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In morte della retorica sulla “transizione democratica” in Tunisia: genesi di un golpe annunciato

Tunisi, soldati al Parlamento

Tunisi, agosto 2021, soldati davanti al Parlamento

di Emanuele Venezia

Antefatto

Il colpo di Stato militare sotto la direzione politica del Presidente della Repubblica Kais Saied che ha messo fine al regime reazionario Ennahdha-Karama-Qalb Tounes non è un fulmine a ciel sereno ma è la conseguenza degli eventi politici degli ultimi dodici mesi, ovvero da quando è entrato in carica il governo Mechichi il 25 luglio 2020, e più in generale una reazione inedita al movimento di restaurazione politica di cui Ennahdha è il principale soggetto agente.

Già all’inizio dell’anno in occasione del decennale della caduta del regime di Ben Ali (14 gennaio 2011), una rivolta giovanile e manifestazioni di protesta nella capitale avevano messo a dura prova il governo che era ricorso ad arresti di massa (oltre duemila giovani di età compresa tra i 15 e i 30 anni finiti in prigione), divieti di manifestare e metodi da Stato di polizia che tanto ricordavano l’ancient regime. In quell’occasione il Presidente della Repubblica Kais Saied aveva tuonato contro gli arresti arbitrari e aveva ricorso allo strumento della grazia presidenziale in occasione di alcune feste civili e religiose per scarcerare una parte dei giovani arrestati, si era anche recato nei principali quartieri ribelli come a Ettadhamen, ricevendo una buona accoglienza.

Inoltre nello stesso periodo alcuni ministri proposti da Mechichi, per un rimpasto di governo, non hanno potuto prestare giuramento in quanto il Presidente della Repubblica si è sempre rifiutato di fissare una data per il giuramento accusando tali candidati di avere casi pendenti con la giustizia relativi a fatti di corruzione.

Nel mese di giugno in seguito ad un episodio di brutalità poliziesca, che ben si inscrive nel clima di Stato di polizia che si respira ormai da anni (dopo una breve pausa negli anni immediatamente successivi alla Rivolta), in cui un giovane era stato manganellato e denudato in strada per poi essere arrestato con accuse tendenziose, Kais Saied aveva convocato nel palazzo presidenziale di Cartagine la ministra della giustizia Hasna ben Slimane e il ministro dell’interno ad interim cioè il primo ministro Mechichi per una “tirata d’orecchie” sui metodi polizieschi e giudiziari inaccettabili in una Tunisia post-2011; il giorno dopo il giovane veniva scarcerato e il Presidente si recava in visita nel suo quartiere per porgere ufficialmente scuse di Stato, anche in questo caso ricevendo un’accoglienza festosa.

Ma l’elemento determinante che ha decretato la fine del governo Mechichi è stato l’ostilità diffusa  di cui ha goduto nei quattro angoli del Paese per la crisi economica senza precedenti che a livelli macroeconomici ha portato la Tunisia ad un passo dal default finanziario con un debito pubblico che supera il 90% del Pil e che nella vita quotidiana del popolo si traduce in un carovita inaccettabile, unitamente ad un elevato tasso di disoccupazione e ai sempre più ampi settori della popolazione ridotta alla povertà. A ciò si aggiunge la pessima gestione della pandemia ovvero molto semplicemente l’assenza di una strategia finanche di protocolli sanitari coerenti che ha fatto schizzare il numero di morti, ricoveri e contagi raggiungendo il picco massimo di oltre 300 decessi in un solo giorno lo scorso 23 luglio e l’assenza di scorte d’ossigeno anche negli ospedali della capitale: il paese ha ricevuto quindi i cosiddetti aiuti umanitari da Italia, Francia e Algeria nelle scorso ore per evitare il collasso ospedaliero totale.

Infine il periodo in cui il governo Mechici è rimasto in carica è stato caratterizzato da uno scontro istituzionale che ha contrapposto la Presidenza della Repubblica da un lato e la Presidenza del Parlamento (presieduto da Rached Ghannouchi, il Presidente del partito islamista Ennahdha) e Hichem Mechichi dall’altro non solo per la nomina ministeriale ma anche per quello dei componenti della Corte Costituzionale. Inoltre negli ultimi mesi Kais Saied in occasioni ufficiali ha tenuto a rimarcare più volte di essere il Capo delle forze armate, “di tutte le forze armate” includendo non solo l’esercito ma anche la polizia e la guardia nazionale, quest’ultime in realtà secondo l’ordinamento tunisino fanno capo al ministero dell’interno ovvero nella fattispecie a Mechichi.

Questo mix esplosivo di contraddizioni sociali, economiche e politiche in cui oggettivamente Kais Saied si è mosso machiavellicamente ovvero da politico, sono esplose il 25 luglio, Festa della Repubblica, in cui migliaia di tunisini (principalmente di età compresa tra i 20 e i 30 anni) sono scesi nelle piazze di tutte le città da nord a sud attaccando le sedi di Ennahdha, dandone alcune alle fiamme; inutili sono stati gli interventi della polizia, costretta a ritirarsi in tutte le città in cui era intervenuta. Si stava quindi delineando uno scenario da guerra civile con la scesa in campo dei militanti di Ennahdha e della sua ala destra Karama contro il cosiddetto “movimento del 25 luglio”.

Immediatamente, la sera della stessa giornata il colpo di scena: Kais Saied riunito con i vertici militari, invocando l’articolo 80 della Costituzione, annuncia l’esautorazione di governo e parlamento, la revoca immediata dell’immunità parlamentare e conseguente persecuzione giudiziaria nei confronti dei responsabili della crisi economica e sanitaria del Paese; subito dopo l’esercito veniva dispiegato nella capitale e in particolare presso le sedi del ministero degli interni, della Casbah (la sede del primo ministro), del parlamento, della televisione nazionale, e davanti gli edifici di rappresentanza dei governatorati nei capoluoghi di regione. L’esercito ha anche sgomberato e sigillato la sede di Al Jaazera, l’agenzia di stampa qatariota e notoriamente vicina a livello internazionale alla Fratellanza Musulmana di cui Ennahdha è la “rappresentante” in Tunisia. Continuavano intanto gli attacchi alle sedi di Ennahdha non contrastati né dall’esercito né dalla polizia rimasta paralizzata con il proprio ministero “sotto assedio militare” e con il proprio ministro “trattenuto” nel palazzo presidenziale di Cartagine.

Nelle primissime ore del 26 luglio si erano completati i passaggi di ciò che tecnicamente è corretto definire colpo di stato. Ennahdha ha immediatamente denunciato la mossa di Saied come tale strillando che essa «colpisce la democrazia e la Rivoluzione», Rached Ghannouchi prova quindi a raggiungere il proprio ufficio in Parlamento ma viene lasciato fuori dal cancello dai militari in presidio, stessa sorte tocca ad alcuni parlamentari di Karama ed Ennahdha, piccoli tafferugli si registrano tra manifestanti antigovernativi in giubilo per la mossa presidenziale e militanti islamisti ma la situazione attualmente  resta fondamentalmente pacificata nonostante gli appelli di Ennahdha ai propri militanti di scendere in piazza per ripristinare la democrazia.

Il Presidente

Il Presidente Kais Saied

Un “colpo di stato costituzionale”?

La storia tunisina non è nuova a rivolgimenti politici dalla forma “originale”: Ben Alì aveva conquistato il potere il 7 novembre 1987 col cosiddetto “colpo di stato medico”, facendo decretare da un gruppo di noti dottori lo stato di deficienza senile del primo Presidente del Paese, Habib Bourghiba, governando per oltre un ventennio fino alla Rivolta popolare del 2010/2011 che ne decretò la fine.

La notte del 26 luglio dopo il “comunicato numero 1” del Presidente della Repubblica Kais Saied in cui ha annunciato di aver assunto pieni poteri per almeno un mese, alcuni giornalisti hanno coniato la definizione di “colpo di stato costituzionale”. Tale formula è giustificata dal discorso che lo stesso Saied porta avanti fin dalla campagna elettorale presidenziale: applicare coerentemente la Costituzione “rivoluzionaria”, praticando una cesura netta con il passato ovvero non solo con le forze politiche dell’ancient regime che si sono riciclate nell’ultimo decennio (in particolare Qalb Tounes oggi) o come il PDL che invece rivendica la diretta discendenza del RCD benaliano, ma anche contro le forze “nuove” al potere che utilizzano metodi vecchi (leggi Ennahdha e Karama) e che hanno tradito la volontà popolare espressa nella Rivolta Popolare stessa con le parole d’ordine di Lavoro, Libertà e Dignità Nazionale.

Kais Saied ha invocato l’attivazione dell’articolo 80 della costituzione che recita:

«In caso di pericolo imminente che minaccia le istituzioni della nazione e la sicurezza e l’indipendenza del Paese e il funzionamento regolare dei poteri pubblici, il Presidente della Repubblica può prendere le misure necessarie per questa situazione eccezionale, dopo aver consultato il Capo del governo e il Presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo e aver informato il presidente della Corte costituzionale. Queste misure saranno annunciate al popolo attraverso un comunicato. Queste misure devono avere come obiettivo garantire il ritorno nel più breve tempo possibile di un funzionamento regolare dei poteri pubblici. Durante questo periodo, l’Assemblea dei rappresentanti del popolo è considerata in uno stato di riunione permanente. In questo caso, il Presidente della Repubblica non può sciogliere l’Assemblea dei rappresentanti del popolo e non può essere accusato di una mozione di censura contro il governo.
Trenta giorni dopo l’entrata in vigore di queste misure, e su domanda del presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo o di trenta membri della suddetta Assemblea, la Corte costituzionale deve verificare la persistenza o meno della situazione eccezionale. La decisione della Corte è pronunciata pubblicamente non più tardi di 15 giorni di tempo. Queste misure decadono quando hanno fine le circostanze che le hanno generate. Il Presidente della Repubblica rivolgerà un messaggio al popolo al riguardo».

È attualmente in corso una battaglia di interpretazione a cui partecipano alcuni costituzionalisti tunisini sulla coerenza dell’atto presidenziale del 25 luglio rispetto al testo dell’articolo costituzionale. Non abbiamo problemi ad affermare che pur non essendo dei costituzionalisti appare evidente che Kais Saied abbia fatto un’evidente forzatura del testo costituzionale non avendo consultato gli altri due presidenti bensì avendoli messi davanti al fatto compiuto (contro cui il Presidente del parlamento Ghannouchi ha infatti protestato), avendo sospeso momentaneamente i lavori parlamentari, inoltre nonostante le disposizioni costituzionali che prevedevano la nascita di una Corte Costituzionale, al momento di scrivere essa non ha ancora visto la luce.

Per tutti questi motivi è quindi evidente che non solo l’interpretazione fatta da Kais Saied dell’articolo 80 non è verosimile, di più è in parte in contraddizione con esso. Tanto più che l’articolo in questione è attualmente impraticabile causa l’assenza di una Corte Costituzionale e quindi del suo presidente, il quale dovrebbe essere una figura istituzionale chiave insieme al Presidente della Repubblica per l’attivazione dell’articolo 80 stesso. Per quanto detto è evidentemente erroneo tirare in ballo la Costituzione sia da parte dei sostenitori che da parte dei detrattori del colpo di stato in corso.

Detto questo diciamo però con la massima tranquillità che questo dibattito che anima gli esperti di diritto costituzionale, com’è normale che sia, ma che eccita anche alcuni militanti di sinistra, è da ritenersi secondario e di nessun interesse politico per capire e interpretare gli eventi in corso.

Tunisi, agosto 2021

Tunisi, agosto 2021

Un’interpretazione materialista e non idealista dei fatti

La Costituzione tunisina così come tutte le Costituzioni apparse fino ad oggi altro non sono che il risultato del rapporto di forza reale raggiunto in un determinato momento storico in un determinato Paese tra diverse classi sociali, determinando l’involucro giuridico del potere politico. Gli eventi politici sono infatti determinati dal movimento delle masse popolari e da classi cui interessi sociali ed economici sono più o meno rappresentati coerentemente da partiti politici o organizzazioni collettive quali sindacati, associazioni patronali, ma anche da organizzazioni della cosiddetta società civile ecc. Pensare che i fatti di questa settimana siano frutto della regia occulta dell’uomo forte, com’è stato definito da alcuni Kais Saied è un’idiozia politica: le interpretazioni di questo tipo che spaziano dalla demonizzazione del tiranno da un lato al culto della personalità del salvatore della patria dall’altro sfociano nell’idealismo e sono lontane dalla realtà.

Kais Saied piuttosto ha sfruttato la propria carica istituzionale, che ricopre ricordiamo ancora grazie al voto prima e al sostegno dopo, di milioni di tunisini, per giocare le proprie carte in dialettica con “le mosse” degli altri soggetti che partecipano al gioco. È sempre l’intervento diretto delle masse (o l’assenza di esso/neutralità) sulla scena politica che determina l’evoluzione degli eventi politici stessi: senza le proteste popolari degli ultimi mesi e la mobilitazione popolare di massa e violenta del 25 luglio, non ci sarebbero stati i presupposti per il colpo di stato presidenziale ovvero per forzare momentaneamente le regole del gioco.

In tal senso ciò che a nostro avviso dovrebbe destare maggior interesse è rappresentato da due elementi:

 - chi ha tratto giovamento dal colpo di stato del 25 luglio?

 - le nuove condizioni politiche che si sono venute a creare possono favorire l’avanzamento delle istanze popolari espresse dai movimenti di lotta negli ultimi mesi?

Il colpo di stato ha colpito innanzitutto il governo reazionario di Ennahdha-Karama-Qalb Tounes, questo giano bifronte rappresentante la mediazione tra islam politico e vecchio regime, in secondo il parlamento. Un “parlamento nero” e ultrareazionario per le forze che lo compongono che non poteva che dare alla luce un governo antipopolare, espressione dell’accordo delle due fazioni attuali della classe dominante tunisina: la borghesia compradora e burocratica tradizionalmente legata fin dal ‘56 al capitalismo occidentale (e in particolare a Francia, Italia e USA) e quella legata alle potenze regionali di Turchia e Qatar che ha avuto accesso al potere dal 2012.

I governi della “transizione democratica”, seppur con forme parzialmente diverse, sono stati caratterizzati da questo minimo comun denominatore in cui Ennahdha è stata la forza parlamentare e di governo egemone in un processo graduale di restaurazione politica dall’indomani della Rivolta Popolare/rivoluzione fallita (o come l’hanno gramscianamente chiamata alcuni: rivoluzione passiva) fino ad oggi. In particolare il governo e il parlamento recentemente deposti, rappresentano l’ultima personificazione della cosiddetta “transizione democratica”, locuzione usata indistintamente da tutti i partiti parlamentari dalla Fratellanza Musulmana ai socialdemocratici e dai revisionisti di “sinistra” come il Partito dei Lavoratori, dalle potenze straniere agli attivisti delle ONG finanziate da quest’ultime. Una definizione fuorviante perché denota uno sviluppo politico positivo e progressista in tema di acquisizione di diritti sociali ed economici mentre ciò che è realmente accaduto negli ultimi dieci anni è stato proprio il contrario: una progressiva restaurazione del vecchio regime ma con forme nuove a cui il governo deposto aveva impresso un’accelerazione.

Durante le ultime elezioni il parlamento è stato eletto dalla minoranza del popolo, considerato l’astensionismo record di due anni fa a cui ha fatto da contraltare un’elezione plebiscitaria a favore di Kais Saied. Non stupisce allora che la violenza popolare si sia concentrata e abbia colpito il partito politico di regime per eccellenza negli ultimi dieci anni, forza egemone del governo e in parlamento.

Chi si arrovella intorno al falso problema della legittimità costituzionale inerente all’attivazione dell’articolo 80 non vede, e con questa impostazione idealista non può vedere, che lo scioglimento di un parlamento e di un governo di tale natura non solo non ha provocato scandalo nelle file del popolo ma al contrario sia stato salutato con giubilo dalle popolazioni. Questa reazione è dovuta al fatto che le larghe masse con le loro organizzazioni e i partiti e gruppi rivoluzionari declamavano lo scioglimento di questo parlamento e la caduta di questo governo già da mesi, ma a causa delle proprie debolezze soggettive non sono riusciti a raggiungere tale obiettivo in maniera totalmente autonoma.

Gli slogan lanciati nelle piazze il 25 luglio erano coerenti con quelli dei movimenti di lotta degli ultimi mesi: “Ghannouchi assassino”, “Saied dissolvi il parlamento”, “Il popolo vuole rovesciare il sistema”, “Il sistema è corrotto, il capo del governo è corrotto”, “Libertà dallo Stato di polizia della morte”. L’esito immediato del colpo di stato del 25 luglio ha risolto questo problema ed è quindi un passo in avanti nella direzione degli interessi del popolo tunisino.

La seconda questione da noi posta è invece più complessa perché ha a che fare con gli sviluppi futuri dell’attuale contraddizione che vede la polarizzazione delle forze reazionarie contrapposte a quelle popolari.

Tunisi, agosto 2021

Tunisi, agosto 2021

La reazione delle forze in campo e l’interesse delle masse popolari tunisine

Nell’attuale fase di polarizzazione delle forze in campo tutti i soggetti politici e sociali nel Paese non hanno altra possibilità che collocarsi in una delle due parti della polarizzazione stessa, tertium non datur. Nel “polo del sistema”, l’attore principale è Ennahdha che è stato il fulcro attorno a cui ha ruotato l’equilibrio della “transizione democratica”, un partito che ha rassicurato la classe dominante interna e le potenze straniere i cui interessi economici continuano ad essere soddisfatti a detrimento della sovranità e dignità nazionale e del benessere delle classi lavoratrici, dei contadini e del popolo tunisino in generale.

La sola possibilità che Ennahdha sia estromessa dal potere è fonte di preoccupazione dei Paesi occidentali che hanno interessi in Tunisia, in tal senso vanno interpretate le “preoccupazioni per il rispetto dell’assetto costituzionale e democratico del Paese” espresse dai comunicati del Dipartimento di Stato USA e dai ministeri degli esteri di Francia e Italia. Nonostante il 26 luglio il tentativo di riconquistare il parlamento con la forza da parte di Ennahdha-Karama-Qalb Tounes sia fallito miseramente, probabilmente queste forze, proveranno a riorganizzarsi rafforzate dal sostegno internazionale di cui godono. A rafforzare oggettivamente tale polo si aggiungono alcuni partiti liberali, socialdemocratici e riformisti (Partito Repubblicano, Corrente Democratica, Partito dei Lavoratori) che hanno condannato la mossa presidenziale.

Sorvolando sulle ex forze di governo, gli ultimi partiti qui citati assumono una motivazione di principio che denota la loro piena fiducia nel sistema democratico borghese e dei suoi meccanismi istituzionali e di potere e quindi del rispetto della legalità istituzionale formale anche se questa cozza con la volontà espressa esplicitamente e palesemente dal popolo nelle piazze. Va precisato che nella “società civile” anche l’estesa rete di ONG finanziate dai Paesi occidentali e dall’UE coerentemente con la propria impostazione di “sostegno della democrazia tunisina e alla transizione democratica” sia dentro a questo polo.

Dall’altro lato della barricata la Presidenza della Repubblica gode momentaneamente di un vantaggio tattico che potrebbe rivelarsi inconcludente o più probabilmente controproducente se non si riuscisse a dare una forma politica e organizzativa definita al diffuso sostegno popolare. Non è un caso che già il 27 luglio all’indomani del golpe, Kais Saied ha convocato tre riunioni nel palazzo presidenziale in cui sono stati invitati il sindacato unico nel Paese UGTT, l’associazione patronale Utica, due associazioni femministe, il Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini, l’ordine degli avvocati, il presidente del Consiglio Superiore della magistratura, il presidente del Consiglio dell’ordine giudiziario e il vice presidente del Consiglio dell’ordine amministrativo, con il tentativo evidente di includere nell’attuale fase di transizione innanzitutto i rappresentanti di alcuni settori sociali strategici nel Paese (i lavoratori e la classe patronale), rassicurare il potere giudiziario e la sua più alta carica attuale in questa fase di transizione, così come i giornalisti. Infine assicurarsi il sostegno delle donne, priorità onnipresente anche nei precedenti regimi dall’indipendenza ad oggi.

Una volta concluse queste riunioni, Kais Saied ha fatto un appello pubblico rivolto a tutte le organizzazioni della società civile per contribuire a fissare delle linee guida di una road map per questo mese di transizione fino alla nomine del nuovo primo ministro incaricato di formare il governo.

Per quanto concerne i partiti politici istituzionali che hanno finora sostenuto apertamente il Presidente della Repubblica si tratta di un partito socialdemocratico e di un partito marxista-leninista (Partito Popolare e Partito dei Patrioti Democratici Rivoluzionario).

Il Partito degli Elkadehines (dei lavoratori più sfruttati e oppressi) extraparlamentare marxista-leninista-maoista ha pubblicato un comunicato in cui giudica positivamente la mossa presidenziale e in accordo con la volontà e gli interessi popolari, unitamente ad altri gruppi e partiti rivoluzionari che hanno avuto un ruolo nella rivolta e nelle manifestazioni dello scorso gennaio e febbraio, dichiarando di partecipare all’attuale movimento in maniera critica e indipendente con le proprie parole d’ordine, legate alla conquista di una reale indipendenza nazionale, al controllo diretto dei settori strategici del Paese da parte dei lavoratori, differenziandosi dall’impostazione “costituzionalista” del Presidente, seppur valutando positivamente la rottura de facto del processo di “transizione democratica” (ovvero di restaurazione). Effettivamente in questa fase in cui gli eventi si susseguono velocemente, le forze politiche che rappresentano gli interessi dei lavoratori e del popolo tunisino sono impegnate nel migliorare i propri sforzi politici e organizzativi così da svolgere in maniera più incisiva il proprio ruolo negli eventi in corso.

Nelle prossime ore sicuramente sarà più chiaro quale sviluppo intraprenderà la polarizzazione in atto. Attualmente nessuno scenario è da escludere compreso lo scoppio di una guerra civile dispiegata o in egual modo un passo indietro di “riconciliazione nazionale” che potrebbe concretizzarsi nell’accettazione condivisa di un nuovo appuntamento elettorale. Di certo l’attuale rivolgimento politico è potenzialmente un’occasione per avanzare in direzione dei principi rivoluzionari di Lavoro, Libertà e Dignità Nazionale abortiti dalla “Transizione Democratica”. 

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021

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Emanuele Venezia, laureato nel Corso di Laurea Magistrale in Cooperazione e Sviluppo presso l’Università di Palermo, dottorando presso l’Università di Manouba (Tunisi) in Civiltà contemporanea con una ricerca comparativa diacronica inerente la comunità siciliana di Petite Sicile (La Goulette, Tunisi XIX e inizio XX sec.) e la comunità tunisina di Mazara del Vallo. Attualmente insegna italiano applicato all’economia in Tunisia.

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