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La cultura artistica del Seicento in Sicilia: i pittori, i mercanti e i collezionisti al tempo di Matthias Stom

 Ritratto del cardinale Gabriele Paleotti, Pinacoteca Domenico Inzaghi, Budrio (ph. Nicola Quirico)

Ritratto del cardinale Gabriele Paleotti, Pinacoteca Domenico Inzaghi, Budrio (ph. Nicola Quirico)

di Salvatore Denaro 

Con l’aprirsi del Seicento la Sicilia trascinava ancora in campo artistico la lezione che i decreti tridentini, stabiliti sul finire del XVI secolo, imposero per una pittura più decorosa, che si avvicinasse il più possibile ai testi scritturali, senza eccessi e stravaganze. Questo modo di sentire la pittura, continuerà ancora intorno alla metà del secolo, quando il Samperi nella sua Iconologia, discutendo in materia di pittura sacra, prende esempio dagli scritti del Cardinale Paleotti e dei decreti del Sacro Concilio Tridentino [1] (Samperi, 1991: 233). 

I Dettami del Concilio riflettevano ancora quell’inclinazione pittorica di Giuseppe Valeriano e Scipione Pulzone che costituiva il «canovaccio compositivo almeno di buona parte della pittura siciliana controriformata» (Abbate, 1984: 43) e che andava a soddisfare quelle committenze che provenivano dagli ordini religiosi, quali francescani e benedettini.

G. Valeriano, Lo sposalizio                Fig. 3 S. Pulzone, Maddalena al sepolcro – 1585-90. Fondazione Cariplo della Vergine. Santo Spirito in Sassia,  1584-89. Roma

G. Valeriano, Lo sposalizio 
della Vergine, Santo Spirito in Sassia, 1584-89. Roma

Del resto, la presenza stessa di stretti contatti tra i committenti cappuccini e Scipione Pulzone, come la presenza dei due dipinti sia a Milazzo che a Mistretta della Vergine col Bambino in gloria e i SS. Francesco e Chiara, testimoniano la scia figurativa che la Chiesa in Sicilia adottava per i propri bisogni ecclesiastici (ivi: 44-47).

Mentre gli ordini religiosi erano orientati verso Roma a far provenire pale d’altare per le loro chiese, una nuova ondata di dipinti di provenienza fiorentina e toscana venivano da arricchire il panorama figurativo siciliano: opere d’arte richieste da una committenza costituita prevalentemente da ceti mercantili, soprattutto da città come Messina e Palermo che si affacciavano verso una “politica marinara”.

Il prodotto artistico, richiesto da committenti laici, era caratterizzato da genealogie stilistiche derivate da una pittura dalla formula tardo manierista tosco-romana, fortemente radicata in Sicilia già sul finire del Cinquecento, e che trovava esiti in artisti come Alessandro Allori, con la sua raffinatissima Madonna dell’Istria a Messina, e a Palermo Giovanbattista Cini, figura di spicco tra letterati ed artisti che ruotavano attorno alla corte medicea, nonché amico del Vasari e dei duchi Cosimo e Francesco (ivi: 52).

S. Pulzone, Maddalena al sepolcro – 1585-90, Fondazione Cariplo

S. Pulzone, Maddalena al sepolcro, 1585-90, Fondazione Cariplo

Citti Siracusano rileva che “l’evento Caravaggio”, dall’ottobre del 1608 al 1609, non servì per i pittori operanti in Sicilia «ad incanalare definitivamente questa generazione pittorica, né a farla uscire da questa situazione provinciale e ritardataria, se si eccettua il caso eclatante di Pietro Novelli» (Siracusano, 1989: 518).  

Influssi di artisti non siciliani che contribuirono ad una crescita culturale dell’Isola, provenivano dal toscano Filippo Paladini, il quale conciliò la vecchia cultura manieristica con influssi caravaggeschi riuscendo a creare opere come la San Michele e l’Arcangelo, realizzata nel 1601 e custodita a Palazzo Abatellis a Palermo, ma soprattutto le cinque tele con storie della Vergine e di Gesù, eseguite fra il 1612 e il ’13 per il duomo di Enna. 

 Fig. 4 A. Allori Madonna dell’Istria (XVI secolo).  Messina Museo Regionale.


A. Allori, Madonna dell’Istria,  XVI secolo,
Messina Museo Regionale.

La presenza del toscano in area palermitana, inoltre, permise ad autori come Pietro d’Asaro, detto il “monocolo di Racalmuto” di “assaporare” gli influssi caravaggeschi, presenti soltanto in epidermide, e che caratterizzano in particolare le opere dei Martiri dei SS. Crispino e Crispiniano del 1618, o la Visitazione del 1622 o come la Sacra Famiglia con Sant’ Anna e San Gioacchino. 

Nonostante questi accenni di pittura caravaggesca proveniente dal Paladini, la cultura manierista continua fino agli anni ’30 nelle zone interne dell’Isola; costituita da una pittura ad alto contenuto religioso, composto da «ricette tosco-romane, amalgamate di volta in volta a droghe cromatiche venete, a cangianti luminosità baroccesche, a ‘verità’ fiamminghe» sotto una base dell’ultimo Raffaello (Abbate, 1984 :54).

Fig. 5 F. Paladini San Michele Arcangelo - 1601.  Palazzo Abatellis / Foto di Davide Mauro

F. Paladini, San Michele Arcangelo, 1601,
Palazzo Abatellis (ph. Davide Mauro)

Un primo tentativo di dare una panoramica della situazione artistica in Sicilia dal Seicento al Settecento, ci è offerto da Padre Fedele da San Biagio nel suo trattato Dialoghi Familiari sopra la Pittura pubblicato nel 1788. Padre Fedele, sacerdote e predicatore cappuccino, artista e pittore, poeta ma anche commediografo di modesto talento, rappresenta all’interno della civiltà artistica siciliana uno dei primi cultori della storiografia, materia che Julius Schlosser Magnino definì come letteratura artistica all’interno della scienza delle fonti, elencando questo trattato nella bibliografia della letteratura locale italiana. La trattazione della materia del libro è stata espressa nella forma dialogica: si tratta di una serie di conversazioni tra Padre Fedele e l’avvocato Don Pio Onorato articolate in quindici giornate.

Fig. 6 P. D'Asaro La Sacra Famiglia con Sant' Anna e San Gioacchino – 1625.      Chiesa Madre. Agrigento / Foto di Davide Agnello

P. D’Asaro, La Sacra Famiglia con Sant’ Anna e San Gioacchino, 1625, Chiesa Madre, Agrigento (ph. Davide Agnello)

L’avvocato Don Pio rappresenta quel punto di vista intorno alle opere degli artisti, che avrebbe potuto esprimere il settecentesco fruitore e dilettante dell’arte pittorica, secondo il comune senso del conoscitore, e non dello specialista antiquario. Dal canto suo, Padre Fedele, da pittore e maestro religioso, dialoga con lui esponendo con sistematica chiarezza la sua teoria dell’arte e la valutazione critica dei più significativi artisti. Egli frequentemente ha definito la conversazione con Don Pio, e dinanzi tre suoi discepoli, «trattenimenti pittoreschi», ai quali si dedicava dopo aver sostato a meditare nella selva del convento dei cappuccini a Palermo, luogo che frequentava anche Don Pio.

La documentazione figurativa del frate è fondata sulla personale conoscenza di monumenti, sculture, dipinti, notizie attinte dalle conversazioni con artisti e con loro allievi di bottega, o in accademia. Sono discusse le maggiori opere pittoriche di Pietro Novelli, Pietro d’Aquila e Matthias Stom; circa quest’ultimo è interessante notare la stima per i suoi quadri che ebbe nel Settecento anche il collezionismo privato palermitano.

La realtà sicula seicentesca era distinta in due aree culturalmente differenti, come avvenne già per il Cinquecento, sia per quanto riguarda il piano politico che quello artistico: da una parte le località della Sicilia occidentale che orbitavano intorno ad essa, dall’altra la Sicilia orientale, con Messina, Catania e Siracusa (Siracusano, 1989: 518). Questa bipartizione si mantenne per un periodo molto lungo, condizionata per tutto l’intero secolo dall’egemonia della dominazione spagnola, già presente con il suo viceré dal 1415, e che si protrarrà sull’Isola ancora fino agli inizi del XVIII secolo. La storia della Sicilia spagnola si distingue dagli altri possedimenti italiani della Spagna. Infatti, a differenza del regno di Napoli e del ducato di Milano che erano stati conquistati con le armi, la Sicilia si era unita alla corona d’Aragona col suo libero consenso dopo i Vespri, ed era stata considerata come un regno verso il quale questa corona aveva diritti e doveri corrispondenti a quelli che i siciliani avevano contratto divenendo suoi sudditi. Poiché non vi era stata più guerra dopo quella dei Vespri, la fedeltà ininterrotta del popolo non aveva fornito alcun motivo o pretesto per diminuire o addirittura annullare le franchigie originarie. Esse erano così ampie, che uno scrittore della metà del XVI secolo scriveva: «Gli Olandesi possiedono quasi tante libertà e immunità quante ne hanno i siciliani» (Alatri, 1983: 11).

Tra i viceré che Filippo III mandò in Sicilia nel 1611, si distinse in modo particolare don Pedro Giron duca D’Osuna, che nel 1611 successe al marchese di Vigliena, il viceré che fece costruire i famosi “Quattro canti” di Palermo. Il nuovo viceré, trovò la Sicilia in fermento, poiché il suo predecessore aveva rincarato le tasse, causando disagi fra la popolazione. Con don Pedro Giron la Sicilia visse un periodo di relativa pace. Si racconta, tra l’altro, che il nuovo viceré andasse spesso in giro nei più imprevedibili travestimenti, per rendersi conto dei veri bisogni del popolo. Purtroppo il nuovo viceré Osuna lasciò la Sicilia nel 1616, essendo stato nominato a Napoli, causando il lento declino delle condizioni sociali: da una parte perché i suoi successori fecero decadere sempre di più le condizioni del regno, dall’altra perché la nobiltà, vanitosa e avida, nella stragrande maggioranza, iniziò a preoccuparsi solo di questioni materiali, come la sontuosità delle loro dimore e di altri beni di lusso, e tralasciando la plebe che viveva una condizione tormentata dalla fame e dalla miseria. Criterio generale di governo fu poi quello di dividere per regnare, mettendo le città le une contro le altre, mettendo la nobiltà contro il popolo e il popolo contro la nobiltà.

Questo clima, fatto di contrasti e di passività in cui viveva il regno, preparerà la grande rivolta del 1647 a Palermo, con a capo l’orefice Giuseppe da Polizzi che, sulla scia dei moti di Masaniello a Napoli, costrinse il nuovo viceré Los Valez a barricarsi nel palazzo reale di Palermo. Alle  insurrezioni popolari che si protrassero per tutto il XVIII secolo in gran parte riconducibili ai contrasti tra la piccola borghesia artigiana e la vecchia nobiltà retriva si aggiungevano le contrapposizioni tra le principali città come Palermo, Messina e Catania, divisioni che produssero impoverimento economico e decadenza culturale.

La Sicilia del Seicento è anche caratterizzata dall’organizzazione tendenzialmente totalizzante da parte della Chiesa post-tridentina di feste e celebrazioni religiose, tutte accomunate da un gran fasto, che almeno, per certi versi trova un elemento in comune nei due angoli della Sicilia. Fra le feste più importanti a Messina è di certo quella in onore della “Madonna della Lettera” nel 1659, caratterizzata da un tripudio di barocco: “macchine” sontuosissime erette in onore della Vergine, luminarie, altari presenti nelle maggiori strade e piazze della città, il tutto coronato con giochi di fuochi, che avevano come finalità principale l’eccitamento dei sensi ottenuto attraverso l’esaltazione delle impressioni tattili, olfattive, uditive, visive e del gusto (Todesco 1983: 147-153).

Uguale intensità e febbrile attesa per le feste era vissuta anche a Palermo, soprattutto per il Festino di Santa Rosalia che si iniziò a festeggiare dal 1625, dopo il ritrovamento delle reliquie della Santa in un momento in cui la città era flagellata dalla peste nera, e che grazie al miracolo scampò dal disastro più imminente (Pitrè 1899, ed. 1969: 40).

Questo era anche il contesto politico-sociale che Matthias Stom e altri artisti trovarono al loro arrivo in Sicilia, alla fine del quarto decennio. Ma se la società popolare mostrava queste precarietà provinciali, lo scenario culturale non era da meno, tanto che allo scadere degli anni venti, altri fattori esterni contribuiscono ad imprimere una significativa svolta alle arti figurative siciliane, intensificando maggiormente il divario fra la parte orientale dell’Isola, ormai decisivamente orientata su una base caravaggesca, e più tardi classicheggiante, e quella occidentale, che invece, rappresenterà il centro di maggiore diffusione del gusto fiammingo-vandickiano (Siracusano 1989: 520).

FIG. 7 A. Rodriguez San Giovanni Battista in meditazione – 1615-20. Fondazione Cariplo / Foto di M. Casanova

A. Rodriguez ,San Giovanni Battista in meditazione, 1615-20, Fondazione Cariplo  (ph. M. Casanova)

Nonostante la predominanza spagnola, in Sicilia «irrilevante rimaneva ancora la penetrazione della cultura spagnola, se si eccettuino certe influenze catalane riscontrabili in Antonio Catalano, oppure, appena successivamente, certi iberismi cromatici e materici di Alonso Rodriguez»(Siracusano 1989: 518).

Di certo come afferma Vincenzo Abbate (1987: 301-302) «la pittura ufficiale di quegli anni, rappresentata dalle grandi pale d’altare e dalle ampie superfici affrescate, fu senza dubbio quella di Pietro Novelli». In questo panorama fatto di diversità culturali e contrasti, nasceva già nei primi anni del Seicento la figura del collezionista, che, insieme ai mercanti dell’arte, permettono di arricchire l’ambiente artistico isolano attraverso nuove ventate pittoriche. Oltre al commercio artistico, e quindi fra i flussi commerciali che scorrono fra un porto e l’altro, si inseriscono anche gli spostamenti degli artisti, molte volte sollecitati dalle richieste delle committenze. Poiché il traffico commerciale fu di alta intensità nel “triangolo Sicilia-Genova-Fiandre” (Zalapì 1999: 147), la critica ha stabilito una serie di ipotesi che potesse spiegare anche il nuovo soggiorno di Matthias Stom in Sicilia dopo quello napoletano.

Fra i possibili contatti risalta la figura eclettica di Fabrizio Valguarnera, collezionista palermitano che troviamo a Roma durante la primavera e gli inizi dell’estate del 1631. Dopo il soggiorno madrileno nel 1628, si sussegue per il Valguarnera una serie di soste nel sud della Francia, a Genova, Livorno, Napoli, e infine a Roma dove più tardi lo avrebbe raggiunto l’ordine di cattura come autore presunto del furto di diamanti a Madrid, ipotesi che si avvalora a Roma poiché inizia ad acquistare opere dei più rinomati pittori attivi nella città pontificia. Il pagamento contante dei quadri, insieme con ori e pietre preziosi, incuriosì il governatore di Roma, che raccolse le testimonianze di quanti avessero avuto contatti e commerci con lui come i pittori Lanfranco, Poussin, Valentin de Bolulogne.

Anche se nel giro degli acquisti non sono presenti opere dello Stom, sappiamo che il Valguarnera, amatore d’arte, riusciva a conquistare e a stringere diverse amicizie fra cui con Van Dick e con Rubens che da Anversa gli scriveva per ringraziarlo per averlo guarito da un attacco di gotta quando i due si erano incontrati anni prima a Madrid: ciò può spiegarne la mobilità che il nobile godeva nell’intrattenere rapporti con la cultura artistica contemporanea, e che proprio a Roma, fra le sue amicizie poté conoscere Stom (Abbate 1990: 44-46).

Effettivamente la presenza di Stom a Roma è documentata nei registri parrocchiali della chiesa di S. Nicola in Arcione, nei quali risulta che dal 1630-32 il pittore risiedeva nella strada dell’Olmo (Hoogewerff 1942, 1980: 242), a due passi da Santa Maria di Costantinopoli, chiesa della Nazione siciliana a cui il Valguarnera era affiliato (Abbate 1990: 56, in nota). Nonostante le varie accuse che si muovevano a Fabrizio Valguarnera, che si faceva chiamare con lo pseudo nome Antonio [2], egli organizza una mostra in Santa Maria Constantinopoli il 10 giugno del 1631, patrona a Roma della nazione siculo-catalana, con circa undici opere esposte di pittori di una certa fama fra cui Reni, Guercino [3], Cavalier d’Arpino, Stanzione, Poussin, Lanfranco, Gentileschi, Pietro da Cortona, Sacchi, Domenichino e infine il Sandrart che molto probabilmente conosce Stom proprio in quella mostra.

Il fatto che Sandrart è presente in Italia, dal 1629 al 1635 e soprattutto a Roma in quella mostra, è  molto importante (è proprio il Sandrart che annuncia questo evento in un suo scritto del 1675), perché oltre ad aver conosciuto con tutta probabilità il pittore tedesco in quella mostra a due passi dall’abitazione dello Stom, ha dato anche occasione a un probabile incontro tra il nobile palermitano e il fiammingo. Questa circostanza trova conferma soprattutto nel Nicolson che ipotizza un incontro fra i due artisti in una delle città fra cui Utrecht, Napoli o Roma, e che in questo caso Roma sembra quella più plausibile (Nicolson 1977: 237). Se così fosse, l’amicizia tra Stom e Valguarnera può aver fruttato il canale per l’arrivo in Sicilia passando da Genova attraverso i mercanti d’arte della famiglia De Wael, con cui sappiamo che nel 1631 il Valguarnera era in stretto contatto (Abbate 1990: 46).

Fig. 8 W. Hollar Ritratto dei fratelli Lucas e Cornelius de Wael (incisione tratto da un dipinto di Antoon van Dyck).

W. Hollar Ritratto dei fratelli Lucas e Cornelius de Wael, incisione tratta da un dipinto di Antoon van Dyck

I fratelli De Wael, residenti a Genova dal 1620, diedero vita ad una “colonia” di pittori fiamminghi, ricreando attorno alla loro casa-bottega, il modello tipico dell’ambiente di origine. 

Proprio da Genova impartivano gli ordini per le esportazioni e le importazioni dei dipinti dalla Sicilia, grazie anche i contatti che i De Wael mantenevano tramite Geronimo Gerardi (Fig. 9), pittore fiammingo originario di Anversa, presente in Sicilia dal 1620, dove fu attivo per i padri Gesuiti di Palermo, Trapani e Salemi.

Grazie alla carica di console per la Nazione fiamminga del viceregno a Trapani, il Gerardi ebbe la possibilità di gestire uno dei porti più trafficati del momento, sovrintendendo ai traffici via mare per la circolazione di opere d’arte (Zalapì 1999: 148). Una figura che presenta comunque dei lati ancora scuri, ipotizzando che il Gerardi fosse quel pittore che a Roma nel 1619 divideva l’abitazione col Nicolas Tournier, e che egli avesse svolto un ruolo determinate nei traffici marittimi di opere d’arte fra la Sicilia e Genova, specialmente favorendo l’importazione di alcuni dipinti dell’oratorio del SS. Rosario di S. Domenico a Palermo, alcuni dei quali potrebbero esser stati eseguiti direttamente da lui.

 Fig. 9 G. Gerardi Immacolata Concezione – 1631.  Chiesa di S. Anna la Misericordia. Palermo


G. Gerardi, Immacolata Concezione , 1631, Chiesa di S. Anna la Misericordia, Palermo

Così che, dati i rapporti amichevoli con lo Stom, egli potrebbe avergli procurato la commissione della Flagellazione presso lo stesso oratorio (Paolini 1990: 52-66).

Teresa Viscuso invece ci presenta un quadro diverso sul Gerardi a Roma, un «Gerardo fiammingo», che nel 1615-16 risulta abitante a Roma in Via Frattina con tre pittori suoi conterranei, tra cui un Antonie Schouten di Amersfoort e Jacob de Wael, mentre nel 1618 forse lo stesso Gerardo risiede, nel 1618, nella parrocchia di Sant’Andrea delle Fratte. La stessa Teresa Viscuso è in dubbio che possa trattarsi dello stesso Gerardi che si trova documentato in Sicilia nel 1620, ma se così fosse può giustificarsi la sua presenza in Sicilia tramite Jacob de Wael, suo coinquilino a Roma e forse imparentato quest’ultimo con i de Wael a Genova, che ne favorirono il passaggio in Sicilia (Viscuso 1990: 103).

 Fig. 10 Oratorio del Rosario di San Domenico.  Palermo / Foto di Pierre Doyen


Oratorio del Rosario di San Domenico,
Palermo (ph. Pierre Doye)

Ma se la pista segnata dalla Viscuso appare improbabile per la conoscenza diretta tra Stom e Gerardi direttamente nella capitale, si può avanzare una nuova indagine che pare del tutto probabile. Infatti, il cerchio delle amicizie si stringe nel momento in cui sappiamo dei contatti fra il Valguarnera e il Gerardi. I due protagonisti li ritroviamo nel 1623 a Palermo quando ancora Fabrizio non aveva lasciato la Sicilia per Madrid e s’impegnava a portare a termine un affare con il collezionista d’arte Desiderio Segno, figlio primogenito del ricchissimo mercante genovese Giovanni Agostino, rettore della Chiesa di San Giorgio, con la richiesta al nobile palermitano di entrare in possesso di alcuni dipinti, il tutto con ben ottanta onze anticipate. Questo episodio, alquanto curioso, ha sollecitato in Vincenzo Abbate l’ipotesi di un vero e proprio raggiro ai danni del Segno, riconoscendo tra l’altro nel Valguarnera la figura del truffatore e imbroglione (Abbate 1999: 112). Ipotesi che si rafforza dal momento in cui Valguarnera aveva richiesto a Geronimo Gerardi quattro copie di dipinti di scene dell’Antico Testamento, che erano stati richiesti a sua volta dalla moglie del Valguarnera, specificando che dovevano trattarsi di mano di Tiziano. Di certo il fine della manovra era quella di poter intascare il denaro che Desiderio aveva versato come anticipo nelle tasche del Valguarnera.

Stom, quindi, poté trovarsi in mezzo al reticolo dei vari rapporti stretti nelle città di Roma-Genova-Palermo; in fondo sappiamo della grande amicizia nata a Palermo tra Stom e Gerardi, se quest’ultimo nel 1640 s’impegna a far da padrino nel battesimo del figlio di Matthias Stom (Mazzola, 1997: 70). Ma se l’episodio del collezionista Desiderio Segno rimane per fortuna un caso isolato, nobili e ricchi mercanti portarono avanti l’interesse ad avere una propria collezione, come del resto avveniva altrove, garantendo un certo prestigio a chi la collezionava.

  Fig. 11 Chiesa di San Giorgio dei genovesi.  Palermo / Foto dell’autore


Chiesa di San Giorgio dei Genovesi, Palermo (ph. S. Denaro)

Già agli albori del Seicento fu «avvertita unanime la brama? di possedere una collezione di dipinti, di oggetti d’arte, di curiosità e, a livelli culturalmente ancora più evoluti, di antichità» (Abbate, 1990: 15). I fattori decisivi che hanno originato l’intensificarsi di collezioni artistiche furono agevolati da una cospicua fonte di ricchezza accumulata grazie agli scambi commerciali rivolti verso il Nord: oltre al commercio della seta, della canna da zucchero, e in buona parte del grano, era diffuso il trasporto di opere d’arte, favorendo reciproche relazioni tra famiglie palermitane e genovesi, con l’apporto di grosse somme di denaro nelle casse dei nobili, pronti ad investire in cultura. Inoltre, con la costruzione della chiesa di San Giorgio e dell’Oratorio di Santo Stefano, che appartenevano alla nazione genovese residente a Palermo, si generò l’arrivo di opere d’arte soprattutto liguri destinati ad arredare questi edifici, in una felice competizione con l’ambiente artistico palermitano (Viscuso 1990: 101). 

La classe mercantile genovese che abitava a Palermo come i Malocello, i Lomellino, i Del Bene, i Giustiniani, completò in gran parte l’arredo pittorico della chiesa di San Giorgio, facendo arrivare dipinti scelti con un certo criterio, influenzati forse anche dal giudizio dalla pittrice Sofonisba Anguissola, residente a Palermo già dal 1615 e che aveva sposato in seconde nozze un Lomellino (Abbate 1984: 54). Le tele genovesi segnano, pertanto, il progressivo allontanarsi delle vicende manieristiche pittoriche, ma sarà la presenza del Van Dick in città su invito del vicerè Emanuele Filiberto di Savoia nel 1624, e la commissione ricevuta per l’Oratorio di San Domenico, che costituiranno un cenacolo intorno ad un artista già affermato, lasciando dei segni che si ritroveranno nella pittura del giovane Pietro Novelli (Siracusano 1989: 521).

 Fig. 12 M. Stom Flagellazione (Part.) - 1636-38. Oratorio del Rosario di San Domenico. Palermo.


M. Stom, Flagellazione (part.), 1636-38,
Oratorio del Rosario di San Domenico, Palermo

È proprio grazie al grande cantiere apertosi per l’arredo pittorico dell’Oratorio domenicano, con la direzione dei lavori affidata a Pietro Novelli (Mendola 1999: 203), insieme agli edifici della nazione genovese, che si assiste all’incremento nella pittura siciliana del filone naturalistico, ulteriormente accentuato dall’arrivo dei fiamminghi, molti dei quali anonimi, nell’Oratorio di San Domenico nei pressi della via Roma, una delle arterie principali della Città di Palermo. Fra le personalità fiamminghe più rappresentative dello Oratorio domenicano, ritroviamo Matthias Stom, con la presenza della Flagellazione, che marca una delle prime testimonianze della sua pittura in Sicilia.

La Flagellazione si presenta con quattro aguzzini intenti a fustigare Gesù Cristo legato a una colonna, illuminata artificialmente da una torcia sostenuta dalla figura di un ragazzo relegata a sinistra ma che partecipa emotivamente alla scena del supplizio insieme agli altri fustigatori.

 Fig. 13 A. Van Dick Madonna del Rosario 1625-27. Oratorio del Rosario di San Domenico. Palermo.

A. Van Dick, Madonna del Rosario, 1625-27, Oratorio del Rosario di San Domenico, Palermo.

L’opera si trova all’interno dell’Oratorio di San Domenico a Palermo nei locali adiacenti all’abside della chiesa omonima, fondata nel 1578. È molto probabile che l’opera sia stata commissionata proprio dai domenicani per il suddetto Oratorio, accordandosi alle altre pitture presenti di autori fiamminghi come il Van Dick con la sua lucente pala della Madonna del Rosario, commissionata nel 1625 e realizzata nel 1628 (Viscuso 1990: 106), la quale aveva preso il posto dell’omonima tela tenebrosa di Mario Minniti. 

Il 1628 corrisponde quindi all’inizio del rinnovamento vandyckiano e post vandyckiano promosso da Marco Gezio, canonico della Cattedrale e governatore della compagnia del Rosario di S. Domenico, importante personaggio della vita religiosa, civile e politica palermitana tra il 1615 e il 1658. Tra il ’39 e il ’40 sembra vada datato il cantiere decorativo dell’Oratorio del Rosario per mezzo di Antonio della Torre, governatore della compagnia (Zalapì 1999: 148), che si occupò di arredare l’Oratorio sotto la direzione di Pietro Novelli [4]. L’Oratorio quindi cambia il suo registro estetico attraverso le opere del Novelli, di Gerardo Gerardi, dell’anonimo Maestro di San Giovanni alla Guilla, di Matthias Stom oltre che a contributi liguri e napoletani (Scuderi 2000: 263).

La Flagellazione è considerata dalle ultime ricerche della critica come una delle primissime opere di Stom realizzata in Sicilia. Secondo Angheli Zalapì (1999: 148), il trasferimento del maestro a Palermo «non dovrebbe risalire a un periodo precedente al 1636-37», come invece attestano alcuni documenti che confermano stretti rapporti tra lo Stom, da poco giunto in Sicilia, e il Gerardi, facendo coincidere quest’amicizia con la commissione allo Stom della Flagellazione per l’Oratorio del Rosario di Palermo. L’opera è ricordata nei Dialoghi familiari sopra la pittura da Padre Fedele da San Biagio, nel momento in cui don Pio chiede al Padre dov’era possibile vedere opere del maestro «Se volete vederne uno, celebrato da tutti, andate nella chiesa della Compagnia di S. Domenico, […] vedrete un Cristo alla colonna dello Stomma, che per il solo impatto delle carnagioni vi rapirà di meraviglia» (Padre Fedele da San Biagio 1788, 2002: 171).

Fig. 14 Caravaggio Flagellazione 1607-1608  Museo nazionale di Capodimonte. Napoli.

Caravaggio, Flagellazione, 1607-1608,
Museo nazionale di Capodimonte. Napoli

Effettivamente l’impasto cromatico dei corpi della Flagellazione mostra un diverso modo di applicare la pittura che non ritroviamo nelle altre opere eseguite fuori dall’Isola, anche se i contorni delle figure e dei panneggi si presentano ancora morbidi e sinuosi reduci dell’esperienza napoletana. Di certo quest’opera apre la stagione pittorica di Stom in Sicilia che si direziona verso una pittura dal sapore “teatrale” e composizioni costruite come se fossero “quinte scenografiche” (Denaro, 2022). Secondo Mariny Guttilla la tela presenta diverse assonanze con alcune opere del Caravaggio: innanzitutto, il riferimento più evidente è la Flagellazione del Merisi realizzata per la chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli ora la Museo Capodimonte. Guttilla considera la Flagellazione «come uno dei momenti in cui Stom rivela piena adesione a schemi di tipo caravaggesco e padronanza nei virtuosismi luministici, modulati sull’esperienza del maestro» (Guttilla 1987: 240). Altro prototipo da segnalare è la presenza del ragazzo con la torcia che entra da sinistra, una figura cara allo Stom che riprende quella dell’Adorazione dei Pastori di Monreale o della Morte di Seneca a Napoli e dell’altra versione del Castello Ursino a Catania, ma che diventa in questo caso portatore della fonte di luce a lume di candela.

Fig. 15 M. Stom Adorazione dei Pastori - 1642-48. Palazzo del Municipio Monreale (in deposito temporaneo presso Palazzo Abatellis). Palermo.

M. Stom Adorazione dei Pastori, 1642-48, Palazzo del Municipio Monreale (in deposito temporaneo presso Palazzo Abatellis), Palermo

Su quest’ultimo aspetto è apparso decisivo l’influsso che Stom ebbe da Honthorst, e che diversi critici sostengono sia derivante da un apprendistato all’interno della bottega del maestro di Utrecht prima del suo viaggio in Italia. Possiamo affermare, quindi, che l’Oratorio di San Domenico funge da propulsore al nuovo taglio pittorico che intraprenderà la pittura siciliana, almeno nel versante occidentale dell’Isola. Tuttavia, scarse sono le committenze pubbliche che Stom ricevette durante il suo soggiorno sull’Isola, mentre, fra le possibili commissioni private, si distinguono quelle ricevute dalla famiglia Branciforte, e quella di don Antonio Ruffo principe della Scaletta. Mentre il primo si distinse per una collezione basata su pittori di origine locale, o stranieri operanti in Sicilia, il secondo, contando su una quadreria più numerosa, possedeva opere di artisti nord europei. 

I Branciforte appartenevano ad una delle famiglie più potenti del regno, suddivisi in tre rami principali dei Mazzarino-Butera, Raccuja-Leonforte, Cammarata-S. Giovanni, i quali rappresentavano ormai da secoli il vertice della vecchia aristocrazia terriera, anche se intorno alla metà del Seicento conoscono una profonda crisi, prodotta spesso dal lusso eccessivo, dalla conseguente rovina economica, dovuta anche ai cattivi raccolti e alle carestie che affliggevano la Sicilia in quei tempi.

La collezione di Giuseppe Branciforte, nato nel 1619, conte di Mazzarino e più tardi dal 1662 principe di Butera, si era andata formando intorno agli anni Quaranta e Cinquanta, decennio in cui il Branciforte finì di ristrutturare il suo palazzo di Mazzarino, e dove nell’inventario del 1675, redatto alla morte del conte, viene menzionato il nome di Matthias Stom: «Cinque quatri originali di Mattheo Stomo d’Istorie cioè della disputa di nostro signore con Dottori, della nascita di nostro signore, della sentenza di Salomone, di S. Mattheo e Mutio sceuola» (Abbate 1987: 293-297). I dipinti del conte, come tutti i suoi beni liberi e mobili, furono acquistati nel 1680 dal nipote Carlo Maria Carafa Branciforte, quarto principe di Roccella e suo legittimo successore negli stati di Butera e Mazzarino. Alla morte di Carlo Maria la collezione passò nel 1695 alla sorella Giulia che aveva sposato Federico Carafa dei Duchi di Bruzzano. I dipinti vennero trasferiti a Napoli in casa Carafa dopo la morte di Giulia, e nell’inventario del 1767 compare un sesto quadro dello Stom, ovvero, il quadro di Donna adultera. Fra le altre collezioni appartenenti sempre all’ambito della famiglia aristocratica dei Branciforte, si distingue un inventario datato 1647 di proprietà di Giuseppe Carafa duca di Bruzzano, dove compare «un quatro originale di Matteo Stom che rappresenta Gesù colla croce in collo», il quale, secondo la Zalapì, è da individuare in una collezione privata a Budapest, mentre per l’Isacco che benedice Giacobbe e il Cristo fra i Dottori, si trovano rispettivamente al Museo di Birmingham e in collezione privata a Lugano (Zalapì 1999: 156, in nota).

Fra gli altri Branciforte, che possedevano altre collezioni, risalta la quadreria di Francesco duca di Santa Lucia, barone di Cassibile e cavaliere di San Giacomo della Spada, fratello di don Giuseppe Branciforte, principe di Leonforte e Pietraperzia: nell’inventario del 1684 si nomina «un altro quadro Sperlungo con cornice intagliata e dorata da 3 e 2 ½ con figura d’huomo che soffia lo tizzone per accendere la candila». Questa collezione, insieme all’altra quadreria di donna Camilla Trigona e Maletto, sarà ereditata da Nicolò Branciforte figlio di Francesco, futuro principe di Butera. Alla morte del principe, nel 1723, la sua collezione contava almeno, tra quadri grandi e piccoli, ben 482 opere.

L’altra grande collezione di opere d’arte nella Sicilia del Seicento, insieme a quella dei Branciforte, fu quella posseduta da don Antonio Ruffo principe della Scaletta. La sua collezione con 168 dipinti, acquistati tra il ’46-’49, ha trovato conferma nell’inventario redatto dallo stesso don Antonio Ruffo nel 1649 (Ruffo 1916: 40-42), periodo che segna anche l’inizio delle fortune personali, politiche ed economiche del futuro principe (De Gennaro 2003: XI). Proprio fra questi quadri sono registrate le opere di Stom, insieme ad artisti come il Rodriguez, il Barbalonga, il Novelli e il Van Dick e persino Rembrandt. Allo stato attuale dei fatti non sappiamo se le opere dello Stom siano state commesse direttamente o acquistate sul mercato palermitano, poiché il principe delegava i suoi agenti, fra questi Antonio Prussimi, suo corrispondente nel capoluogo isolano «a fare incetta di dipinti del Novelli e dello Stomer, sicuramente di più facile reperimento, dal momento che i due pittori risultano ancora attivi in città agli inizi degli anni Quaranta» (Abbate 1999: 124). Fra i suoi agenti, spicca Antonio Santi, il quale possedeva una certa competenza in materia artistica, per questo incaricato a fare acquisti di quadri d’autore presenti a Palermo. In effetti, egli si trovava a Palermo tra il 1648 e il 1651 a rappresentare la ditta del Ruffo (Ruffo 1919: 46). La sua collezione si era sviluppata negli anni della sua fortuna economica, e occupava un posto a Messina? nel palazzo nei pressi della marina [5], che diventò inoltre sede di un’accademia, frequentata dal medico scienziato bolognese Marcello Malpighi, ricordata dalle memorie del medico dopo aver lasciato l’Ateneo messinese per trasferirsi a Bologna.

Poiché il terremoto del 1783 ha causato la dispersione dell’inventario siglato da don Ruffo, oggi dobbiamo ringraziare il lavoro effettuato da V. Ruffo nel 1916, che promosse una ricerca sulle fonti storico-artistiche messinesi in seguito ad un’accurata ricerca presso l’archivio di famiglia. Un manoscritto ritrovato dalla stessa De Gennaro negli anni ’90 del Novecento, scampato al terremoto del 1783, conferma la certezza dei dati dell’inventario di V. Ruffo, tant’è che, al confronto con l’inventario ritrovato, risultano marginali gli elementi e i dati tralasciati dallo stesso per la ricostruzione della quadreria (De Gennaro 2003: XIX-XXI).

Tra le opere dell’artista fiammingo vengono registrati: «due teste di mano di Matteo Stom  fiam(eng)o», meglio descritte nell’elenco di V. Ruffo come «due quadretti con teste di uomo e donna »; «un quatro con Catone che si ammazza nel quale vi è il figlio, il medico, et una vecchia di palmi 5 e 6 fatto di mano di Matteo Stom fiam(eng)o a lume di notte»; un altro ancora «di palmi 4 e 5 con tre mezze figure cioè S. Pietro, l’ancilla et il soldato» (Abbate 1999: 124). Abbate ha dedotto, sulla base del valore d’acquisto riferiti alla galleria Ruffo, che la quotazione più alta spettava al Van Dick, poi al Novelli e a seguire allo Stom per l’acquisto del Catone. Un altro catalogo concernente la quadreria del duca di Cesarò è comparso agli inizi del Settecento.

Matthias Stom, Arresto di Cristo, Museo Nazionale di Dublino (ph. National Gallery of Ireland)

Matthias Stom, Arresto di Cristo, Museo Nazionale di Dublino (ph. National Gallery of Ireland)

Fra le altre famiglie aristocratiche che tanta parte hanno avuto nella storia della Sicilia si distingue poi la famiglia dei Ventimiglia. Carlo Maria Ventimiglia (1576-1662) è il vero scienziato del Seicento, mente universale che spazia dalla matematica alla astronomia, dall’architettura alla fisiologia, trasformando la sua casa in una scuola, in un museo e in una biblioteca ma soprattutto in un’accademia dove troviamo il meglio della cultura palermitana (Monreale 1999: 141-142) e con molta probabilità anche uno spazio dedicato alle sue collezioni d’arte nell’inventario compilato nel 1699.

L’inventario della famiglia Ventimiglia, redatto per volere di donna Ninfa Ventimiglia e d’Afflitto e Don Giuseppe Ventimiglia, tutori e curatori di don Gaetano, erede di don Francesco Ventimiglia, principe di Belmonte, riporta: «In primis il quatro della presa del Orto di palmi quattordici e dieci con sua cornice bianca di mano di Mattheo Storno stimato p. detto Silvio Riccobeni pittori In unzi sessanta» (Zalapì 1999: 150-151). Il dipinto della collezione è stato identificato con la Cattura di Cristo della National Gallery di Dublino in perfetta sintonia con la Flagellazione dell’Oratorio del Rosario di Palermo, tanto più che già Nicolson considerò la tela di Dublino come opera del periodo siciliano (Nicolson 1979: fig. 1541).

Le numerose opere di Matthia Stom, permettono di capire che il soggiorno sull’Isola del maestro è stato relativamente lungo, forse anche più duraturo che nel resto delle altre città in cui è stato ospite.

I «Quattro quatri di Santi copie di Matteo Stomo» negli inventari della collezione di Giuseppe Branciforte principe di Butera, ha fatto pensare a Mancini (Mancini 1995: 202) che Stom abbia riscosso un discreto successo in Sicilia, perché normalmente venivano richiesti copie di quadri famosi. La Sicilia, nonostante la condizione di perifericità rispetto alle novità artistiche che stava vivendo dell’Italia centro-settentrionale, raduna, dunque, grazie ai suoi collezionisti, opere di un certo spessore destinate ad arricchire le proprie collezioni con opere di artisti rinomati. 

Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023 
Note 
[1] Placido Samperi fu uno storico gesuita che nel 1644 pubblicò a Messina “l’Iconologia della Gloriosa Vergine Madre di Dio” divisa in cinque libri. Il suo trattato è noto per aver raccontato la vicenda della “Madonna della Lettera” patrona di Messina.   
[2] Lo pseudo-nome effettivamente era una copertura per sfuggire ai controlli, dopo che si promosse verso di lui una vera e propria mobilitazione internazionale dalla Spagna all’Italia per recuperare quei diamanti, a quanto pare di notevole quantità, rubati a un gruppo di mercanti spagnoli e fiamminghi, frutto di una serie di guadagni commerciali (Sciascia 1994: 17). 
[3] È importante segnalare la presenza del Guercino nella mostra, poiché come ha fatto notare Schneider, ritroviamo elementi del pittore bolognese in alcune opere del Fiammingo, in particolare in Sicilia si segnala L’Adorazione dei Pastori nel Palazzo Abatellis (Schneider 1967: 117). 
[4] Lo storico ci riporta la notizia che Novelli faceva parte della confraternita dal 1630, come risulta dal bollo dei confrati compilato nel 1650 (Meli 1888, ed. 1911: 98). 
[5] Palazzo gravemente danneggiato durante il terremoto del 1783, e andato completamente distrutto in quello del 1908. 
Riferimenti Bibliografici 
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Salvatore Denaro, insegnante e storico dell’arte, esperto d’arte medievale e moderna. Ha conseguito la laurea in Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Palermo con una tesi sull’arte contemporanea “L’estetica delle rovine”. Nel 2009 ha conseguito la laurea specialistica in Storia dell’Arte all’Università di Bologna con una tesi sul caravaggista Matthias Stom. Nel 2019 ha presentato al Mast di Castel Goffredo (MN) un seminario sull’arte contemporanea dal titolo Potevo farlo anch’io: i linguaggi artistici del XX secolo insieme alla critica d’arte Ingrid Strazzeri. Attualmente vive e lavora in Lombardia.

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