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In alta quota per guardare più lontano. L’antropologia montana e dei cambiamenti climatici

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CIP

di Giovanni Gugg 

Il futuro come fatto culturale

Dieci anni fa Arjun Appadurai (2014) spiegò che il futuro è un fatto culturale. In quel suo libro offrì un’ampia prospettiva analitica sulle genealogie della fase attuale della globalizzazione, affrontando argomenti come violenza e mercificazione, nazionalismo e terrore, omogeneizzazione culturale e sostenibilità ambientale. Ma in quel testo Appadurai abbracciò anche una cosiddetta “politica della speranza”, esaminando la lotta per l’equità, il riconoscimento e l’autogoverno in condizioni di estrema disuguaglianza, dacché pose le basi per un’antropologia rivitalizzata e urgente del futuro. Sottolineava, cioè, l’importanza della ricerca sugli immaginari del futuro come strumento per generare utopie fondate per la trasformazione e l’empowerment individuale e sociale: in altre parole, Appadurai sosteneva che il “futuro” non è un risultato fisso o predeterminato, ma un artefatto culturale modellato da una moltitudine di fattori, tra cui politica, economia, tecnologia, media e dinamiche sociali, a cui oggi va aggiunta anche la condizione dell’ecosistema.

Le idee sul futuro influenzano le azioni nel presente [1], cioè l’interpretazione che diamo all’avvenire plasma la società attuale. È il tema al centro anche di altri volumi, come The Anthropology of the Future di Rebecca Bryant e Daniel M. Knight, pubblicato nel 2019, in cui i due autori esplorano i modi in cui il futuro viene concettualizzato, immaginato e costruito nelle diverse culture e società. Avvalendosi della prospettiva antropologica, il volume esamina come le idee sul futuro modellano il comportamento umano, le istituzioni sociali e le pratiche culturali, in particolare rituali e cerimonie legati a eventi futuri, narrativa speculativa e narrazione di futuri alternativi e il ruolo della tecnologia nel plasmare visioni del futuro.

71a1nhm8vls-_ac_uf10001000_ql80_Questioni come la globalizzazione, il cambiamento climatico e la disuguaglianza sociale influenzano la percezione del futuro delle persone e le loro strategie per affrontare l’incertezza. Evidentemente, le diverse visioni del futuro e i modi in cui gli individui e le comunità affrontano visioni e priorità concorrenti hanno anche delle implicazioni etiche, dacché diventa particolarmente centrale che il dibattito pubblico all’interno e all’esterno dell’antropologia sia ampio e articolato sul ruolo dell’immaginazione, dell’anticipazione e della speculazione nel plasmare le società e le esperienze umane.

Più nel dettaglio, sempre più spesso l’antropologia esplora il domani usando l’ambiente come trampolino di lancio, anche in forme non convenzionali: nel 2022, ad esempio, Philippe Descola e Alessandro Pignocchi pubblicano Ethnographies des mondes à venir, un dialogo di oltre 170 pagine con numerose tavole a fumetti in cui si approfondiscono i potenziali futuri delle società umane attraverso la lente dell’immaginazione etnografica, affrontando argomenti come il cambiamento climatico, la tecnologia e l’organizzazione sociale. Combinando le teorie antropologiche di Descola e la narrazione visiva di Pignocchi, il volume espone in forma di domande e risposte un’analisi su come culture diverse potrebbero adattarsi e modellare il mondo a venire, in particolare quelle che mantengono uno stretto rapporto con l’ambiente naturale. Fondendo la ricerca etnografica con la narrazione creativa e le illustrazioni artistiche, i due autori dialogano sul rapporto tra gli umani e il loro ambiente, mettendo in discussione la sostenibilità delle pratiche attuali e immaginando modalità alternative di interazione.

Alla base c’è il concetto di “multinaturalismo” (in contrapposizione al multiculturalismo), che Descola usa per descrivere le forme in cui culture diverse percepiscono e interagiscono con il mondo non umano, ma che riguarda anche il ruolo della tecnologia e il suo potenziale nell’esacerbare o mitigare gli attuali problemi ambientali e sociali.

91jn8dvpdwl-_ac_uf10001000_ql80_Un fenomeno globale, ma non uniforme

Ancora dieci anni fa, alla fine di febbraio 2014, un gruppo di scienziati dell’Università dell’Oklahoma, coordinato da Jianyang Xia, pubblicò un articolo su “Nature Geoscience” che spiegava quanto il riscaldamento climatico non fosse uniforme sul pianeta e, pertanto, come influisse sul ciclo del carbonio terrestre, con varie conseguenze sulle dinamiche dell’ecosistema. Secondo la ricerca, l’impatto del riscaldamento stagionale diurno o giornaliero variava tra le regioni del mondo, incidendo sulla produzione alimentare e sugli equilibri del clima. In altre parole, se il cambiamento climatico riguarda l’intero pianeta, gli effetti di tale trasformazione variano a seconda della stagione e dell’area, ma anche in base al giorno e alla notte. Jianyang Xia e colleghi mostrarono che il tasso di riscaldamento era maggiore in inverno rispetto all’estate, soprattutto alle latitudini settentrionali e in alta quota, mentre in alcune regioni tropicali era vero il contrario. Inoltre, i loro dati indicarono un calo dell’escursione termica giornaliera nel 51% del globo e un aumento solo nel 13%, principalmente a causa del più rapido aumento delle temperature notturne.

Studiando lo stato dei ghiacciai nelle zone montane, dalle Alpi all’Himalaya, e valutandone la futura disponibilità idrica, Elisa Palazzi, docente di fisica del clima presso l’Università di Torino, è impegnata in varie attività internazionali, come l’Alleanza europea per la ricerca sul clima (ECRA), la Mountain Research Initiative (MRI) e la Rete globale per le osservazioni e le informazioni in Ambienti montani (GEO-GNOME). In questo ambito, Palazzi e i suoi colleghi dei vari gruppi del settore affermano che le montagne «forniscono significativi benefici per la società, una funzione sempre più compromessa dai cambiamenti climatici, dallo stress ambientale, dalle trasformazioni politiche e socioeconomiche e dall’uso non sostenibile delle risorse naturali». Pertanto, aggiungono, «è essenziale aumentare e approfondire la nostra comprensione di quei processi e delle loro interazioni, in modo da potenziare la nostra capacità di prendere decisioni informate» (Adler, Palazzi et al. 2018).

mri_logo_blueLe montagne sono degli indicatori privilegiati sullo stato di salute del clima, una sorta di «barometro della vulnerabilità», per usare un’efficace immagine che Shaffer (2017) ha elaborato per i riti contro la siccità. Negli ultimi anni, la temperatura in montagna è aumentata di circa il doppio di quanto abbia fatto a livello medio globale o nelle regioni circostanti, per cui c’è meno neve (nel 2022 in molte regioni delle Alpi italiane la precipitazione nevosa ha scarseggiato fino al 60%) e, quindi, i ghiacciai si ritirano o si frammentano, diventando particolarmente fragili nei confronti del riscaldamento globale. Oppure la quota della “tree line”, la “linea degli alberi”, ossia il confine ecologico dei diversi ambienti, varia più rapidamente del solito e, implicitamente, condiziona la massa corporea degli animali, come i camosci e altri ungulati che – spiegano Rudolf Reiner e colleghi (2021) – è complessivamente in declino nell’arco alpino, ma meno nelle aree con una maggiore percentuale di copertura forestale. Pertanto, monitorare oggi le montagne equivale a osservare il barometro di una particolare vulnerabilità, quella che domani attende la gran parte di noi, abitanti di quote più basse, ossia la vulnerabilità di un’epoca dominata dall’incertezza del clima (Gugg 2023), ma che già ora ci costringe ad affrontare fenomeni meteorologici di crescente violenza e frequenza.

Le montagne sono le nostre sentinelle sul futuro: studiarne l’ecosistema in tutte le sue declinazioni e sfumature significa non solo comprendere cosa sta succedendo adesso, ma anche scorgere con lieve anticipo quel che avverrà in modo più esteso sul resto del territorio e, volendo trovare un aspetto positivo, vuol dire avere l’opportunità di elaborare risposte che, sebbene comunque tardive, potrebbero almeno mitigare l’emergenza nel breve periodo. Posare lo sguardo sulle montagne – o, per dirlo in maniera al tempo stesso più evocativa e più rigorosa, porsi in ascolto delle montagne – significa riconoscere l’esistenza di dimensioni politiche sia individuali che su larga scala, nel senso che le azioni individuali sono sempre preziose, ma quelle collettive possono esercitare una pressione significativa sui decisori. Le risposte a cui faccio riferimento sono chiaramente legate alle condizioni attuali, che a loro volta dipendono dalle emissioni passate, ma l’analisi dei fenomeni ci permette di prevedere cambiamenti significativi entro la metà del prossimo secolo, in base allo scenario di emissioni perseguito. Elisabetta Dall’Ò (2022, 2024), che definisce “sentinelle alpine” alcune figure “non umane” come gli animali selvatici e da fattoria, e persino gli insetti e le piante del versante italiano del monte Bianco, nota che, nonostante l’evidenza scientifica degli impatti del riscaldamento globale sul territorio, l’atteggiamento socioculturale delle persone esposte tende a nascondere o scotomizzare il rischio. Porre attenzione a quei segni è di grande importanza non solo nel percepire i primi segni e sintomi della “crisi climatica”, ma anche nell’“anticiparla” come sentinelle (Keck 2020): «le interazioni uomo-animale su scala micro – scrive Dall’Ò – possono diventare strumenti chiave per anticipare, leggere, comprendere e spiegare la crisi locale e globale in corso» (Dall’Ò 2022: 123).

11Antropologia dei (e nei) cambiamenti climatici

L’antropologia ha una lunga storia di frequentazione delle montagne, avendone studiato a lungo vari aspetti della vita umana e della cultura, dalla relazione tra le comunità e i loro ambienti montani alle pratiche religiose, l’organizzazione sociale e gli sviluppi storici. Culture diverse hanno incorporato le montagne nella loro arte e letteratura in vari modi, spesso riflettendo le loro specifiche prospettive culturali, religiose e geografiche. È, ad esempio, il caso di alcune comunità andine peruviane studiate da Frank Salomon (2018), in cui le montagne sono spesso raffigurate come spazi sacri, con significato religioso e simbolico, nella loro arte e letteratura. Oppure è quanto avviene al monte Kailash, nel Tibet himalayano cinese, venerato come una montagna sacra da indù, buddisti e giainisti, e dove si snoda uno dei più importanti pellegrinaggi del mondo, come spiega Alex McKay (2015).

Gli esempi potrebbero continuare e attingere a innumerevoli angoli del pianeta e per i soggetti più disparati, ma l’antropologia delle montagne è andata sviluppandosi anche in direzioni più ibride e politiche, oltre l’interpretazione simbolica per comprendere le dinamiche della resistenza e della permanenza in ambienti difficili, se non ostili. E allora bisogna risalire almeno agli anni Ottanta del Novecento, quando vengono pubblicati gli atti del seminario tenuto nell’ottobre 1980 presso il CNRS di Parigi da Corneille Jest e Paul T. Baker, intitolato L’homme et son environnement a haute altitude, oppure il primo numero della rivista “Mountain Research and Development” nel dicembre 1981 o, ancora, l’articolo di Benjamin S. Orlove sul tema “Mountain anthropology and mountain anthropologists: The comparative study of populations at high elevations”, uscito nel 1987 nella “Reviews in Anthropology”. In quella prima fase di studi emergono nuovi temi, come le problematiche ambientali che le popolazioni in alta quota devono affrontare, le prime trasformazioni sociali dovute al cambiamento climatico globale o le dinamiche socioculturali legate ad altri fenomeni come il turismo di massa. Tali argomenti riflettono la natura interdisciplinare dell’antropologia montana, perché intrinsecamente comprendono aspetti ambientali, sociali e culturali della vita nelle aree ad alta quota.

Com’è intuibile, nei decenni successivi la strada è stata ulteriormente percorsa e indagata, parallelamente all’aumento della crisi climatica e degli studi scientifici che vi sono connessi, con specializzazioni sempre maggiori sulla perdita di biodiversità e di habitat, sulla vulnerabilità agli eventi estremi e la difesa delle foreste come cuscinetto per gli impatti dei cambiamenti climatici, sulle trasformazioni dei sistemi socio-ecologici e delle strutture di governance, sulle strategie di adattamento delle comunità montane e le loro capacità di adattamento.

Restringendo l’attenzione all’Italia, dall’anno accademico 2020/2021 Elisabetta Dall’Ò ha avviato presso l’università di Torino un “Laboratorio di Antropologia dei cambiamenti climatici” che, svolgendosi a carattere seminariale, ha affrontato (e continua ad affrontare tuttora) [2] il tema del climate change da una prospettiva di scienze umane e sociali, con una particolare attenzione etnografica sulle comunità coinvolte in disastri ambientali, pandemie, impoverimento ecosistemico. Dopo poco, nella stessa università, nel 2021 quattro dottorandi (Martellozzo, Molinari, Orlandi e Vinai) hanno fondato il “Gruppo di lavoro Antropologia in quota”, con lo scopo di esplorare le diverse ricerche nelle montagne italiane. Se entrambe le esperienze accademiche mirano a promuovere la collaborazione e lo scambio di conoscenze tra ricercatori e studiosi interessati alle questioni antropologiche legate alle questioni climatiche e alle regioni montane, la prima si pone soprattutto l’obiettivo della comprensione dei cambiamenti climatici e delle loro implicazioni sociali, culturali ed economiche, nonché l’esplorazione di strategie di adattamento e mitigazione, mentre la seconda intende analizzare soprattutto i processi di cambiamento che interessano le comunità di montagna. Ma, come si può intuire, spesso tali obiettivi convergono o addirittura si sovrappongono.

421616080_890800963053045_8308360550251539152_nSguardi in quota

La tappa più recente di questo itinerario è l’ultimo numero della rivista “Antropologia” (vol. 10, n. 2, ottobre 2023), uno special focus intitolato “Sguardi in Quota. Prospettive per un’Antropologia in Montagna”, a cura di Chiara Calzana, Amina Bianca Cervellera, Nicola Martellozzo, Maria Molinari, Gabriele Orlandi, Andrea Tollardo, Manuela Vinai. Si tratta del risultato di varie iniziative cominciate con la fondazione del gruppo, coincidente con una giornata di studio, nel maggio 2021, intitolata “L’antropologia in quota. Un confronto tra orientamenti, un percorso tra i vuoti”, a cui avevano partecipato numerosi studiosi e personalità del panorama degli studi montani. Successivamente ci sono stati altri incontri, come il IX e il X convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata, rispettivamente nei mesi di dicembre del 2021 e nel 2022 [3].

Confrontando diversi approcci e metodologie di ricerca nell’ambito dell’antropologia montana e promuovendo il dialogo tra ricercatori e discipline, il gruppo ha puntato ad una contaminazione tra sguardi, metodologie e tematiche, al fine di superare le divisioni tradizionali tra l’antropologia sociale delle Alpi e gli studi sulle aree interne appenniniche. Ma l’ambizione è stata anche più alta, dal momento che si è proposta anche una lettura critica del termine “quota” che, considerando il solo criterio altimetrico, è al centro della definizione più classica e diffusa di montagna. Il gruppo, infatti, privilegia una visione più sfumata e dinamica delle aree montane, dunque un approccio inclusivo, critico e multidisciplinare, come emerge soprattutto dallo special focus di “Antropologia”: le montagne non sono solo vette alpine o appenniniche, ma comprendono anche le «montagne di mezzo» (Varotto 2020), cioè una varietà di territori e comunità spesso trascurati dalle pratiche e dalle rappresentazioni dominanti.

Nella loro varietà, i sette contributi dello special focus (a cui vanno aggiunti l’introduzione e la postfazione) [4] presentano lavori che, a partire da etnografie e da materiali storici, analizzano temi e questioni delicate, come le politiche pubbliche, le rappresentazioni della ruralità, le risorse naturali, le pratiche di cura e le forme di convivenza. In tutti i capitoli si scorge uno sguardo sul domani, anche in quelli esplicitamente storici, come nel caso dei testi di Gabriele Orlandi o di Chiara Calzana, che spiegano rispettivamente quale idea di futuro ci fosse alla fine dell’Ottocento, quando le autorità pubbliche italiane fondarono la Pro Montibus, una società volta al rimboschimento delle montagne, con una visione conservazionista e filantropica (Orlandi 2023), oppure quali «futuri passati e memorie future» vennero elaborate nella metà del Novecento per la valle del Vajont, quando venne costruita «la diga più alta del mondo», all’epoca infrastruttura simbolo del progetto nazionale di modernizzazione del Paese (Calzana 2023).

419746524_884936026972872_2297383720028839097_nLe aree montane sono al centro di un ampio dibattito internazionale, in particolare intorno alle riconfigurazioni della ruralità e alle prospettive dei «paesaggi fragili»; questi – ricorda Amina Bianca Cervellera – sono «caduti fuori dall’asse dello sviluppo novecentesco», ma, proprio per questo, oggi sono «spazi di critica e sperimentazione sociale, laboratori ideali per soluzioni alternative, finanche “annuncio di una nuova civilizzazione”». Interrogandoci sul futuro delle aree in abbandono, quelle che Vito Teti situa «tra dimenticanza e speranza, tra burroni e paesaggi splendidi, tra passato e futuro» (Teti 2004), è come se anche noi stessimo attraversando un periodo “liminale”, sospeso tra un passato che non può tornare e un futuro che deve ancora arrivare, ma che possiamo già scorgere e, in una certa misura, immaginare.

I territori montani sono interessati da una crisi multipla, nel senso che sono caratterizzati dal verificarsi simultaneo, a cascata o cumulativo di più minacce di origine antropica e naturale (Lee et al. 2024). Posare lo sguardo su di essi significa guardare l’avvenire dei territori più a valle; proprio mentre chiudo questo contributo è uscito un documento della Fondazione CIMA (Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale) sullo stato della risorsa idrica nivale italiana nel mese di febbraio 2024: «il deficit di Snow Water Equivalent nazionale è del -64%: i dati peggiori si registrano per gli Appennini, ma la situazione di scarsità di neve caratterizza tutta la penisola e, sulle Alpi (fondamentali anche per l’approvvigionamento idrico del bacino del Po), il deficit è del -63%, paragonabile a quello dello scorso anno» [5]. In altre parole, stiamo assistendo alla siccità e agli incendi della prossima estate e alle alluvioni e agli smottamenti del prossimo autunno.

12Se da un lato questa è una situazione angosciante, dall’altro è un piccolo vantaggio per tentare di limitare i danni: parlare di immaginari di futuro è fondamentale per poter costruire il domani, perché la previsione e l’aspirazione ne sono il caposaldo. Dieci anni fa, Appadurai ci diceva che «il futuro non è uno spazio soltanto tecnico o neutrale, ma è ricolmo di emozioni e di sensazioni» (Appadurai 2014: 393), per cui oggi possiamo leggere meglio il tempo che ci attende e, magari, modificarlo. Ma questo ragionamento vale anche per l’antropologia culturale, e l’antropologia “in quota” in particolare – come sottolineano Pietro Clemente e Pier Paolo Viazzo nella postfazione dello special focus: la tendenza è quella di un infittirsi del dialogo tra antropologia alpina e antropologia appenninica, nonché di un perdurante interesse per il neopopolamento delle terre alte, dacché «questi probabili orientamenti non porteranno a una chiusura di orizzonti», ma, al contrario, indurranno a trovare sempre nuovi terreni di confronto spaziali e disciplinari. In una prospettiva più ampia, inoltre, le scienze sociali hanno un ruolo essenziale nell’elaborare forme inedite di possibili futuri: climatologia, biologia, geologia e scienze naturali sono basilari per la conoscenza dei fenomeni e per la creazione di policy e strumenti efficaci per ridurre l’esposizione ai rischi, ma, al contempo, antropologia, sociologia, storia e scienze della comunicazione sono altrettanto centrali nell’andare oltre l’apparenza dei luoghi comuni e nell’aggiungere un punto di vista umano e sociale in quel lavoro comune che è la predisposizione dell’avvenire.

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Il caso specifico su cui, personalmente, lavoro da più tempo è quello del Vesuvio, dove un determinato scenario di rischio vulcanico (una futura eruzione simile a quella subpliniana avvenuta nel 1631) determina fin dal 1995 certe perimetrazioni del territorio vesuviano (Gugg 2015).
[2] Maggiori informazioni sul Laboratorio di Antropologia dei cambiamenti climatici sono a questo indirizzo web: https://www.didattica-cps.unito.it/do/corsi.pl/Show?_id=q0tq. Intorno a questa iniziativa orbita anche una pagina Facebook intitolata “Intemperie. Laboratorio di Antropologia dei e nei cambiamenti climatici”: https://www.facebook.com/p/Intemperie-Laboratorio-di-Antropologia-dei-e-nei-cambiamenti-climatici-100063820464061/
[3] Nel convegno SIAA del 2021 ci fu il panel “Abitare le montagne d’Italia fra ricomposizioni demografiche e politiche di sviluppo territoriale. Quali risorse può mettere in piedi l’antropologia nelle terre alte?”, della cui esperienza hanno scritto Martellozzo e colleghi sul numero 53 di “Dialoghi Mediterranei” (2022). Per quanto riguarda il convegno SIAA del 2022, invece, il gruppo “Antropologia in Quota” ha proposto il workshop “Cordate (im)possibili. Antropologia e pratica delle terre alte a confronto”.
[4] 1) Introduzione. Sguardi in Quota. Prospettive per un’Antropologia in Montagna (Chiara Calzana et al.); 2) “Nell’interesse di queste laboriose e un po’ dimenticate popolazioni”: rappresentazioni ed effetti di rifrazione della “questione montanara” (1877-1936) nelle Alpi occidentali italiane (Gabriele Orlandi); 3) Futuri passati e memorie future. Il caso della diga del Vajont (Chiara Calzana); 4) La storia di una pietra, di un albero, o di una montagna: connessioni antropologiche tra le valli di Fiemme e Piné (Nicola Martellozzo, Andrea Tollardo); 5) “Da Barone a Barone”: riflessioni sul mecenatismo ambientale nella montagna biellese (Manuela Vinai); 6) Progetti incompiuti, rappresentazioni dell’abbandono e riattribuzioni di valore nelle valli del Tortonese (Amina Bianca Cervellera); 7) Spazi di separazione e interazione tra “locali” e “forestieri” in un paese dell’Appennino tosco-emiliano (Maria Molinari); 8) Antropologia del e nel welfare in una valle della montagna piemontese: il Laboratorio Valchiusella (Roberta Clara Zanini); 9) Postfazione. Dagli studi di comunità alle comunità patrimoniali e alle aree interne. Percorsi della ricerca antropologica “in quota” italiana (Pietro Clemente, Pier Paolo Viazzo).
[5] “Neve, una situazione in peggioramento per l’Italia”, in website della Fondazione CIMA, 16 febbraio 2024: https://www.cimafoundation.org/news/neve-una-situazione-in-peggioramento-per-litalia/ 
Riferimenti bibliografici
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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.

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