tommaso-vitale/; ma anche a: https://www.internazionale.it/reportage/sarah-gainsforth/2021/03/29/reti-solidali-bologna-vuoto-stato?fbclid=IwAR1dNl_xWdoF0O0joj_hpaehAtmEuG1Me2wkDcM3WxObQ1tDLfp_g-wGYso.
[16] https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Le_mille_iniziative_della_solidarieta_digitale.html. Inoltre, oltre all’articolo appena citato, per quanto concerne lea attività di promozione culturale rimando anche a:
https://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Coronavirus_cultura_a_distanza.html.
[17] G. Agamben, Lo stato di eccezione provocato da un’emergenza immotivata, https://ilmanifesto.it/lo-stato-deccezione-provocato-da-unemergenza-immotivata/.
[18] M. Foucault, «Nietzsche, la genenalogia, la storia», in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino, 2001: 47.
[19] F. Dei, Quando siamo scesi dal mondo per un momento, in Antropologia di un mondo in cambiamento della rivista Testimonianza, Sommario NN.532-533, 4/5, Associazione Testimonianze, Firenze, 2020.
[20] F. Magni, Ciò che è vivo e ciò che è morto dell’università. Prime riflessioni pedagogiche nel mezzo della pandemia globale, in Formazione, Lavoro, Persona, 2020.
[21] In merito all’aumento del carico di lavoro e quindi dell’ammontare di ore di lavoro fuori servizio, si rimanda a M. Ferritti, Il lavoro di insegnanti e docenti al tempo della didattica a distanzahttp://oa.inapp.org/bitstream/handle/123456789/823/INAPP_Ferritti_Scuole_chiuse_classi_aperte_Sinappsi_3_2020.pdf?sequence=3&isAllowed=y.
[22] D. Selva, in Divari digitali e disuguaglianze in Italia prima e durante il Covid-19. Culture e Studi del Sociale, 5(2): 463-483.
[23] D. Miller, E.Costa, N. Haynes, T. McDonald, R. Nicolescu, J. Sinanan, J. Spyer, S. Venkatraman, X. Wang, Come il mondo ha cambiato i social media, ed. italiana, UCL Press, Londra, 2019: 133-135.
[24] S. Colombini, G. Pescitelli, M. Russo, Sulla didattica a distanza ascoltiamo gli studentihttps://www.lavoce.info/archives/68930/sulla-didattica-a-distanza-ascoltiamo-gli-studenti/.
[25] Traduzione: «Come risultato della pandemia di COVID-19, l’apprendimento e lo stile di vita degli studenti universitari in Cina hanno subito drastici cambiamenti. Per contenere la diffusione della pandemia, le università hanno ritardato il semestre primaverile e agli studenti è stato chiesto in anticipo di non tornare all’università e di rimanere a casa il più possibile. Di conseguenza, lunghi periodi di isolamento a casa e l’incertezza su quando tornare all’università possono aumentare il rischio di ansia tra questi studenti (Wang et al., 2020).  Inoltre, le università hanno iniziato a utilizzare le piattaforme internet per sviluppare diversi tipi di corsi online, per esempio, richiedendo agli studenti di completare i loro compiti di studio a casa tramite i social media. Sebbene studi precedenti abbiano riportato un’influenza positiva dell’uso dei social media sulla salute mentale e sul benessere (Clark et al., 2018; Glaser et al., 2018), molti studi hanno rilevato che l’uso eccessivo dei social media ha effetti negativi sugli utenti (Steers et al., 2014; Muench et al., 2015; Nesi e Prinstein, 2015; Hormes, 2016). Durante la pandemia, gli studenti universitari che erano costretti a rimanere a casa hanno dovuto imparare, comunicare e ottenere le ultime informazioni sulla pandemia dai social media, aumentando così il tempo e la frequenza di utilizzo dei social media mobili. Dato che la preoccupazione e l’eccessiva quantità di tempo speso sui social media sono sintomi di uso problematico, l’uso eccessivo dei social media tra gli studenti universitari cinesi può facilmente trasformarsi in uso problematico (Andreassen et al., 2012)» Jiang Y (2021) Problematic Social Media Usage and Anxiety Among University Students During the COVID-19 Pandemic: The Mediating Role of Psychological Capital and the Moderating Role of Academic Burnout. Front. Psychol. 12:612007. doi: 10.3389/fpsyg.2021.612007.
[26] M. E. Corlianò, Il virus come fatto sociale totale tra paura del contagio e ricerca della comunità, Università del Salento, 2020.
 [27] Ibid.
 Riferimenti bibliografici
Anderson B., 1983, Comunità immaginate, manifestolibri, Roma, 2006.
Corlianò M. E., 2020, Il virus come fatto sociale totale tra paura del contagio e ricerca della comunità, Università del Salento.
Dei F., 2020, Quando siamo scesi dal mondo per un momento, in Antropologia di un mondo in cambiamento della rivista Testimonianze, Sommario NN.532-533, 4/5, Associazione Testimonianze, Firenze, 2020.
Mauss M., 1924, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002.
Foucault M., 1971, Nietzsche, la génealogie, l’histoire, in Hommage à J. Hyppolite, Paris [trad. It. Nietzsche, la genealogia, la storia, Fontana A.- Pasquino P.- Procacci G. in Foucault M., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a.c. Bertani M., Torino 2001: 43-64].
Magni F., 2020, Ciò che è vivo e ciò che è morto dell’università. Prime riflessioni pedagogiche nel mezzo della pandemia globale, in Formazione, Lavoro, Persona, Bergamo.
Selva D., 2020, in Divari digitali e disuguaglianze in Italia prima e durante il Covid-19. Culture e Studi del Sociale, 5(2): 463-483.
Miller D. et al., 2019,  Come il mondo ha cambiato i social media, ed. italiana, UCL Press, Londra:133-135.
Jiang Y., 2021, Problematic Social Media Usage and Anxiety Among University Students During the COVID-19 Pandemic: The Mediating Role of Psychological Capital and the Moderating Role of Academic Burnout. Front. Psychol. 12:612007. doi: 10.3389/fpsyg.2021.612007.
Sitografia
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http://oa.inapp.org/bitstream/handle/123456789/823/INAPP_Ferritti_Scuole_chiuse_classi_aperte_Sinappsi_3_2020.pdf?sequence=3&isAllowed=y

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Veronica Mesina, nata a Sassari, si è laureata in Filosofia presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, con una tesi in Antropologia Culturale dal titolo Potere e cultura nel discorso antropologico a partire dalla svolta riflessiva. Attualmente è studentessa del corso di Informatica Umanistica presso il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dello stesso Ateneo.

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