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Islam, veli, modernità. Note sulla liberazione di Silvia Romano

 

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Silvia Romano

di Giovanni Cordova

Silvia Romano è rientrata in Italia dopo 18 mesi di prigionia, l’ultima parte della quale trascorsa in mano ai gruppi di Al Shabaab, formazione somala legata alla galassia di Al-Qaeda. Com’è noto, la notizia della liberazione della cooperante è stata festeggiata da ampi segmenti della società civile italiana, che durante i mesi della prigionia avevano più volte incalzato le autorità e le istituzioni competenti – a partire dal governo – a proposito delle strategie di intelligence e cooperazione messe in piedi per liberare la giovane.

Per la verità, già durante la prima fase della ‘vicenda Romano’ erano emerse posture e atteggiamenti profondamente divergenti in seno all’opinione pubblica. Da una parte, la solidarietà; dall’altra, la sua criminalizzazione. Non si tratta di una novità: negli ultimi anni la sfera pubblica – specie la sua componente virtuale – è stata invasa da una narrazione che colpevolizza ogni comportamento, retorica e pratica collocabile nel solco dell’universo simbolico del rispetto dei diritti umani, della solidarietà, del cosmopolitismo multiculturale, dell’apertura alla differenza culturale. ‘Buonista’ è del resto una categoria politica sintetica oramai prepotentemente impiegata dai novelli speculatori delle ansie collettive del nostro tempo. Si pensi alla questione della migrazione. La popolarità dell’epiteto ‘buonista’ affibbiato a chi considera prioritario, ad esempio, il salvataggio delle vite in mare al netto dei costi economici e sociali delle migrazioni internazionali, origina dal campo ideologico delle destre suprematiste e razziste per estendersi tuttavia a settori politico-culturali di segno opposto che vi fanno ricorso per designare attori e politiche a cui viene rimproverata un’attenzione ‘sovrastrutturale’ a temi (come i diritti umani) storicamente considerati borghesi da una certa vulgata marxista, in quanto non perfettamente allineati alla grammatica politica della rivoluzione del proletariato.

Almeno negli ultimi due decenni, un copione analogo si era riattivato di fronte ai rapimenti di cooperanti internazionali, specie se giovani, ancora di più se donne (ricordiamo il trattamento ricevuto da Simona Pari e Simona Torretta, volontarie di ‘Un ponte per…’, in Iraq), mediante la consueta retriva retorica provinciale ed etnocentrica del “se ne stessero a casa loro”. Benché apparentemente antinomica rispetto all’altro refrain evocato in tema di migrazioni (“Aiutiamoli a casa loro!”), credo sia possibile ritrovare in azione il medesimo dispositivo simbolico etnocentrico che assume la locale dimensione spaziale, politica e sociale in cui gli attori sociali sono immersi come ‘centro’ del mondo che vanifica e banalizza ogni anelito di azione e pensiero che tenda a collocarsi altrove. Si tratta chiaramente di un’illusione, dal momento che la contrapposizione tra ‘locale’ e ‘globale’ rappresenta a ben vedere un’astrazione non più legittima nemmeno a livello analitico. Le reti e le pratiche sociali di stanziali e migranti sono costitutivamente transnazionali, così come le categorie dell’immaginario e dell’identità che fondano la quotidianità di individui, gruppi e società.

fileMa torniamo a Silvia Romano. Il registro dei commenti che accompagnano la notizia del rapimento della ragazza è esemplificato dal giornalista e scrittore Massimo Gramellini che, in una rubrica da lui curata per il Corriere della Sera, definisce Silvia come un’ingenua Cappuccetto Rosso, rea di aver dato corpo alle sua “smanie di altruismo” in uno sperduto villaggio africano quando avrebbe potuto farlo comodamente presso una mensa della Caritas. Chissà cosa avrebbero risposto a Gramellini studiosi della globalizzazione come Arjun Appadurai (2001) e Ulf Hannerz (2004), che hanno rispettivamente scritto di come l’esperienza contemporanea preveda da una parte la capacità di concepire e collocarsi all’interno del più vasto repertorio di vite possibili e dall’altra la continua opera di de- e ri-contestualizzazione di conoscenze e competenze.

Tuttavia, intendo adesso concentrarmi, seppur brevemente, sul trattamento che la notizia della conversione all’Islam di Silvia Romano ha ricevuto.

Tradimento

Il velo – che alcune esponenti del femminismo italiano hanno definito ‘spazzatura’; la presunta gravidanza, frutto della relazione tra Silvia e uno dei suoi carcerieri; i post che la cooperante scrive, non appena rientrata in Italia, citando in alcuni casi il Corano o formule augurali della religione musulmana. I media nostrani, pur con alcune differenze di grado, riservano un’attenzione morbosa ai ‘primi’ passi di Silvia, alimentando un flusso di notizie e commenti che tradiscono un immaginario evidentemente ben radicato nel nostro Paese.

La conversione di Silvia rappresenta uno scandalo, in quanto contiene un gradiente corrosivo e disgregante rispetto agli isomorfismi tra Stato, cultura e nazione. Il passaggio da una confessione religiosa a un’altra viene letto da molti tra giornalisti e politici come un segno di irriconoscenza di fronte agli sforzi che l’Italia ha compiuto per riportare la cooperante a casa. L’adesione all’Islam appare, secondo questa lettura provinciale e al tempo stesso posticcia, tale e quale a un tradimento, dal momento che segna l’irruzione di un potente discrimine simbolico nel corpo di un’omogenea comunità immaginata, pronta a reintegrare una giovane figlia sradicata con la forza in un contesto profondamente altro. Inutile rimarcare, in questa sede, come l’islam a cui Silvia Romano si è convertita, poco o nulla c’entri con al Shabaab. Come è ormai consolidato, tanto nel panorama degli studi quanto nelle rappresentazioni delle stesse istituzioni e comunità musulmane nel mondo, l’Islam non è un’essenza ma un testo (Abu Zayd, 2002), e come tale, il suo significato è volatile (Bowen, 2012), ancorandosi a precise condizioni storiche e rapporti di forza contestuali – caricandosi di volta in volta di posture subalterno-resistenziali o egemonico-consensuali (Watts, 1999). In poche parole, l’Islam è un significante globale declinato dai musulmani di tutto il mondo secondo significati peculiari e rispondenti alla specificità dei mondi ‘locali’ in cui la dimensione religiosa acquista senso.

La pervicace lettura essenzialista e, pertanto, superficiale, che assegna alla società italiana un’omogeneità sociale e culturale forse mai del tutto esistita, certo sottoposta negli ultimi decenni a ibridazioni e trasformazioni creative nel segno della diversità culturale, risulta sorprendente perché sembra attestare le secche di un multiculturalismo italiano che risulterebbe utile considerare non solo come ideologia o categoria filosofico-politica ma come spazio empirico da scomporre analiticamente ed etnografare nella sua articolazione (quotidiana) di pratiche, rappresentazioni, attori sociali, politiche (Tarabusi, 2014).

liberazione-silvia-romano-il-giornale-e-libero-quotidianoLe reazioni alla conversione di Silvia Romano sono tuttavia indice di altro, e segnatamente di una doppia amnesia. La prima è inerente alla pregnanza storico-sociale delle conversioni in area mediterranea – anche se sarebbe più corretto estendere la prospettiva oltre una specifica dimensione areale, data la rilevanza del fenomeno a diverse latitudini storico-religiose. Nel passato come nel presente (Cardini, 2007; Allievi 1998), le conversioni all’Islam testimoniano della fluidità delle tassonomie e delle identità, sovente naturalizzate nel discorso politico e nelle rappresentazioni di senso comune. Inoltre, esse costituiscono la dimostrazione di solide interazioni inter-etniche frequenti e vivaci tra gruppi e comunità per vari motivi ritrovatisi in contatto – interazioni talvolta caratterizzate da rispetto e riconoscimento benevolo della differenza (si pensi all’istituzione musulmana della dhimma, che accordava protezione al fedele di un’altra religione abramitica [1], talaltra di aperta ostilità. La rimozione dell’Islam in Italia passa per il tardivo avvio di un’interlocuzione con il variegato campo religioso musulmano che nel nostro Paese consta di una pluralità di attori e ramificazioni, lacuna che solo recentemente le istituzioni stanno provando a colmare. Questa rimozione acquisisce caratteri ancora più evidenti in rapporto alla crescente centralità che l’Islam italiano ha acquisito nel complessivo panorama religioso.

Eppure la diversità culturale che anche in Italia prende corpo in pratiche rituali collettive e forme devozionali vede attive comunità di varia estrazione geografico-culturale (per la Sicilia, cfr. D’Agostino 2019). L’amnesia sull’Islam può forse essere in parte addebitata al carattere ‘eccezionale’ che questa religione dall’accentuata vocazione bio-politica assume in rapporto all’ideologia secolarista dello Stato liberale (Asad, 2003), così come al suo deciso investimento simbolico e materiale nella sfera pubblica, da cui deriva un impatto immaginario e mediatico che ne suggerisce una certa conflittualità (Pace, 2004; Bonfanti, 2014). Tutto ciò conduce a un’inevitabile razzializzazione dei musulmani – ovvero la naturalizzazione o biologizzazione di identità o caratteristiche culturali.

Ritorniamo allo scandalo che il rientro di Silvia Romano ha rappresentato. Scrive Naclerio (2018: 181) che «la conversione è un processo profondamente performato e performativo. Essa si nutre di pratiche di auto-trasformazione del credente, messe in atto per mezzo di una continua azione disciplinante sul corpo». Il velo, in questo caso il jilbab, non particolarmente diverso dall’abaya in voga nel Golfo Persico, determina il cortocircuito della teorica separazione tra pubblico e privato che fonda la filosofia politica occidentale: con la scelta di velarsi, il «cambiamento interiore del soggetto diviene manifesto nello spazio sociale. [...] Ancora una volta, sono i corpi delle donne a diventare campi di battaglia per simboli culturali e religiosi» (ivi: 182-183). La visibilità sociale e politica del velo non interessa in questa sede per una disamina di questo istituto nell’Islam (a tal proposito, cfr. Kerrou 2010), ma per affrontare un altro nodo venuto al pettine con la vicenda di Silvia.

Olivier Roy (2017) ha sostenuto che la standardizzazione delle religioni contemporanee – la loro formattazione più o meno omogenea – passa attraverso l’accentuazione della religiosità, ovvero della relazione individuale tra credente e sacro, rapporto espresso sovente nei termini di una ricerca spirituale personale. Nel religioso contemporaneo, a prevalere è la religiosità, ovvero la fede vissuta, che rappresenta «il modo in cui il credente esperisce il proprio rapporto con la religione, il vissuto, l’interiorità, il senso religioso ma anche il modo in cui porsi, come credente, di fronte al mondo esterno» (ivi: 55). La prevalenza della religiosità comporta l’allentamento di aspetti teologico-dottrinali e il risalto della dimensione pratico-devozionale (nell’Islam, ‘ibâdât, sing. ibâdah) (Id., 2004).

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Torino, la cena del Ramadan, 27 giugno 2019

Si tratta, a ben vedere, di una tendenza i cui prodromi possono essere individuati in quella “faglia epistemica settecentesca” in cui, almeno in Europa, il processo di secolarizzazione cui è andato incontro lo spazio pubblico ha modificato la configurazione del rapporto tra istituzioni religiose e rituali, costruendo le condizioni per l’incorporazione e l’interiorizzazione individuali della religiosità (Palumbo, 2020).

In altri termini, gli attori religiosi oggi tenderebbero a ‘privatizzare’ la fede, sempre più in una dimensione personale. Tale curvatura consentirebbe peraltro la prevenzione dell’insorgenza di contraddizioni tra retoriche, princìpi e pratiche. Già Clifford Geertz (2008), nel suo centrale lavoro comparativo consacrato allo sviluppo religioso in Marocco e in Indonesia, aveva del resto rilevato come l’indebolimento della portata del religioso nei contesti sociali – ovvero la sua sempre più flebile e difficoltosa penetrazione nei diversi ambiti della vita associata – si accompagnava a una sua maggiore forza, coincidente con l’interiorizzazione del discorso religioso nella vita degli individui. L’interiorizzazione o privatizzazione del religioso può rappresentare una via d’uscita alla tensione tra le necessità concrete della vita quotidiana e il tentativo che gli individui compiono per adattare queste alle esigenze simboliche della religione, specie in Paesi come la Tunisia o l’Egitto – argomentava Geertz – in cui questo divorzio appare più pronunciato. Tali risposte possono produrre risposte e interpretazioni di tipo rigorista, caratterizzate da una percezione della religione che conduce ad un’osservanza quasi patologica del credo e dei riti che lo compongono (Kerrou 2008).

L’individualizzazione della responsabilità morale – caratteristica dell’Islam moderno e contemporaneo (al-Banna, 1978) – può trovare risonanza in forme ed espressione che sollecitano una revisione delle categorie della tradizione filosofica occidentale e, limitatamente a ciò di cui si parla in queste pagine, di una concezione liberale della religione.

Modernità plurime

“Le è stato fatto il lavaggio del cervello”; “non è stata una vera conversione”, sono solo alcune delle frasi che hanno salutato il rientro di Silvia Romano. Tali commenti presentano alcuni assunti impliciti. Tralasciamo l’implicita valutazione differenziale delle confessioni religiose e dei percorsi di socializzazione religiosa (come se l’adesione al cattolicesimo non si determinasse in seno a gruppi e contesti sociali più ampi) che costituiscono il sottotesto a questi commenti.

Il primo assunto riguarda il carattere individuale e privato della religiosità, tale per cui il religioso è vero e autentico solo se sorretto da un’adesione volontaria. Il secondo è inerente ai confini tra Sé e collettività, tra persona e gruppo sociale, tra libertà dell’agency e sintassi sociale prescrittiva. L’ideologia liberale asserisce e celebra un ‘io’ autonomo, atomistico, irrelato, contro le costrizioni delle relazioni sociali che legano donne e uomini alle comunità umane di appartenenza. La libera azione è, in questa cornice di senso, concepita in senso negativo: è una libertà “da” e per forza di cose resistente a condizioni storico-culturali date.

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Video documentario sul rito dell’Ashura a Londra

Questa etica liberale – che affonda le sue radici nella tradizione aristotelica – è al centro delle riflessioni e del lavoro etnografico dell’antropologa Saba Mahmoud (2005). Secondo la studiosa, la capacità agentiva non risiede solo negli atti che resistono e sovvertono le norme sociali, ma anche nelle molteplici vie in cui queste sono abitate. Se accettiamo l’idea che il desiderio – o per meglio dire, la disposizione che presiede all’azione – maturi all’interno di discorsività organizzate e culturalmente mediate, persino la sottomissione all’autorità può rappresentare una forma di azione etica [2].  L’agency non si incardina necessariamente in un orizzonte di politiche e pratiche progressiste, come del resto è testimoniato dalle difformi e alterne ricezioni che varie tradizioni culturali e politiche hanno riservato al discorso femminista.

Qui, ritengo, che risieda lo scandalo della conversione di Silvia Romano. Una giovane cooperante testimone della civiltà occidentale, partita per ‘salvare’ un contesto profondamente ‘altro’ afflitto da mali atavici – missione per certi versi speculare al coloniale “fardello dell’uomo bianco” – viene rapita e ceduta a un gruppo jihadista. L’Italia mobilita mezzi e risorse per salvarla ed ecco che, quando finalmente viene liberata, si apprende che è intercorso un cambiamento profondo nel cuore stesso delle più ovvie basi culturali e politiche della costruzione della soggettività. Mentre erano in corso le operazioni per la sua liberazione, Silvia sceglieva di aderire a una discorsività percepita in Occidente come quanto di più lontano dalla libertà personale; poneva sul suo corpo un lungo velo; decideva di adeguare desideri e comportamenti a forme e orizzonti di socialità prescritte e prescrittive.

Islamofobia a parte, la vicenda Romano è peculiare perché per una serie di fattori concomitanti è in grado di denaturalizzare potentemente le concezioni incorporate della cittadinanza e della soggettività che plasmano il nostro essere nel mondo. Come suggerisce Talal Asad (2003), l’allarme che suscita la presenza del religioso nello spazio pubblico non risiede forse nel fatto che esso condivide gli assunti e i propositi governamentali del progetto statuale-nazionale in merito alla regolamentazione di ogni aspetto della vita individuale, compresi quelli più intimi?

Indossare il velo durante una prigionia non è (solo) un meccanismo di difesa – come hanno sostenuto psicologi e psichiatri invitati nei salotti televisivi per spiegare il comportamento di Silvia in termini di sindrome. È il segno di un confine che si fa poroso nel tracciare contraddittoriamente il discrimine tra l’interiorità della persona – dominio di insindacabile privatezza – e la sfera pubblica in cui l’eguaglianza e la cittadinanza dei diritti e dei doveri introducono un’astratta in-differenza (Asad 2004). Quella scelta incompresa e dileggiata introduce un’operabilità altra nella storia, sorretta da volontà e azioni che producono esiti alternativi delle modalità di costruire se stessi e la modernità [3].

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Il riconoscimento della diversità e la concreta possibilità storica delle conversioni religiose non vanno comunque considerati, almeno in area mediterranea, equivalenti a una sospensione delle appartenenze o all’affermazione di un’apologia dell’indistinzione identitaria. Compresenza non significa ibridazione (Bromberger, 2006)
[2] Saba Mahmoud intrattiene un approfondito confronto con Judith Butler che non posso riprendere in queste pagine.
[3] Una riflessione di taglio critico-etnografico sulla genealogica storico-intellettuale della valutazione delle pratiche devozionali del cattolicesimo popolare è contenuta in Palumbo, 2020.
Riferimenti bibliografici
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Giovanni Cordova, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Per la sua ricerca di dottorato sta esaminando la dimensione politica ‘implicita’ nella vita quotidiana dei giovani tunisini delle classi sociali popolari nonché la commistione tra i linguaggi della religione e della politica. Prende parte alla didattica dei moduli di antropologia nei corsi di formazione rivolti a operatori sociali e personale della pubblica amministrazione in Calabria e Sicilia.

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