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La Cité du Fleuve, il quartiere galleggiante e blindato di Kinshasa

Kinshasa, cité du fleuve, veduta aerea

Kinshasa, la Cité du Fleuve, veduta aerea

di Giovanni Gugg 

From Kin la belle to the Moon

“From Kinshasa” è uno dei dischi più interessanti degli ultimi anni, realizzato nel 2015 da una band congolese visionaria e talentuosa, i Mbongwana Star. Alcuni dei sette membri del gruppo furono tra i fondatori dello Staff Benda Bilili, una delle più celebri band congolesi della fine del Novecento. L’album “From Kinshasa” ha ricevuto “il plauso universale” della critica, che ne ha lodato il suono abrasivo che fonde il groove di rumba congolese e distorsioni rock e post-punk su un tappeto elettronico dub decisamente originale: come ha scritto il sito di recensioni musicali “Metacritic”, le sue canzoni sono veri e propri «nuovi affluenti per una musica in rapida evoluzione», che per un disco che viene da una megalopoli in riva ad uno dei fiumi più importanti del mondo è una splendida metafora [1].

Del disco, “Kala” e “From Kinshasa to the Moon” sono i brani più noti, dove il sound evoca un paesaggio sonoro inquietante e precario, in cui tra le chitarre soukous compaiono bassi distorti, deformati dagli echi e dal riverbero psichedelico. Se la musica esprime un sentire comune che, a suo modo, racconta determinati luoghi e le comunità che vi abitano (Herndon, McLeod 1982), allora il disco dei Mbongwana Star rientra a pieno titolo in quel ventaglio di prodotti culturali che permettono di sentire più chiaramente e più intimamente la Kinshasa contemporanea, con le sue varietà e contraddizioni, con le sue inquietudini e speranze. È un suono del futuro che racconta il ritmo del presente, quello, tra l’altro, di una “città della musica” dell’Unesco proprio dal 2015, dove la musica – soprattutto la rumba congolese – è considerata il principale collante sociale di una realtà urbana fatta di grandi diversità e disuguaglianze, una pratica sociale e culturale condivisa, come testimoniano gli innumerevoli studi di registrazione presenti a Kinshasa, tra cui Olympia, Ngoma e Loningisa, che hanno un’importanza riconosciuta a livello internazionale [2].

Ricorrere a un disco di musica contemporanea per introdurre una città complessa ed eclettica come Kinshasa mi sembra la maniera più efficace, perché tiene insieme l’ascolto tranquillo sul divano e la danza sfrenata in un rave, tocca una tale varietà tonale, strutturale e di stili che offre sensazioni al contempo familiari e ultraterrene: Kinshasa è un continente all’interno del pianeta Congo, che a sua volta fa parte della galassia Africa.

Kinshasa, veduta area

Kinshasa, veduta area

Più prosaicamente, sul piano urbano Kinshasa è la capitale della Repubblica Democratica del Congo, si trova di fronte a Brazzaville, la capitale della vicina Repubblica del Congo, che può essere vista in lontananza, al di là dell’ampio letto del fiume Congo, che separa le due città. Kinshasa è una delle tre megalopoli africane, insieme al Cairo e a Lagos; ha il più alto numero di abitanti di qualsiasi altra città del continente, con 15 milioni di residenti, ed è anche la seconda più grande città francofona del mondo, dopo Parigi. In soli cinquant’anni, la popolazione è aumentata di venti volte e, nei prossimi due decenni, si calcola che Kinshasa dovrà espandersi di 3.000 ettari solo per accogliere tutti i nuovi arrivati; un’area delle dimensioni della città di Rotterdam e il suo porto (Wolff, Delbart 2002). Fondata nel 1881 da Henry Morton Stanley come stazione commerciale dell’impero coloniale belga, con il nome di Léopoldville, in onore del re Leopoldo II del Belgio, poi, dopo l’indipendenza del 1960, cambiato in Kinshasa nel 1966, durante la presidenza di Joseph-Désiré Mobutu. Dopo molti anni di conflitti armati esplosi negli anni Novanta, che la hanno gravemente segnata, la capitale congolese ha recentemente visto le sue infrastrutture urbane restaurate o rimesse in piedi da numerose aziende cinesi, mentre gli studi del McKinsey Global Institute (2011) prevedono che nel prossimo futuro sarà tra le 20 città più dinamiche al mondo.

Contrariamente a molte altre città africane, il cui sviluppo è condizionato dalla scarsità di risorse idriche o di terre edificabili, Kinshasa si trova sulle rive del secondo fiume più grande del continente e ha a disposizione ampi terreni per le future espansioni urbane. Attualmente, la megalopoli è tentacolare e caotica, caratteristiche che spesso portano a esserne intimiditi, tuttavia la grande capitale della RDC è anche un centro culturale e intellettuale di straordinario fermento, con una vivace comunità di artisti, in particolare di musicisti e di stilisti. D’altra parte, con i suoi tanti abitanti Kinshasa è un agglomerato di grandi diversità culturali, ossia la condizione ideale perché vi emergesse un mélange sonoro unico, un genere musicale di successo internazionale come la rumba congolese. In effetti la musica ricopre un ruolo centrale nelle dinamiche locali, perché qui assume lo status di pratica sociale condivisa, di strumento culturale chiave per il dialogo interculturale e per la coesione delle tante anime della città.

Alimentando la sua creatività, Kinshasa è progressivamente diventata una capitale sempre più attrattiva; è “Kin la belle”, come recita un altro brano di successo, ma stavolta del rapper Damso, quindi in espansione demografica, finanziaria e immobiliare. Il caso più eclatante di nuova urbanizzazione è la “Cité du Fleuve”, un quartiere realizzato su alcuni banchi di sabbia del fiume Congo, ma, prima di descriverlo, fornisco alcune informazioni su questa particolare forma di inurbamento, presente da decenni in varie zone del mondo. 

Kinshasa, cité du fleuve, progetto iniziale

Kinshasa, Cité du Fleuve, progetto iniziale

Quartieri blindati e città galleggianti

Negli ultimi cinquant’anni, a cavallo tra Novecento e Duemila, nelle principali città del Nord America e poi del resto della Terra, specie in Sud America e Sud Africa, sono andate sviluppandosi le cosiddette “gated community”, ossia delle aree residenziali recintate, sorvegliate giorno e notte da guardie e telecamere, in cui risiede la minoranza più ricca. Questi “quartieri blindati” sono vere e proprie “città nella città” in cui vigono regole proprie, e dove gli estranei – prima di entrare – devono identificarsi e specificare il motivo della visita. Sono quartieri suburbani in cui vige la logica della segregazione, di reddito e di fascia sociale, ricercata da chi cerca sicurezza e comodità o, ribaltando il linguaggio, da chi scappa da pericoli e disagio, non di rado anche immaginari. Le “comunità recintate” (o “murate”) sono fisicamente separate dal resto della città o del territorio e ne esistono sia di piccole, dove i servizi condivisi possono essere giusto un parco, una piscina o una pista da bowling, sia di grandi, dove per i residenti è possibile rimanere all’interno del recinto per la maggior parte delle attività quotidiane. La differenza è spesso dovuta alla posizione geografica, alla composizione demografica, alla struttura della comunità e alle tasse comunitarie riscosse. Per certi versi, si tratta di luoghi che recuperano l’idea della città fortificata o del castello, ovviamente con tutta la loro retorica.

L’antropologa Setha M. Low, che ha compiuto varie etnografie presso le gated community di San Antonio, in Texas, e di Long Island, nello Stato di New York, ritiene che questo tipo di enclave abbiano un effetto negativo sul capitale sociale netto della comunità più ampia in cui si situano, perché creano nuove forme di esclusione e segregazione residenziale, esacerbando le fratture sociali già esistenti (Low 2001). Originariamente, spiega, negli Stati Uniti delle comunità protette e recintate furono costruite per proteggere le proprietà e contenere il mondo del tempo libero dei pensionati, mentre negli ultimi decenni questa forma di sviluppo urbano e suburbano si rivolgono a un mercato molto più ampio, comprese le famiglie con bambini, di classe media e medio-alta.

Protette con muri, cancelli e guardie di sicurezza private, alcune comunità sono così blindate da assomigliare a roccaforti, infatti sono socialmente considerate tali. Quando si tratta di grandi comunità sono realtà pressoché autarchiche, dove si può trovare l’ospedale, la scuola, il centro commerciale e altro ancora. In certe località del mondo si trovano gate community particolarmente chiuse, come in Sudafrica, che nei decenni post-apartheid ha visto aumentare molto le comunità recintate in risposta agli alti livelli di criminalità violenta (Landman 2020): sono quartieri che fanno emergere le contraddizioni della società sudafricana contemporanea, perché incarnano sia la dimensione sociale che quella spaziale e includono retoriche come la sicurezza (all’interno) contro l’insicurezza (all’esterno), l’inclusione contro l’esclusione, una maggiore base imponibile rispetto a una maggiore segregazione spaziale, le opportunità di lavoro contro il “nimbysmo”, cioè l’attitudine di coloro che non vogliono che qualcosa venga costruito o fatto vicino a dove vivono.

Un altro caso piuttosto noto si trova in Brasile, dove la forma più diffusa di gated community si chiama “condomínio fechado” (complesso residenziale chiuso), il posto più ambito dove vivere, per gli strati sociali privilegiati. L’antropologa Cristina Patriota de Moura (2010) ha analizzato dei casi presenti a Brasilia e a Goiânia, per i quali osserva una particolare forma di barriera, accanto a quella dei muri e dei cancelli, ossia quella dei paesaggi aperti, dove i confini tra la comunità e il resto del territorio sono segnati da cortili erbosi, i quali sono arrivati a rappresentare visioni paradisiache delle città brasiliane, sebbene siano sorvegliati tanto quanto quelli fortificati più classici. Per questa ragione, Patriota de Moura invita a non cadere nella tentazione di considerare questi luoghi e le comunità che vi abitano come omogenei o uniformi in tutto il mondo, perché, al contrario, assumono delle specificità locali che le rendono più varie di quanto lasci trasparire l’uso globale del termine gated community.

Resta molto plausibile, tuttavia, quanto osservato dall’antropologo Rich Benjamin in un editoriale pubblicato dal “New York Times” il 29 marzo 2012, ovvero che «le gated community alimentano un circolo vizioso attirando residenti che la pensano allo stesso modo, che cercano rifugio dagli estranei e il cui isolamento fisico poi peggiora il pensiero di gruppo paranoico contro gli estranei». Inoltre, scrivevano già nel 1998 Edward J. Blakely e Mary Gail Snyder, le comunità recintate offrono un falso senso di sicurezza, perché quelle nelle aree suburbane degli Stati Uniti non hanno registrato meno crimini, rispetto a quartieri simili non recintati.

La variante più recente di questo modello urbanistico-sociale è quella delle “floating cities”, delle “città galleggianti”, ormai presenti o progettate in varie metropoli del pianeta: da New York a Dubai, da Lagos ad Amsterdam. Ne esistono di innumerevoli tipologie: nella Grande Mela è stato realizzato “Little Island”, un giardino sospeso sul fiume Hudson all’altezza del Pier 55, a Manhattan, grazie a una piattaforma sostenuta da 300 colonne di cemento a forma di fungo; a Lagos, in Nigeria, è in fase di completamento “Chicoco Radio”, un ponte sospeso tra mare e terra, destinato agli abitanti di Port Harcourt che, così, avranno a disposizione uno spazio multimediale in cui trovare studi radiofonici e di registrazione, sale riunioni e cinematografiche, teatro e spazi con computer; in Cina, al largo di Macao, la società AT Design ha immaginato la più imponente isola galleggiante abitata del mondo che, se vedrà la luce, potrà essere considerata come un prototipo di città avveniristica, fatta di moduli prefabbricati fluttuanti, tunnel sottomarini e ristoranti, parchi a tema e alberghi con vista sotto il mare, con tutto il suo portato di fantasia e inquietudine. È la medesima concezione seguita a Dubai, negli Emirati Arabi, dove è sorta la celebre “The Palm” ed è in via di completamento “The World”, due agglomerati di isole artificiali extra-lusso destinate a magnati di tutto il mondo. Nel 2025 davanti alla costa del Principato di Monaco verrà inaugurato “l’Anse du Portier”, un “ecoquartiere” di 6 ettari costruito su una terra sottratta al mare: un’operazione tecnicamente avanzatissima e lavorativamente proficua, che tuttavia è un esempio perfetto della “urbanizzazione del capitale” di cui parla David Harvey (2010), una zona residenziale esclusiva accessibile a pochissimi.

Qualcosa di simile è in atto da oltre dieci anni a Kinshasa, nel letto dell’imponente fiume Congo, sebbene nel corso del 2021-2022 siano sorte numerose titubanze, critiche e opposizioni al progetto.

Kinshasa, Cité du Fleuve, progetto attuale

Kinshasa, Cité du Fleuve, progetto attuale

La Cité du Fleuve

In giro per la metropoli, i cartelloni pubblicitari dei cantieri di centri congressi, hotel a cinque stelle, grattacieli e nuovi quartieri, promettono di portare “modernizzazione” e “un nouveau niveau de vie à Kin” (un nuovo standard di vita a Kinshasa). Il progetto più ambizioso è certamente quello della “Città del Fiume”, una vera e propria città satellite della capitale congolese, posta a nord-est del centro, su due isole artificiali del grande fiume, immaginata nel 2008 e la cui costruzione è cominciata nel 2009, prima con la bonifica di banchi di sabbia e paludi, poi con l’avvio dell’edificazione. Secondo i promotori, l’area diverrà «la vetrina della nuova era dello sviluppo economico africano» e fornirà «uno standard di vita ineguagliato a Kinshasa»[3]; sarà dunque un modello per il resto del continente, prevedendo edifici residenziali, parcheggi e strade asfaltate, nonché centri commerciali, uffici e strutture per conferenze, il tutto con un’autonomia idrica ed energetica garantita da una produzione indipendente. L’ambizione è rendere la Cité du Fleuve il luogo di residenza stabile per almeno 250 mila persone, così da raggiungere anche lo status amministrativo di un nuovo comune, soggetto ad un proprio regime speciale.

La principale delle due isole della Cité du Fleuve è collegata alla terra ferma con due lunghe strade che conducono da un lato a Gombe, l’attuale centro cittadino, e, dall’altro, all’aeroporto internazionale di Ndjili, scavalcando immense distese urbane povere e marginali. La portata di questa nuova urbanizzazione è tale che potenzialmente potrebbe ridisegnare in modo radicale le geografie di inclusione ed esclusione dell’intera megalopoli perché, riecheggiando i modelli segregazionisti di “ville” e “cité”, molto efficaci durante la colonizzazione belga, è chiaro che le isole diventeranno la nuova “ville”, mentre il resto di Kinshasa sarà ridefinito come periferia, secondo un processo di ‘favelizzazione’ comune a tante metropoli del mondo, cresciute in modo dirompente e irregolare negli ultimi decenni.

Kinshasa, Cité du Fleuve, strade

Kinshasa, Cité du Fleuve, strade

Inizialmente, i costi di costruzione erano stati stimati in un miliardo di dollari USA ma, secondo alcune fonti, sarebbero lievitati a “diversi miliardi”, gestiti da Hawkwood Properties, un fondo finanziario britannico, il cui azionista di maggioranza è Mukwa Investment. Questa è una società di investimento con sede a Lusaka, in Zambia, rappresentata in RDC da Robert Choudury, un uomo d’affari franco-libanese che attualmente si sta adoperando per aprire sull’isola un’agenzia della Real Estate Bank of the River, così da invogliare la nascente classe media congolese ad acquistare una casa a credito grazie ai prestiti concessi dalla banca.

Il progetto è particolarmente popolare tra gli emigrati congolesi in Europa e negli Stati Uniti che intendono rientrare nel Paese, ora che l’economia sta crescendo e dando fiducia. Soprattutto, è necessario guardare la tendenza: nel prossimo decennio, la popolazione di Kinshasa dovrebbe ulteriormente aumentare della metà, per cui, proprio per accogliere i nuovi arrivati, la città dovrà espandersi molto e la Cité du Fleuve, l’unico posto in cui è possibile vivere vicino al fiume e in cui sono disponibili case spaziose e con tutti i confort, risponde perfettamente a tale esigenza.

La prima fase di costruzione della Città del Fiume è stata completata nel 2016, quando sono stati consegnati i primi edifici, ma successivamente l’area è stata ulteriormente estesa a est e a sud, ampliando notevolmente l’area edificabile, almeno fino al 2019, quando un allagamento ha sollevato dubbi sul progetto della città satellite, e si è discusso di un trasferimento. Nel 2020, inoltre, ci sono stati molti rallentamenti in termini di logistica e forniture, per cui il progetto risulta in ritardo su vari obiettivi. Attualmente conta più di 400 unità abitative con circa 3.000 abitanti, tuttavia il piano sembra aver perso l’aura iniziale, perché negli ultimi due anni – e per la prima volta in oltre un decennio – si sono levate voci critiche ed è cresciuto il numero di danni, la cui origine è spesso ancora ignota.

Kinshasa, Cité du Fleuve, strade

Kinshasa, Cité du Fleuve, strade

Il 3 ottobre 2020, ad esempio, c’è stato un incendio nella casa dell’allora ministro congolese dell’urbanistica e dell’edilizia abitativa, Pius Muabilu, situata proprio sulla Cité du Fleuve. Si tratta di un episodio grave in sé, ma che è diventato inquietante una settimana dopo, quando nella casa del politico è divampato un altro incendio. Muabilu affermò che le fiamme si erano accese a causa delle scintille dovute a varie interruzioni di corrente, ma l’amministratore del sito, Robert Choudury, invitò alla cautela, rimandando ogni commento al termine delle indagini. Al contempo, però, sottolineò che ciascun proprietario sull’isola aveva l’obbligo legale di sottoscrivere un’assicurazione, sebbene, aggiunse, «quasi la metà dei residenti non paghi la propria quota»[4]. Nei mesi, i rapporti tra Muabilu e Choudury si deteriorarono progressivamente, fino all’annuncio del 21 aprile 2021, da parte del fondo immobiliare, di avere l’intenzione di denunciare il ministro e il presidente dell’associazione dei proprietari, Serge Kasanda, per aver infamato il sito («a fini speculativi») sulla stampa internazionale. Infatti, due giorni prima, il 19 aprile, “Le Monde”, il principale giornale francese, pubblicò un lungo articolo intitolato “La Cité du fleuve, il sogno immobiliare di un’élite che fa acqua a Kinshasa”[5], in cui Kasanda denunciava ritardi nella consegna e una diminuzione del valore degli immobili, nonché l’acqua insalubre e problemi nello smaltimento dei rifiuti.

La notizia fu ripresa il 20 aprile da “Euronews”, il canale televisivo giornalistico dell’Unione europea, con un’ulteriore intervista a Kasanda e immagini di infiltrazioni e muffa negli appartamenti [6]. Successivamente, il 24 aprile, anche il canale all-news francese BFMTV ha dedicato un servizio al “fallimento” della Cité du Fleuve, riferendo di inondazioni nel dicembre 2020 e degrado generalizzato lungo le strade, aumentando ulteriormente la disapprovazione della proprietà [7]

Kinshasa, Cité du Fleuve, veduta area

Kinshasa, Cité du Fleuve, veduta area

Svanisce un sogno o un incubo?

Quello che alcuni anni fa sembrava essere un progetto che inorgogliva i congolesi, sebbene la stragrande maggioranza di loro non avrebbe mai potuto accedervi, perché creava un sogno collettivo verso cui tendere, ora produce scetticismo e critiche. Sebbene ancora timide ed episodiche, le opinioni avverse provengono soprattutto dai contadini della zona, le cui terre, bonificate negli anni, ora sono minacciate dal progetto immobiliare, o dai pescatori, le cui barche si arenano tra liquami e rifiuti. Quella che doveva essere “la piccola Dubai di Kinshasa”, adesso mostra soprattutto le sue ombre, quelle di un’urbanizzazione globale che, al di là delle intenzioni e delle scintillanti proiezioni su rendering e modellini, produce segregazione e baraccopoli, come quella di “Big World”, uno slum del sobborgo di Kingabwa, adiacente alla Cité du Fleuve, noto per il suo isolamento e per la sua insalubrità, un agglomerato di precarietà e vulnerabilità in cui frequentemente esplodono crisi sanitarie, dovute all’acqua inquinata da rifiuti gettati nella valle in cui scorre il maestoso fiume Congo.

Tuttavia, il colpo decisivo alla realizzazione completa del “quartiere galleggiante” di Kinshasa non viene dal basso, bensì dalla crisi finanziaria e dagli scandali legati alla corruzione. Alla fine del 2021 una estesa inchiesta giornalistica internazionale senza precedenti, chiamata “Congo Hold Up”, ha probabilmente fissato la parola conclusiva al lussuoso esperimento urbanistico congolese. Con la collaborazione di circa 100 giornalisti di 19 media e 5 ong, originari di 18 Paesi, sono stati analizzati 3 milioni e mezzo di documenti riguardanti movimenti finanziari tra la Banca Centrale della Repubblica Democratica del Congo e una banca privata, la BGFI Bank, il cui fulcro riguarda un fondo occulto di 76 milioni di dollari di cui sarebbe stato beneficiario l’ex presidente Joseph Kabila, i suoi familiari e i suoi soci, camuffato nel bilancio ufficiale della Banca Centrale per nascondere alcuni pagamenti [8].

Tra i documenti di Congo Hold Up ottenuti dalla PPLAAF (Piattaforma per proteggere gli informatori in Africa) e dal giornale francese Médiapart, vi sono milioni di estratti conto bancari e di transazioni bancarie, e-mail, contratti, fatture e documenti aziendali. Tra loro, molti riguardano la Cité du Fleuve e alcuni trasferimenti sospetti del suo promotore franco-libanese, che avrebbe ritirato più di due milioni di dollari in contanti e nascosto ai suoi clienti le sanzioni che stava affrontando da parte delle autorità finanziarie congolesi [9].

Il costo minimo di un appartamento sull’isola era di 150 mila dollari, che equivale a 280 anni di stipendio per un congolese medio, e tra i primi proprietari, diverse star musicali congolesi hanno condiviso spesso immagini di quel posto sui socialnetwork. È il caso di Inoss’B, che ha pubblicato video degli interni marmorei della sua abitazione, o di Fally Ipupa, che si vede girare per le strade al volante della sua auto sportiva giallo canarino. Molti altri sono più discreti, come ministri ed ex ministri, alti ufficiali e ricchi uomini d’affari, tuttavia il sito è divenuto progressivamente meno attrattivo, avvitandosi in una spirale decadente che difficilmente verrà invertita. I video promozionali e le proiezioni in 3D per i nuovi acquirenti lo presentavano come un luogo destinato a diventare un «centro urbano di livello mondiale», con torri avveniristiche, immensi centri commerciali, ville con piscine e viali fiancheggiati da palme rigogliose, e poi ovviamente scuole, parchi, porti turistici e alberghi. Il “paradiso” del “grande Congo moderno”, che quando Joseph Kabila era ancora presidente la stampa filogovernativa citava come un esempio della “rivoluzione della modernità” guidata dal capo dello Stato, è in realtà un’illusione lontana: dei 400 ettari previsti, solo 40 sono stati costruiti e dei 10.000 appartamenti annunciati, ne sono stati realizzati solo 500.

Kinshasa, Cité du Fleuve, veduta satellitare

Kinshasa, Cité du Fleuve, veduta satellitare

In un altro dei miei brani congolesi preferiti degli ultimi anni, “Kongo”, del 2018, la cantante Kolinga intona questo verso: «Kongo, à l’image de ton fleuve ton tumulte m’émeut / Et arrache tous mes masques / A nue je me jette à l’eau» (“Kongo, come il tuo fiume, il tuo tumulto mi commuove / E mi strappa tutte le maschere / Nuda mi getto nell’acqua”). L’immagine della corrente fluviale, impetuosa e travolgente, mi sembra efficace per evocare l’atmosfera attuale di un Paese immenso e ricco di risorse, ma in fondo alla classifica dello sviluppo umano, così come della sua capitale in esplosione demografica e culturale, ma terribilmente lacerata da disuguaglianze atroci e ingiuste.

In questo tumulto di creatività e decadenza, dunque, la Cité du Fleuve va inquadrata come un interessante progetto ingegneristico o come una bieca speculazione edilizia? Come il sogno di ricchi e potenti che non vogliono contatti con la miseria o l’incubo di chi non ha neanche l’acqua potabile sebbene viva in riva a uno dei fiumi più maestosi del mondo? È più una illusione urbanistica o una truffa finanziaria? E, infine, la gated community che vi si sarebbe installata avrebbe confermato lo stereotipo globale della comunità blindata e autoreferenziale o sarebbe riuscita a elaborare un modello inedito, à la congolaise, che avrebbe potuto riscattare quella locuzione?

Forse queste sono domande retoriche di cui conosco la risposta, oppure sono interrogativi di cui non vedremo mai gli effetti, se non quelli di un probabile abbandono, in conseguenza del quale, prima o poi, il grande fiume si riprenderà i suoi spazi.

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Recensione del disco “From Kinshasa” del gruppo Mbongwana Star, apparsa il 19 maggio 2015 su “Metacritic”: https://www.metacritic.com/music/from-kinshasa/mbongwana-star (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
[2] La presentazione di Kinshasa, città della musica dell’Unesco, è a questo indirizzo web: https://citiesofmusic.net/city/kinshasa/ (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
[3] La frase è tratta dal sito-web ufficiale del progetto della “Cité du Fleuve”: http://lacitedufleuve.com/ (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
[4] Redazionale, 2020: Robert Choudury: «chaque propriétaire à la Cité du Fleuve est responsable de son assurance incendie», in «Zoom-Eco», 7 ottobre: https://zoom-eco.net/a-la-une/robert-choudury-chaque-proprietaire-a-la-cite-du-fleuve-est-responsable-de-son-assurance-incendie/ (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
[5] L’articolo di «Le Monde» è consultabile qui: https://www.lemonde.fr/afrique/article/2021/04/19/rdc-la-cite-du-fleuve-reve-immobilier-d-une-elite-qui-prend-l-eau-a-kinshasa_6077283_3212.html (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
[6] Il servizio-video di «Euronews» sulla Cité du Fleuve è disponibile su YouTube: https://youtu.be/U-MgYDoAu7c?si=sXLdyRVmFCTSA9jZ (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
[7] L’articolo di «BFMTV» sulla Cité du Fleuve è qui: https://www.bfmtv.com/immobilier/international-etranger/l-echec-de-la-cite-du-fleuve-un-gigantesque-projet-immobilier-a-kinshasa_AN-202104240313.html (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
[8] All’inchiesta “Congo Hold Up” è stato dedicato un intero sito-web: https://congoholdup.com/en/ (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
[9] Sonia Rolley, 2021: Congo Hold-up: la Cité du fleuve, l’autre histoire de la «cité merveilleuse» au cœur de Kinshasa, in «Radio France International», 6 dicembre: https://www.rfi.fr/fr/afrique/20211205-congo-hold-up-la-cité-du-fleuve-l-autre-histoire-de-la-cité-merveilleuse-au-cœur-de-kinshasa (ultimo accesso: 19 ottobre 2023). 
Riferimenti bibliografici
Benjamin Rich, 2012: The Gated Community Mentality, «New York Times», 29 marzo: https://www.nytimes.com/2012/03/30/opinion/the-gated-community-mentality.html (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
Blakely Edward J., Snyder Mary Gail, 1998: Separate Places: Crime and Security in Gated Communities, in Marcus Felson, Richard B. Peiser (a cura di), Reducing crime through real estate development and management, Urban Land Institute, Washington: 53-70.
Harvey David, 2010: Géographie et capital. Vers un matérialisme historico-géographique, Syllepse, Parigi.
Herndon Marcia, McLeod Norma, 1982: Music as culture, Norwood Editions, Darby, Pennsylvania.
Landman Karina, 2020: Gated Communities in South Africa: An Emerging Paradox, in Ruth Massey, Ashley Gunter (a cura di), Urban Geography in South Africa, Springer: 55-74.
Low Setha M., 2001: The Edge and the Center: Gated Communities and the Discourse of Urban Fear, «American Anthropologist», vol. 103, 1, marzo: 45-58.
McKinsey Global Institute, 2011: Urban world: Mapping the economic power of cities (a cura di Richard Dobbs, Sven Smit, Jaana Remes, James Manyika, Charles Roxburgh, Alejandra Restrepo), marzo. Disponibile online in PDF: https://www.mckinsey.com/~/media/mckinsey/featured%20insights/urbanization/urban%20world/mgi_urban_world_mapping_economic_power_of_cities_full_report.ashx (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).
Patriota de Moura Cristina, 2010: Condomínios e Gated Communities: por uma antropologia das novas composições urbanas, «Anuário Antropológico», vol. 35, n.2: 209-233.
Wolff Eléonore, Delbart Virginie, 2002: Extension urbaine et densité de la population à Kinshasa : contribution de la télédétection satellitaire, «Belgeo», 1: 45-99. Versione digitale disponibile all’indirizzo web: http://journals.openedition.org/belgeo/15451 (ultimo accesso: 19 ottobre 2023).

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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.

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