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La balena blu. Lezioni su come disfarsi della vita

copertinadi Nino Giaramidaro

Dicerie, leggende urbane croniche, e agghiaccianti parlottii con la stanchezza delle chat estremamente notturne. Voci trasecolate che dicono della Balena Blu –  sul computer, Blue Whale – e sembra di ascoltare oracoli di un qualche al di là irrazionale e spietato come tutte le cose che vengono dai cosmi senza nucleo, da cuori impazziti e secchi, che sanno battere solo i rintocchi del male.

Il vento di giugno scompiglia gli oleandri rosso mogio, rende tristi le palme e sospinge fra i tavolini di ghisa del Caffè del Teatro quegli avvisi tutti da origliare.

Balena Blu, un’eco che rimbalza e si dibatte sulle tastiere dei giovani con cinismo definitivo, un gioco di morte senza uscita. Mi sono ricordato senza volerlo del “leco”, la divinazione stradale cercata da mia madre come lenimento ai suoi affanni. Via  Settevanelle, a ridosso del pagano Largo delle Sirene e protetta dalle vie Santa Caterina  e Sant’Antoninello. Vi andava apposta perché lì erano più veritiere le risposte. E misteriose. Giungevano suoni e voci nel vuoto della strada, senza nessuna bocca che scoccasse le sillabe profetiche. Anni e anni dopo, l’occulto rivelò che erano intercettazioni di dialoghi aerei, da balcone a balcone, discorsi casalinghi, con gli accenti gravati sui sì e no che diventavano magici appena proferiti.

I numeri dell’American Academy of Child and Adolescent Psychiatry sostengono che tra gli adolescenti d’Europa il suicidio è la seconda causa di morte, e fra i giovani della fascia 25-34 anni è la prima. Numeri che diventano drammatici aggiungendo i “suicidi preterintenzionali”, catalogati frettolosamente come incidenti stradali oppure domestici. James Dean, 24 anni, si schianta con la sua Porsche 550. Come si può chiamare incidente una corsa con il contagiri oltre la ragione negli anni in cui la gioventù bruciava? E gli incidenti domestici di tanti giovani – di talento e non – morti fra le mura amiche, a volte trovati con  un sorriso senza traduzione?

Sì, la Gioventù Bruciata, saggi, filosofi intrigati, studiosi del comportamento giovanile analizzavano i maglioncini neri alla lupo di mare, il fumo delle “cave” sospinto verso i tetti dalle maliose note di Juliette Greco, il coraggio di qualche ragazza che fumava per strada. Libri di Sartre e Kerouac intonsi sotto l’ascella, l’atto gratuito di Gide e Camus, incomprensibile e sanguinoso; esso sì che poteva turbare le notti e i giorni, soprattutto di pieno sole accecante.

La morte veniva dalla guerra di Corea – insieme all’intercalare “ma chi si’ coreanu” – dall’Indocina, poi dall’Algeria. Guerre e guerre, piccole e grandi, in tutta l’Africa e nelle terre estreme e sconosciute, con nomi che cambiavano per farle diventare ancora più ignote: Guerra dell’attrito, Guerra della sabbia, l’infinita guerra del Congo. Combattute con le stesse armi fornite da fabbricanti che mobilitavano governi ed eserciti di spioni, provocatori, istruttori, consiglieri tutti dediti alla causa di impedire qualsiasi pace. Mai contati i morti.

Milioni di giovani e giovanissimi morivano lì, e quelle ingenti croci allentavano – seppure inconsapevolmente – il malvivere degli adolescenti occidentali, dei nostri che cercavano di imboccare le vie del self made man, così come prometteva l’America.

1Un suicidio diventava un evento sconvolgente. Una manifestazione della natura che schizzava da una irregolare fenditura del pianeta, nel quale tutti cantavano Yellow Submarine, canzone da quattro soldi però firmata dai Beatles ma che soprattutto ripeteva, iterava il verbo vivere.

Notizie di suicidi precoci ci giungevano dal Nord, dai Paesi fra ghiacci e nebbie, dove le giornate si misuravano in bevute, sbronze indifferenti al ceto, le Saab sui ghiacciai, con la morte in attesa e tutta bianca che somigliava alla White Whale del capitano Achab, nelle settimane scorse avvistata al largo di Porth Stephen, in Australia, forse ancora sulle tracce del suo indissolubile nemico.

Chi c’è dietro il misterioso blogger, moderno untore del male che dalla Russia, senza amore, dà istruzioni a giovani e giovanissimi su come morire dopo essersi danneggiati, seviziati, insanguinati in cinquanta modi diversi?

Forse la vita da tastiera indebolisce la mente, oppure molti giovani possono essere catturati nel deperimento della gioia di vivere facilitato da una quotidianità al chiuso, assediati dalle paure, senza più la suggestione dell’avventura sulla strada oramai insidiosa e nemica?

Non c’era nemmeno la radio a trattenere in molte case i ragazzi degli anni ‘50 e ‘60. Rinfusa di ricordi. Si resisteva persino alla fame pur di rimanere ancora un po’ nelle peripezie lungo il fiume, nella polvere e fra le pozzanghere delle strade prive di asfalto, col fiatone delle corse senza traguardo, e i segni porporini della baruffa improvvisa e breve dove ognuno misurava il proprio coraggio, soprattutto quello del ritorno a casa, a prendere il resto delle botte.

Credo che quella polvere e quelle “zotte” d’acqua sporca nutrissero forti anticorpi contro l’imbecillità che impedisce la separazione del grano dal loglio, la necessaria e urgente facoltà di sapere quello che è male e ciò che è bene.

Ce lo avevo un piccolo “delfino blu”, un noioso compagno di giochi che quando si giocava nessuno lo sceglieva come socio. Di nascosto si allenava a compiere beau geste –  cioè una difficile prova di abilità come un grande salto – poi ti acchiappava, saltava e sorridendoti chiedeva: “Lo sai fare?”. Si capiva che aveva il piede caprino, però non era possibile dire no, non solo per il personale senso del decoro ma, soprattutto, per il piacere di vederlo con la coda fra le gambe riuscendo nell’impresa al primo colpo.

Sì, andava così. E io mi immagino l’hacker della morte con il suo viso, i suoi piedi zoccolati e la sua coda di adescatore notturno, sorridente e senza amici, con la sfera dove il bene e il male si fronteggiano arida e deserta.

Un nichilismo masochista che si aggiunge a tutti gli altri, da due secoli affioranti dalle nevi russe, dalle galaverne del cervello. Una dimensione esistenziale di disperazione, la percezione dell’esistenza come inutile, per cui la vita non ha alcun valore o senso. Insomma, un mondo dove l’essere e il non essere non sono più un’opposizione, un dualismo ma una continuazione, un vaso comunicante, una non distinzione sulla quale adagiarsi volando dall’ottavo piano o aspettando sui binari la spinta di un treno.

2«L’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male», parole del male oscuro di Leopardi, e azioni del Lafcadio Wluiki di Gide e poi dell’abbacinato Meursault di Camus. Smarrimento del filo della vita che colpiva in pieno i critici letterari ma come una tangente molleggiata coloro che leggevano. Negli anni ’50 e ’60, aspettando che il boom arrivasse, magari con un treno della notte, i problemi più cogenti derivavano dalla verde trigonometria del biliardo, dall’asintoto obliquo che consentiva a Don Ciccio di azzeccare più di cento carambole di seguito mentre il popolo tormentato non arrivava a dieci.

Forse è vero quello che dicono scienziati canadesi, il cervello non è fatto per ricordare bensì per dimenticare, per cancellare tutto quello che non ha leggerezza, come un cappello vecchio, un paio di calzini bucati, un libro che non si legge; ma anche, io credo, tutto quello che non conviene lasciare nella memoria, cioè i molti peccati di pensiero, parola, azioni e omissioni, quel Confiteor quotidiano e implacabile che mette la coscienza davanti all’aut aut  del bene e del male.

Però sulle strade piene di trappolose buche e altre insidie, ragazzini tornano a correre in bici, ruzzolano dagli skateboard sul sagrato del Politeama, praticano lo judo tutti vestiti di bianco, perdono tempo in partite di calcio ambulanti, sottraendo tempo alla modernità infelice del Whatsapp, non chiedono amicizie sull’ingannevole etere e non ammazzano e si ammazzano alla Play Station.

Sulla Balena Blu, nel maggio dello scorso anno, La Novaya Gazeta russa annunciava di aver ricondotto almeno 130 suicidi giovanili a “gruppi della morte” sul social network. In parte a causa della barriera linguistica, in parte per colpa di dozzine di riviste online di gossip e fake news, la verità e la finzione si mescolano in fretta, portando molti a dubitare della veridicità dell’inchiesta. Ma la Balena Blu nuota anche in Italia. La Polizia postale di Catania e diverse Procure indagano su suicidi strani e su alcuni fortunosamente evitati. Tutto difficile, più dell’ago nel pagliaio. La balena, nonostante le dimensioni fisiche, si mimetizza sfugge, è introvabile e non identificabile. Resta nella leggenda e nel mistero.

3Ma le “agenzie”, cioè le gang di spioni colpevoli di immani tragedie, hanno poteri e tecnologie capaci di ascoltare le tue canzoni da barba. Possono scattarti un piano all’americana da chilometri di distanza, sanno quello che pensi, in che cosa credi, quali pregiudizi nutri: se sei a favore dell’aborto o no, come voti. E lo sanno con nome e cognome almeno di circa 200 milioni di americani, il 62 per cento. Avendo curiosità a sufficienza potremmo conoscere anche noi quegli schedati perché la Deep Root Analytics, ingaggiata dai repubblicani Usa, li ha messi on line per un accident. Nomi ed elenchi indicano che i dati dovevano essere usati da influenti organizzazioni politiche repubblicane per comporre un profilo per ogni elettore. Secondo la Bbc finora questa è la più grande violazione di dati elettorali in Usa.

Quante altre cose sanno di noi costoro? Più del Decimo Cielo? E hanno mai avuto commissionata una indagine sulle dimensioni del disagio che spinge adolescenti e giovani verso comportamenti autolesionistici? Cosa conoscono della Balena Blu?. Roba che non interessa nessuno, pure se anche i più retrivi reazionari sostengono di battersi per il futuro dei figli e di tutta l’altra discendenza.

Così, la professoressa Valeria Fantino, dirigente delle scuole medie “Nino Costa” e “Canonica” di Moncalieri, ha ideato insieme ai docenti e al responsabile per il bullismo, una White Whale: un gioco in 50 mosse per raggiungere la felicità. La ex preside ha mandato una circolare alle classi e ha organizzato il lavoro: «Prima della fine dell’anno scolastico gli studenti scriveranno una classifica dei piccoli passi quotidiani che ci abituano ad amare la vita». Che forse non finirà su Internet.

Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017

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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.
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