di Davide Sirchia
19 marzo
#iorestoacasa è lo slogan utilizzato dal governo italiano per convincere la popolazione ad autoisolarsi e poter far fronte all’epidemia virale del Covid19. Interessante punto di partenza per sperimentare una riflessione antropologica su come una società storicamente strutturata si trovi nell’imprescindibile costrizione di dover cambiare lo stile e il regime delle proprie abitudini adeguando di conseguenza i propri usi e i propri costumi.
Il cambiamento è la condizione “naturale” delle società umane le quali non fanno altro che mutare, volontariamente o no, coscientemente o no, in tempi e in modi diversi. Si tratta di modificazioni più o meno consistenti, più o meno rapide, di consuetudini, pratiche, oggetti d’uso, idee, norme e valori. I cambiamenti possono prendere le mosse da un solo settore della cultura, come ad esempio la tecnologia, l’economia, il piano delle credenze e dei rituali. Quando tuttavia avviene una trasformazione in una pratica culturale possono modificarsi a catena anche altri aspetti.
I cambiamenti possono essere strutturali quando riguardano il centro organizzativo di una società, oppure accessori quando interessano settori secondari, come le mode, le abitudini alimentari, i gusti musicali. Il ritmo dei cambiamenti non è identico in tutti gli ambiti socio-culturali: ad esempio, la tecnologia e l’economia possono cambiare più velocemente rispetto all’organizzazione sociale e alla vita del mondo religioso.
Le nuove “abitudini” sociali per essere accettate e quindi adottate dalla società devono necessariamente prevedere una fase di metabolizzazione e una fase di incorporazione [1]. I cambiamenti possono essere spontanei, cioè scaturiti, ad esempio, dalla normale dinamica delle relazioni di scambio tra due società a contatto tra loro, oppure frutto di scelte e preferenze non condizionate da costrizione; possono essere indotti con la forza, come ad esempio i mutamenti imposti dalle potenze coloniali, oppure possono essere pianificati come lo sono i progetti e programmi di sviluppo, nei quali si prevede che attraverso certi interventi si favoriscano certe trasformazioni.
I cambiamenti possono essere suscitati dall’esterno attraverso i contatti con altre società e culture, oppure dall’interno attraverso innovazioni, scoperte, riforme, promossi da persone interne al sistema sociale. In tutti i casi è riscontrabile, nel corpo sociale, una dinamica progressiva che passa attraverso diverse fasi: Esame dell’innovazione, Selezione fra le proposte ricevute, Accettazione o rifiuto, Integrazione e adattamento (nel caso dell’accettazione). In ogni caso, è assai raro, perfino nelle situazioni di cambiamento imposto, che la società ricevente accetti completamente le innovazioni e non elabori un qualche adattamento, una qualche re-interpretazione, un certo adeguamento della proposta esterna alle preesistenti condizioni locali.
Quel che al momento osserviamo in Italia per far fronte alla pandemia da Covid19, è una richiesta del governo centrale di dover cambiare le abitudini della popolazione, dal self-mobility alla “libertà” d’azione, una disposizione che non solo raccomanda ma impone delle regole e quindi sanzioni alle relazioni interpersonali quando non necessarie, considerato che i cambiamenti indotti in genere provocano resistenza da parte della popolazione e che, solo nel momento della loro accettazione, le nuove regole sociali imposte saranno oggetto di reinterpretazioni. Lo Stato italiano, ad oggi, ha scelto di non utilizzare attività coercitive violente, ma di esercitare il proprio potere solo attraverso il linguaggio istituzionale. Linguaggio, che facendo leva sulla responsabilità individuale come soggetti costituenti la società stessa, ha giustificato le nuove imposizioni normative. Questa scelta probabilmente ha come fine ultimo il comprimere la fase del riconoscimento, della metabolizzazione e quindi dell’incorporazione delle direttive da adottare; infatti la parola istituzionale assume anche in questo caso un valore d’uso altamente pragmatico [2].
È significativo il progressivo cambiamento dei toni utilizzati. Le prime notizie utilizzavano termini come “epidemia”, “futura pandemia”, o ancora “il Covid19 è un virus altamente contagioso che provoca la morte”, fino ad arrivare al “non ci sono cure”, “non abbiamo abbastanza posti letto”, “il sistema sanitario sta crollando”. Tutte queste affermazioni, più o meno veritiere hanno instillato progressivamente nelle masse sentimenti di paura; paura verso il “nuovo”, il non controllabile, l’oscuro. Questi sentimenti hanno naturalmente attivato meccanismi di autoprotezione, di rassicurazione difensiva, sfociando in qualche caso in una forma d’isteria sociale che ha messo in discussione le regole comportamentali e le quotidiane abitudini sociali. È l’affermazione dell’istinto di sopravvivenza che nella percezione di pericolo, vero o presunto, prende il sopravvento sul raziocinio; è la natura che prevale sulla cultura. Perché fare scorte di cibo in una società caratterizzata dal surplus alimentare? Perché correre all’acquisto delle mascherine e dispositivi di protezione, facendo crollare il sistema produttivo e quindi distributivo? Probabilmente una risposta può arrivare dallo storico Harari, autore di Sapiens. Da animali a dèi, il quale nella sua riflessione pone l’accento sulle esperienze condotte dai popoli cacciatori-raccoglitori prima della rivoluzione agricola. Infatti l’autore afferma:
«invece di annunciare una nuova era di agi, la rivoluzione agricola fece sì che gli agricoltori avessero un’esistenza generalmente più difficile e meno soddisfacente di quella dei cacciatori-raccoglitori. Questi ultimi passavano il loro tempo in modi più stimolanti e variati, e correvano meno rischi di patire la fame e le malattie» (Harari 2019:108).
Quel che l’autore asserisce è che l’uomo nel periodo storico che lo vede come raccoglitore-cacciatore durato circa 50 mila anni ha permesso una buona sedimentazione di esperienze e di conoscenze da trasmettere. Le società di uomini cacciatori-raccoglitori essendo legate a ciò che la natura offriva avevano paradossalmente meno necessità di conservare il cibo, considerato il carattere per lo più nomadico di queste comunità. La rivoluzione agricola avvenuta circa 12 mila anni fa ha modificato lo stile di vita dell’uomo nel giro di pochi millenni. Ha limitato l’alimentazione, perché solo alcune specie di piante potevano essere coltivate e solo alcune specie di animali potevano essere addomesticate e allevate. Quindi se è pur vero che agricoltura e allevamento hanno permesso un accesso ad una maggior quantità di cibo, allo stesso tempo ne limitavano la varietà, e non ultima considerazione esponevano l’uomo alle carestie. Analogamente il sedentarismo ha permesso la nascita di villaggi sempre più popolosi ma contemporaneamente ha esposto l’uomo a infezioni e malattie.
La minore durata della rivoluzione agricola, secondo Harari, ha impedito che esperienza e trasmissione a differenza del periodo precedente si consolidassero: da qui la necessità dell’uomo di far scorte di cibo soprattutto nei primi periodi della rivoluzione agricola. Se i popoli raccoglitori potevano nutrirsi di ciò che la natura offriva, con l’avvento dell’agricoltura ci si cibava solo di ciò che si produceva. Nelle prime fasi della rivoluzione neolitica l’uomo conoscerà le epidemie, originate dal numero sempre maggiore di individui che convivono all’interno di uno stesso spazio, soffrirà le carestie e quindi la fame.
Molti saperi erano andati persi, l’anatomia umana si era adattata ai nuovi regimi alimentari e quindi non si poteva, come afferma Harari, tornare più indietro. Anche perché ciò avrebbe comportato il dimezzamento della società. Il mancato superamento delle paure della carestia e dell’epidemia che ha caratterizzato la società agricola, probabilmente ha guidato questo istinto alla conservazione, all’accumulazione di provviste. L’incertezza che consegue alla consapevolezza che la sopravvivenza è strettamente legata alla limitata produzione, costringe l’uomo ad applicare concretamente quel detto latino in uso fino ai nostri giorni, mors tua vita mea. La tua morte è la mia vita, la penalizzazione di una persona è spesso a vantaggio per un’altra, con allusioni anche alle dure leggi della vita e alla lotta per l’esistenza. In questo caso specifico, nell’atto di conquistare singolarmente il maggior numero di beni a discapito dell’altro e quindi dell’intera collettività, si può leggere il senso di questo popolare modo di dire. Le immagini degli assalti ai supermercati diffusi dai media mostrano come l’istinto di sopravvivenza abbia preso il sopravvento sulla cultura e quindi quegli atteggiamenti naturali non regolati da norme consuetudinarie appaiono come atti di isteria, socialmente riprovevoli, riconducibili a forme di individualismo tipiche del nostro periodo storico.
Se le molecole sono l’insieme di due o più atomi uniti tra loro da un legame, anche le società, per certi versi, possono essere analizzate come delle molecole, come afferma il sociologo Milanaccio,
«il modello di società concepita come un meccanismo si caratterizza per l’idea fondamentale che la società è un insieme di atomi individuali dalle cui “libere” interazioni emerge la forma osservabile della società stessa. In questo modello stanno in primo piano, da un lato, gli interessi, le azioni e le motivazioni dei singoli individui e, dall’altro, sul piano tecnico-metodologico, l’orientamento alla quantificazione e misurazione di ogni aspetto dell’interazione sociale» (Milanaccio 1998:63).
Le relazioni interpersonali che caratterizzano la socialità condizionano gli interessi, le azioni e le motivazioni di una società e si rappresenteranno nelle interazioni. Ne consegue che se si deve modificare l’interazione sociale si deve necessariamente intervenire sulle azioni, gli interessi e le motivazioni degli individui. Per ottenere queste modifiche è stato utilizzato quindi il linguaggio pragmatico, un linguaggio finalizzato alla comunicazione alla folla, alla comunicazione comunitaria.
Purtroppo abbiamo assistito ad una diffusione capillare negli ultimi decenni di un atteggiamento che svaluta le necessità della collettività in nome della propria persona e del proprio egoismo. Probabilmente questa emergenza che coinvolge l’intera umanità potrebbe favorire un decisivo cambio di tendenza, un ritorno dall’attuale tendenza all’idiosincrasia alla propensione e alla tolleranza dell’altro, restaurando quei sentimenti collettivi che hanno guidato l’uomo lungo la sua storia e hanno consentito il superamento delle avversità più critiche e le più significative conquiste sociali, le evoluzioni tecnologiche e i progressi scientifici.
La richiesta delle autorità di cambiare le relazioni sociali mantenendo una giusta distanza gli uni dagli altri, abbandonando le abitudini più semplici come le strette di mano e i contatti fisici, allo scopo di circoscrivere il contagio, ha sicuramente determinato soprattutto in noi italiani, popolo mediterraneo caratterizzato da una espansività quasi proverbiale, uno stato di imbarazzo e di disagio. All’inizio dell’epidemia il messaggio istituzionale era stato recepito con molta diffidenza e le indicazioni dei sanitari e delle autorità non erano seguite pedissequamente. Si trascuravano le distanze minime di sicurezza, il saluto “italiano” si continuava a praticare con disinvoltura. Nel giro di pochi giorni tuttavia, con l’emergere di una situazione progressivamente più drammatica, affiorano atteggiamenti di accettazione e di metabolizzazione di abitudini imposte, si assiste quindi ad una radicale modifica delle relazioni tra individui.
Sui mezzi pubblici o semplicemente per strada, incrociando un altro individuo non si può fare a meno che guardarsi con sospetto, il pensiero comune è che l’altro possa essere un “untore”. Ci si allontana sempre più gli uni dagli altri, soprattutto se s’intravede nell’altro il minimo sintomo influenzale. Questa diffidenza è l’effetto del costrutto di pensiero che la collettività ha elaborato attorno al Covid19. Si può interpretare questa diffidenza come conseguenza di ciò che la società riconosce come effetto della patologia. Questa costruzione sociale, in linguaggio antropologico, verrà indicato con il termine sickness. Infatti il concetto di malattia non si limita soltanto alla componente bio-medica definita disease e al fattore soggettivo chiamato illness ma considera anche la funzione del riconoscimento sociale. La traduzione del Covid19 nei termini sopra esposti così si articola: il virus riconosciuto dalla biomedicina compone il disease, la specifica sintomatologia rinvia al malessere provocato dal singolo, l’illness, ma ciò che la società riconosce come effetto della malattia è la sickness.
Come afferma Bury:
«Mentre la malattia ha un carattere estremamente individuale, la sua esperienza prende inevitabilmente caratteristiche sociali, in quanto gli individui interagiscono nel corso del tempo con l’ambiente fisico e sociale» (Assanti 1981:53).
Questa metamorfosi della sickness ha di fatto provocato l’annullamento del riconoscimento di altre forme influenzali più comuni e conosciute, riducendo ogni minimo sintomo al virus sconosciuto. Questo modus cogitandi esita in alcuni soggetti nel sospetto dell’Altro, anche se legato da rapporti di parentela, e può sfociare perfino nell’antropofobia. L’essere umano, essendo un animale sociale che necessita comunque di relazioni interpersonali, non può a lungo escludersi in un prolungato isolamento, selezionando in maniera provvisoria i propri contatti. La scelta sarà necessariamente condizionata dalla sickness, che può condurre a ostracizzare in maniera ferrea tutti coloro che a suo parere possano mostrare qualche sintomo di affezione. Questi individui che devono essere isolati hanno perso il diritto di partecipare alla vita collettiva. Scompaiono nell’ombra della clandestinità, in ciò respinti dal linguaggio dei media e dalle insistite raccomandazioni istituzionali che hanno condizionato la sickness, tanto che il Covid19 da virus è diventato uno spettro, un baubau.
In questa crisi sociale, con la paura della fine delle provviste, con gli atteggiamenti sempre meno controllati, a seguito della repressione delle abitudini e delle norme consuetudinarie, si è reso necessario modificare il linguaggio pragmatico allo scopo di rassicurare ma anche di minacciare per frenare questi comportamenti poco ragionevoli,
Con la creazione di una prima zona di contenimento, limitata e inaccessibile, isolata dal resto della collettività, si è creduto di ingabbiare il virus: all’esterno della zona rossa il nemico invisibile non sembrava più minacciare la popolazione, che non sentendosi in un pericolo immediato è tornata a vivere la socialità, finché la percezione del rischio di una vera e propria pandemia davanti ai dati di contagi e decessi si è progressivamente estesa, coinvolgendo repentinamente tutta l’Italia.
La fuga di notizie anticipate sulla chiusura dei confini regionali ha ridato impulso all’istinto della sopravvivenza: molti sono fuggiti dalla zona di contenimento e questo esodo quasi certamente ha comportato la propagazione dell’infezione anche in quelle regioni non primariamente coinvolte dall’epidemia. In più parti d’Italia si è registrato lo sfaldamento delle regole sociali consolidate e l’affermarsi degli istinti dell’auto prevenzione. Al Sud come nel Nord si sono riattivati tutti quei meccanismi che si erano verificati poche settimane prima. E dalle immagini che i media trasmettono anche dai Paesi europei, un po’ ovunque lo spettro virale sta agendo sulla collettività allo stesso modo.
Mentre scrivo questa breve interpretazione dei fatti sociali che accadono, l’attenzione ricade sul silenzio che si rompe. Nelle strade vuote e mute irrompe una voce stentorea che invita i cittadini a non uscire di casa se non strettamente necessario. Questa voce, alter ego del linguaggio istituzionale nella sua espressione è semplicemente un uomo, che vive le stesse limitazioni e le stesse paure della popolazione che si appresta ad avvisare. L’accento della sua voce ha un’eco più incisiva nel suono del silenzio. Questi messaggi che giungono attraverso le mura domestiche probabilmente possono incrementare quei sentimenti negativi che già abitano nelle menti, come l’angoscia e la paura. L’eco della voce pian piano scompare lasciando il posto ai flash-mob [3] allegri e fragorosi, quasi un antidoto, una risposta di resistenza, di riscatto. La paura del singolo si esorcizza nel contatto collettivo. Non c’è dubbio che il cantare insieme, da un balcone ad un altro, l’atto di sventolare la bandiera o semplicemente l’applauso al personale sanitario sono il rimedio all’isolamento che si è costretti a vivere.
Il silenzio è dunque interrotto dalla festosità umana che vuole rifondare la socialità mortificata, alimentando quel bisogno dell’Altro, quella prossimità negata e censurata dalle necessità d’ordine sanitario. Così gli effetti della paura del coronavirus che hanno modificato abitudini e relazioni sociali cambiano di segno e sono in continuo mutamento. Se inizialmente hanno creato la separazione e la segregazione degli individui, a distanza di pochi giorni hanno invertito la tendenza, mostrando reazioni che attestano il sentimento di appartenenza e di partecipazione ad una riconoscibile collettività.
Quel che mi è stato permesso di osservare fa riflettere sulle potenzialità della specie umana, su come sia in grado di mantenere vive le caratteristiche della nostra socialità in tempi avversi come questi. Oltre alle videolezioni scolastiche, la socialità si muove anche negli appuntamenti in skype per gli aperitivi, nei messaggi di solidarietà condivisi e appesi alle finestre, nei raduni ai balconi sincronizzati attraverso gli appelli sui social. Sembra si voglia uscire non solo dall’isolamento ma anche dall’individualismo, si vogliano affermare le ragioni del gruppo, le istanze ritrovate della collettività. Come a dire che solo unendo le forze si può uscire dall’epidemia, e paradossalmente l’unione delle varie forze deve esprimersi non solo nella volontà di isolarsi, nell’autoesclusione ma anche nella rifondazione del senso della collettività attraverso nuove e condivise regole.
Fondamentale supporto di questa collettività, figlia della crisi, è la tecnologia. I contatti, ovviamente non quelli fisici, possono alimentarsi attraverso internet. Non possiamo avvicinarci fisicamente l’uno all’altro ma le distanze si possono accorciare grazie alla rete digitale che ci fa partecipare gli uni alla vita degli altri.
Concludendo, l’istinto di sopravvivenza che progressivamente va diffondendosi nella nostra società con toni particolarmente severi e che ci induce a comportamenti non sempre socialmente accettabili è lo stesso istinto di sopravvivenza che spinge individui appartenenti a società diversa dalla nostra a fuggire da situazioni di estremo pericolo cercando riparo in altri luoghi. I due scenari sono determinati da cause profondamente diverse, ma l’impulso determinato è il medesimo: l’autoprotezione. La speranza è che superata questa emergenza il nostro sguardo verso l’Altro possa cambiare e che tutti i muri che in questi anni abbiamo innalzato possano crollare con grande e definitivo fragore.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, maggio 2020
Note
[1] «Se assumiamo che l’incorporazione sia una condizione esistenziale in cui il corpo è la fonte soggettiva e il terreno intersoggettivo dell’esperienza, dobbiamo allora riconoscere che gli studi inclusi sotto la rubrica “incorporazione” non riguardano il corpo in sé. Essi riguardano invece la cultura e l’esperienza, nella misura in cui queste possono essere comprese dal punto di vista dell’essere-nel-mondo corporeo» (Thomas J. Csordas Incorporazione e fenomenologia culturale, in Annuario di Antropologia del corpo, trad di Claudia Mattalucci-Yilmaz, vol 3, 2003).
[2] La pragmatica è lo studio di come il linguaggio (verbale e non verbale) viene usato per interagire con gli altri nelle situazioni sociali. La comunicazione non si fonda unicamente sulle parole.
[3] Il raduno di persone in luogo pubblico per inscenare un’azione e poi disperdersi rapidamente.
Riferimenti bibliografici
Assanti, Cecilia, 1981, Istituzioni e politiche del lavoro nella Comunità europea, vol. 2, FrancoAngeli, Milano.
Denis Henri, 1968, Storia del pensiero economico, Mondadori, Milano.
Fabietti Ugo, Roberto Malighetti, Vincenzo Matera, 2012, Dal tribale al globale. Introduzione all’antropologia, Bruno Mondadori, Milano.
Foucault Michel Alcesti Tarchetti, 1976, Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Einaudi, Torino.
Harari Yuval Noah, 2019, Sapiens: una breve storia dell’umanità, Bompiani, Milano.
Miceli Silvana, 1984, Il demiurgo trasgressivo: studio sul trickster, Sellerio, Palermo.
Milanaccio Alfredo, 1998, Dallo sviluppo alla società sostenibile. Appunti per una teoria, in “Quaderni di sociologia”, 16.
Sitografia
http://journals.openedition.org/qds/1522; DOI: https://doi.org/10.4000/qds.1522
https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/ISSMI/Documents/5_5AntropologiaCulturale_CambiamentoSociale.pdf
https://www.psicologia.unicampania.it/images/FIT_24_CFU/materiali/PsicologiaGenerale/Gruppo2/LINGUAGGIO-E-COMUNICAZIONE.pdf[3]
______________________________________________________________
Davide Sirchia, laureato in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e specializzato in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università Milano-Bicocca. Dal 2015 è titolare di cattedra di Antropologia e Etnografia presso l’Uni3 di Milano e collabora con diverse realtà di supporto didattico agli studenti. Ha pubblicato i saggi antropologici, La Zucca, la Morte e il Cavaliere. Un Halloween del 1200 in terra di Puglia e recentemente il libro Janare Irpine, Donne che curarono una comunità, KDP Milano, 2018.
_______________________________________________________________