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Immigrazione, multiculturalismo e interculturalismo tra le due sponde dell’Atlantico

Immigrati-in-Quebec

Immigrati in Quebec

di Franco Pittau e Nadia-Elena Vacaru

Questo saggio è dedicato a un confronto tra le politiche condotte nel Nord America e in Europa per quanto riguarda l’integrazione delle culture degli immigrati. La maggiore attenzione è rivolta al Canada (e, al suo interno, al Québec) e, per quanto riguarda l’Unione Europea, principalmente all’Italia. Ci siamo proposti di privilegiare un taglio prettamente espositivo, che aiuti a percepire la diversità dei punti di vista, senza indulgere alle polemiche, e abbiamo cercato non solo di valorizzare gli elementi acquisiti attraverso la nostra personale esperienza all’interno del mondo migrante ma anche di riferire su quella dei nostri Paesi di origine (Italia e Romania).

Il Canada è il primo riferimento da noi esaminato, un Paese dove si confrontano il multiculturalismo a livello federale e l’interculturalismo nel Québec. Cercheremo di esporre il perché di questa distinzione e perciò lasceremo ampio spazio alle ragioni sottostanti alle scelte della Provincia del Québec. Ma il multiculturalismo è la politica adottata anche negli Stati Uniti e perciò faremo seguire una analisi delle teorie di tre importanti autori: Francis Fukuyama, Samuel P. Huntington e Giovanni Sartori (un italiano che ha trascorso la sua vita accademica negli Stati Uniti).

Mostreremo, infine, come il modello di convivenza tra le culture che si sta portando avanti nell’Unione Europea, non è più paragonabile a quelli classici sperimentati in diversi Paesi del Vecchio Continente a partire dagli anni ’70 (improntati, in estrema sintesi, all’assimilazione, alla multiculturalità e alla rotazione). Si tratta di un modello con diversi aspetti innovativi che, pur difficili da definire in maniera univoca (trattandosi di 28 Stati politicamente ma non federati), per diversi aspetti non è lontano dal modello canadese e in particolare dall’interculturalismo del Québec.

La riflessione sull’esperienza in materia di integrazione in Canada (e in particolare nel Québec) è stata di stimolo per attuare un confronto tra le due sponde dell’Atlantico, giungendo a riscontrare maggiori analogie tra l’Europa e il Canada e meno con alcune teorizzazioni fatte negli Stati Uniti.

1Canada: dal multiculturalismo all’interculturalismo

A colpire maggiormente un europeo nell’osservare la presenza immigrata in Canada è l’ideologia positiva con cui le autorità valutano questa realtà [1]. Tra le tante esperienze di base che si possono citare, ci piace riportare l’appassionata testimonianza resa da una italiana pubblicata su internet, che fa da pendant agli studi scientifici condotti al riguardo. A scrivere è una persona proveniente da una tipica e soleggiata isola mediterranea (la Sardegna): «Non solo ho imparato due lingue, ma ho imparato anche che il Québec (così come il Canada) è il Paese in cui non importa quale sia il tuo Paese d’origine, il colore della tua pelle o la tua religione: sarai sempre benvenuto. È il Paese in cui tutti ti accolgono con un grande sorriso, il Paese dove la tradizione e la storia seppur così giovani hanno forti radici negli animi» [2].

Come ben noto, il Paese è nato dall’incontro di due gruppi nazionali provenienti rispettivamente dalla Gran Bretagna e dalla Francia (la comunità francofona è concentrata in prevalenza nel Québec) e di tre gruppi etnici autoctoni riconosciuti dalla Costituzione del 1982. Ad essi si sono aggiunti immigrati in provenienza da ogni parte del mondo. Attualmente si insediano nel Paese 200 mila persone l’anno. Nel complesso gli immigrati assicurano per il 50% la crescita demografica e, tra quelli che hanno conservato la cittadinanza propria e quelli che sono diventati cittadini canadesi e gli oriundi loro discendenti influiscono per circa la metà sui 32 milioni di residenti.

Mentre in Europa si avverte una crescente preoccupazione di fronte all’inevitabile aumento degli immigrati (e specialmente dei profughi), il Canada guarda con serenità alle prospettive migratorie ed è orgoglioso di aver varato per primo nel mondo (1971) una politica multiculturale. A spingere in tal senso fu il governo federale diretto da Pierre Trudeau, spinto dalla convinzione che la varietà culturale e la diversità di vedute arricchiscono il Paese facendo convergere in una visione unitaria questo vero e proprio mosaico. Sono presenti in Canada oltre 200 gruppi etnici e viene sottolineato con orgoglio che i rappresentanti di 40 culture sono protagonisti nella stampa etnica canadese. La Legge federale sul multiculturalismo promuove la piena ed equa partecipazione di tutti i residenti senza tenere conto della loro origine e favorendo lo sviluppo individuale e l’inserimento nella vita sociale, culturale, economica e politica del paese.

Un europeo non può che restare colpito da questa ideologia positiva. Non rientra nel piano di questo studio diffondersi più ampiamente sulle caratteristiche del multiculturalismo così inteso rispetto al quale però, secondo la posizione assunta dalla Provincia del Québec, si può addirittura andare oltre con la promozione dell’interculturalismo. Va tenuto presente che negli anni ‘60, il Québec sperimentò profondi sconvolgimenti culturali e socio-politici, tra i quali un profondo desiderio di riconoscere le peculiarità culturali del Quebec riguardo all’identità canadese e affermata, soprattutto, non solo attraverso la lingua ma anche a livello politico e religioso.

Negli anni ‘70 andavano rafforzandosi nel Québec le istanze indipendentiste e nel 1977 si pervenne all’approvazione della legge n. 101 (Charte de la langue française), che riconosceva alla Provincia la facoltà di garantire la propria identità linguistica e culturale [3]. La contrarietà del Québec si è determinata per il fatto che il multiculturalismo è nato come una proposta esclusivamente anglofona, non avendo il Governo centrale riconosciuto l’esistenza di due nazioni (anglofona e francofona) come componenti un solo Stato e avendo invece stimato il Québec una Provincia come le altre. Il Québec si considera, invece, la nazione francofona e che come tale accoglie gli immigrati. L’interculturalismo, quindi, è stato ritenuto una sorta di atto fondante del Québec moderno, così come per il Canada lo è stato il multiculturalismo [4].

-Migranti-italiani-diretti-in-Canada-1901.

Migranti italiani diretti in Canada, 1901

L’immigrazione degli italiani in Canada

L’Italia conta in terra canadese una grande collettività, insediata specialmente nelle Province dell’Ontario e del Québec. Il primo consistente flusso degli italiani verso il Canada (1880-1920), legato alla costruzione della rete ferroviaria e alle opere di canalizzazione, si diresse in via quasi esclusiva verso l’area di Montreal, dove si costituì la prima Little Italy del paese. Nelle miniere di carbone al confine tra l’Alberta e la British Columbia e lungo la ferrovia che collega Montreal a Victoria, si concentrarono, tra l’altro, i migranti della Lombardia, allora ancora una regione di esodo. Per mantenere l’identità italiana si fece perno sui valori tradizionali (famiglia e religione) e sull’associazionismo [5].

La stragrande maggioranza della collettività italiana si è costituita a seguito dei flussi che si determinarono dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fondamentale fu, nel 1951, la firma del primo accordo bilaterale italo-canadese sull’immigrazione, che diede luogo all’arrivo in massa dalle regioni del Centro-Sud (circa 25 mila persone l’anno). Poi, a partire dalla fine degli anni ’60, i flussi incominciarono a ridursi significativamente e scesero di sotto delle 5 mila unità. Verso la metà degli anni ’70 si registrò una certa ripresa, con circa un migliaio di italiani che arrivavano in Canada, dimezzati già verso la metà del decennio successivo. Nell’insieme, tra il 1947 e il 1981, secondo le statistiche canadesi furono un milione e 500 mila gli arrivi dall’Italia. Attualmente, i flussi risultano molto ridotti: secondo l’Immigration Canada poche centinaia all’anno, principalmente di giovani in ricerca di migliori opportunità.

La presenza italiana si è radicata nel Paese ed è protesa al raggiungimento di un equilibrio tra la cultura di origine (che non vuole perdere) e le due culture fondatrici della società canadese (quella anglofona e quella francofona), cercando di conciliare gli aspetti più tradizionali con le prospettive innovative. Come di seguito vedremo, il Canada è diventato un grande Paese di immigrazione anche per via dei flussi pervenuti da continenti diversi da quello europeo e, anticipando di una generazione, si è dovuto confrontare con i problemi di convivenza propri delle società multiculturali, che nel corso del nuovo millennio costituiscono anche nell’Unione Europea una questione cruciale.

Immigrati italiani a Montreal.

Immigrati italiani a Montreal

L’interculturalismo, nuovo modello scelto nel Québec

Il Québec ha un forte legame storico con la Francia, di cui fu colonia per due secoli fino al 1763, e Montreal non è solo la seconda città francofona nel mondo ma è anche riconosciuta come una grande città interculturale. È particolare la situazione del Québec in terra nord-americana, non solo per la sua origine francofona prima ricordata ma anche perché la tradizione francofona continua a essere mantenuta viva in un contesto anglofono. La Provincia del Québec fa perno sul francese come propria lingua ufficiale, sulla sua specifica cultura e sulle sue istituzioni, e si considera una vera nazione all’interno dello Stato federale del Canada.

Col tempo il Québec ha visto aggiungersi alle originarie minoranze indigene i discendenti dagli antichi coloni francesi (quebechesi de souche, così vengono denominati), inizialmente le comunità etniche provenienti dall’Europa e, quindi, nuove colonie da tutto il mondo; con questa popolazione così composita ha voluto seguire un suo originale modello di convivenza, differenziandolo dal multiculturalismo canadese.

Dell’utilità di un modello interculturale per la gestione delle diversità culturali nel Québec si è iniziato a prendere coscienza specialmente a seguito dei flussi di immigrazione del dopoguerra nel corso dei quali la Provincia, considerandosi una nazione che accoglie, si è sentita incentivata a distinguersi rispetto all’orientamento multiculturale e canadese [6]. Si è tenuto conto e della trasformazione del territorio del Québec per effetto della pluralità di etnie, culture e religioni, ritenendole meritevoli di una grande attenzione e perseguendo rapporti interculturali in quanto in grado di favorire la cittadinanza attiva dei nuovi venuti.

È stato ritenuto che, mentre l’approccio multiculturale incoraggia le minoranze etniche a salvaguardare le loro culture d’origine, con l’interculturalismo si debba conferire priorità al dialogo tra i diversi gruppi secondo un modello bi-direzionale tra la maggioranza francofona e le comunità immigrate. Questo modello interculturale riconosce che le diverse minoranze insediate sul posto sono portatrici di culture dalla valenza specifica rispetto a quella autoctona, ma non considera questa diversità un problema o un fardello e, dando la priorità al dialogo, da una parte ritiene che gli immigrati siano tenuti a conoscere la storia e la cultura del Québec e, dall’altra, assicura lo spazio necessario per l’espressione delle differenze culturali, astenendosi dai intenti assimilazionisti e favorendo così l’adesione ai valori locali: insomma, da una parte e dall’altra si apprende a vivere insieme, raccordando le proprie differenze.

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Popolazione immigrata in Canada

Negli anni ‘70 la sensibilità alle altre culture era differenziata e non sempre adeguata. Un caso rimasto famoso fu quello del comune di Herouxville, un piccolo centro della Provincia del Québec. Il 25 gennaio 2007 il locale consiglio comunale diffuse un manifesto per informare sulle cose che non avrebbero dovuto fare gli immigrati eventualmente interessati a insediarsi sul posto. Queste indicazioni furono impartite con stile quanto mai risoluto: divieto di mascherarsi (bizzarra allusione al velo islamico o ad altri simboli religiosi), di portare un’arma a scuola (probabile riferimento al pugnale simbolico dei sikh), obbligo di chiudere le finestre per non consentire di vedere, dall’interno della propria abitazione, donne discinte transitanti per strada, divieto a scuola d’insegnare la biologia ed evoluzione e libertà per le donne di guidare l’auto, firmare assegni, votare, ballare, decidere, parlare e vestirsi a loro piacimento [7].

Nel 2007, lo stesso anno del manifesto di Herouxville, nel Québec venne istituita una commissione per verificare se i rapporti correnti nei confronti dell’immigrazione fossero conformi ai valori del pluralismo, della democrazia e dell’eguaglianza, da ritenere essenziali nella società quebecchese. A dirigere la Commissione vennero chiamati il sociologo e storico Gérard Bouchard (francofono) e il filosofo e politologo Charles Taylor (anglofono), entrambi studiosi del fenomeno dell’identità e dell’incontro tra le culture. La Commissione, chiusi i lavori, presentò le sue proposte su vari aspetti attinenti alla convivenza delle diverse culture (ad esempio, occupandosi dei simboli religiosi, in ambito scolastico e lavorativo) e propose i suggerimenti ritenuti opportuni. Fu avanzata anche l’ipotesi di promuovere con un’apposita legge l’interculturalismo così da conferirgli contenuti più concreti e agevolarne l’applicazione [8].

Queste furono nel corso del tempo le tappe più significative dell’interculturalismo quebecchese:

  1. istituzione del Ministère de l’Immigration (1968);
  2. rifiuto del multiculturalismo canadese (1971);
  3. approvazione della « Charte des droits et libertés de la personne » (1975);
  4. approvazione delle leggi linguistiche imperniate sul riconoscimento del francese lingua ufficiale nel Québec (1974, 1977);
  5. ripartizione delle competenze in materia di immigrazione tra il Governo del Québec e quello di Ottawa (1991);
  6. diffusione dell’interculturalismo, verso l’inizio degli anni 2000, passando dalle ristrette cerchie degli specialisti al dibattito sui media e in seno all’opinione pubblica;
  7. istituzione della Commissione Bouchard-Taylor (2007-2008);
  8. lotta contro il razzismo (2008).

L’interculturalismo come teorizzato da Gérard Bouchard

Il più autorevole interprete dell’interculturalismo come strategia propria del Québec è stato Gérard Bouchard, che nel 2012 ha pubblicato un libro con questo titolo [9]. La questione dell’interculturalismo viene da lui posta in questi termini:

«Comment penser l’avenir d’une majorité francophone sans assimiler les minorités ? L’esprit de l’interculturalisme, tel que je l’envisage, est de surmonter cette antinomie et de proposer une vision intégrée des composantes de la culture québécoise qui respecte les prérogatives des unes et des autres. Mais il demeure à la fois inévitable et légitime que la majorité francophone, ne serait-ce qu’en raison de son poids démographique et historique, se présente de facto comme le vecteur principal d’intégration» [10].

Sono diverse le condizioni che contribuiscono ad attribuire una sua specificità all’intervento effettuato nel Québec a livello culturale rispetto agli immigrati, che fanno sì che a realizzarlo sia la Provincia come nazione [11].

Bouchard così précisa al riguardo:

«En effet, le Québec se distingue des autres provinces canadiennes par son important territoire, sa notion historique, sa francophonie identitaire et culturelle, sa tradition catholique et la spécificité de ses institutions politiques, juridiques et économiques. La majorité francophone québécoise occupe un statut minoritaire» [12].

Il paradigma del dualismo (“noi” e “loro”) può essere superato se gli immigrati vengono messi in condizione di conservare la loro eredità culturale, cercando però la convergenza con la maggioranza per creare una cultura pubblica comune. Questa è la sua definizione dell’interculturalismo nel Québec:

«L’interculturalisme comme pluralisme intégrateur, est un modèle axé sur la recherche d’équilibres qui entend tracer une voie entre l’assimilation et la segmentation et qui, dans ce but, met l’accent sur l’intégration, les interactions et la promotion d’une culture commune dans le respect des droits et de la diversité» [13].

Come viene spiegato nell’ultimo capitolo del libro di Bouchard, l’interculturalismo va di parti passo con la laicità inclusiva, che prevede la separazione tra Stato e religione, aspetto questo di fondamentale importanza nelle società multireligiose. Secondo certi autori [14], al fine di meglio favorire l’interazione sociale, bisognerebbe interdire totalmente i simboli religiosi. Invece, Bouchard non ha ritenuto questa posizione conforme alla Carta del Québec, a quella del Canada e alle disposizioni delle Convenzioni internazionali [15].

Si rimane consapevoli dopo la lettura di questa esposizione che un tale modello di intervento interculturale può essere vissuto nella sua completa pienezza solo dai quebecchesi, perché vi sono implicati radici storiche, tradizioni culturali, interessi linguistici, rivendicazioni politiche e, aspetto non trascurabile, il fatto di vivere la propria vita sul posto, come minoranza rispetto alla maggioranza anglofona e come maggioranza rispetto alle comunità immigrate insediate nella Provincia. Interessanti spunti di riflessione, suscettibili di raggiungere un’ampia cerchia di lettori (trattandosi di una pubblicazione a distribuzione gratuita), si trovano anche nel volume, dedicato all’interculturalismo del Québec, curato da Lomomba Emongo e Bob W. White, docenti presso il Dipartimento di antropologia presso l’Università di Montréal. Questi autori si sono avvalsi dell’apporto di certi di diversi ambiti (antropologia, filosofia, storia, scienze politiche e politica comunitaria) [16].

Immigrati-in-canada

Immigrati in Canada

Perplessità e critiche nei confronti dell’interculturalismo

In ambito canadese non sono mancate le critiche mosse all’interculturalismo, a partire dalla stessa terminologia da usare: interculturalismo oppure interculturalità, intercultura o interculture? La contrapposizione tra interculturalismo e multiculturalismo ha suscitato delle riserve già nel periodo in cui si dibatteva sulla “carta dei valori” (1975). Conviene, quindi, entrare nel cuore di questa disputa.

Il 24 maggio 2011 Jack Jedwab, direttore generale dell’Association d’études canadiennes, ha scritto un articolo intitolato Le mythe du Québec interculturel sulla testata Le devoir [17]. Egli sottopone a una severa critica la convinzione che il Québec favorisca una politica interculturale in maniera diversa rispetto alla politica multiculturale condotta nel resto del Canada [18]. L’impostazione interculturale viene da lui ritenuta più che una realtà un mito (seppure apprezzabile), senza che possa costituire un’alternativa valida per attaccare il modello nazionale. Secondo lui bisognerebbe riuscire a precisare meglio il progetto del Québec e affrontare nella loro complessità i vari aspetti implicati, senza presupporre a priori che gli autori del multiculturalismo si oppongano al dialogo interculturale.

Per Jedwab nel Québec, se la politica praticata fosse veramente interculturale, i contatti tra le comunità immigrate dovrebbero essere più frequenti rispetto al resto del Canada. In realtà gli scambi sono più intensi nelle “multiculturali” Toronto e Vancouver anziché nella “interculturale” città di Montreal. Risulterebbe che, rispetto agli anglofoni, i francofoni sono meno propensi allo scambio con le diverse comunità. A tal scopo vengono citate le indagini condotte da Léger Marketing nel 2008 e nel 2009. Viene anche citata la ricerca del geografo Brian Ray, che mostra come a Montreal, più che a Toronto, la popolazione immigrata sia soggetta a una maggiore concentrazione residenziale (da ritenere un indicatore della maggiore disponibilità agli scambi) [19].

Secondo l’indagine della società Leger Marketing nel 2008 il 90% tra tutti i residenti intervistati (francofoni, anglofoni e allofoni) hanno ritenuto che si debba incoraggiare nei giovani l’instaurazione di contatti con persone originarie di altre culture. Rispetto alla media, la percentuale è risultata molto più bassa tra i francofoni. Inoltre, il 20% dei francofoni contro il 10% dei non francofoni ha ritenuto che i contatti con le altre culture costituissero un pericolo in grado di indebolire la propria cultura.

Jack Jedwab è ritornato, sempre su la testata Le devoir, sulla questione già affrontata in precedenza con l’articolo Le Québec est-il vraiment un État interculturel? Egli ribadisce che è infondato ritenere che il Québec sia più interculturale del resto del Canada, come sostiene Gérard Bouchard nel suo volume del 2012 dedicato all’interculturalismo. A suo avviso Bouchard non spiega cosa sia interculturalismo, ma si limita ad affermare la necessità di superare «le paradigme de la dualité, plaçant au premier rang l’articulation majorité-minorités» [20].

Jedwab arriva a queste conclusioni:

«La population ne met aucune pression sur l’État pour investir dans les échanges. Le gouvernement du Québec offre peu de ressources pour les favoriser […]. Dans les institutions publiques du Québec, la formation interculturelle est très similaire à la formation multiculturelle ailleurs au Canada, mais en français. En regardant ce qui se passe sur le terrain, on reconnaît peu la vision de l’interculturalisme telle qu’articulée par Bouchard. Or il offre peu de preuves quantitatives ou qualitatives pour soutenir la thèse d’un Québec interculturel» [21].

È stato anche sottolineato da alcuni che gli abitanti del Québec, rispetto al resto dei residenti nel Canada, riservano meno spazio ai simboli religiosi. Abbiamo cercato di esporre fedelmente il punto di vista dei sostenitori delle due posizioni e senza la pretesa di dirimere una questione così dibattuta. Ci pare opportuno sottolineare l’accentuazione posta nel Québec sull’interculturalismo e anche la rivendicazione di una uguale sensibilità anche nel Canada non francofono: un dibattito simile non può che destare invidia in Europa dove vengono attaccati i tradizionali valori dell’incontro tra le culture e si considera sempre più l’immigrazione come una minaccia da cui difendersi. Si può infine aggiungere che il valore delle proposte innovative si misura anche dalla capacità di realizzarle concretamente e questo vale tanto per il Québec quanto per il Canada.

Il multiculturalismo secondo alcuni autori degli Stati Uniti

Anche gli Stati Uniti, l’altro Paese del nord America profondamente segnato dall’immigrazione, fanno riferimento alle diverse culture ma in maniera molto diversa, sia rispetto al Canada che all’Unione Europea. Nella nostra analisi prendiamo in considerazione tre autori (Fukuyama, Huntington e Sartori) che, a nostro avviso, sono particolarmente significativi per illustrare la diversa impostazione seguita in quel Paese.

6Francis Fukuyama

Secondo il politologo Francis Fukuyama, i Paesi europei presentano maggiori difficoltà nell’attuazione dei percorsi di integrazione degli immigrati per l’effetto congiunto di fattori etnici e religiosi [22]. Questo autore sottolinea che le nazioni europee si sono costituite attraverso l’incorporazione di una base etnico-nazionale che include anche l’identificazione tra appartenenza nazionale e confessione religiosa, pur vigendo in Europa la separazione tra Chiese e Stato. Da ciò consegue il problematico inserimento di collettività immigrate appartenenti a diversi orizzonti culturali e religiosi. La maggior parte dei Paesi europei tende a considerare il multiculturalismo come una cornice nella quale far coesistere culture differenti, piuttosto che un meccanismo di transizione per favorire l’interazione e il progressivo emergere di uno spazio socio-culturale condiviso.

In Europa, più che negli Stati Uniti, risulta problematica la gestione del pluralismo religioso che comporta anche la disponibilità di spazi pubblici. Per giunta, si è arrivati anche a concedere a gruppi specifici una certa autonomia rispetto alle regole comuni e ai valori essenziali della società liberale, come ad esempio nel Regno Unito a favore dei musulmani per quanto riguarda il diritto matrimoniale e di successione. Pur senza queste deroghe, negli Usa i musulmani hanno maggiore facilità di costruire moschee e aprire scuole.

Fukuyama conclude affermando che «Il fallimento europeo di creare una migliore integrazione dei musulmani è una bomba a orologeria, che certamente provocherà una più decisa reazione dei gruppi populisti e che può persino minacciare la stessa democrazia europea» [23]. Quest’ultima previsione, purtroppo, si sta rivelando di drammatica attualità a seguito dell’imperversare degli atti terroristici di matrice islamica e delle reazioni populiste e nazionaliste di chiusura all’immigrazione. Non si può poi non riconoscere che le nazioni europee, nate non in conseguenza di flussi migratori relativamente recenti, bensì a seguito del consolidamento dei gruppi di popolazioni residenti da secoli nei vari territori, accentuino maggiormente la tradizionale dimensione etnica. Qualcosa di simile avviene per la dimensione religiosa che, anche quando non viene personalmente vissuta, si ritiene funzionale (come tradizione culturale) al rafforzamento dell’unità nazionale.

Tutto questo è attualmente riscontrabile in diversi Paesi europei, dove i partiti politici e i movimenti nazionalisti (e il più delle volte anche xenofobi) stanno dimostrando un vigore prima sconosciuto. Questo andamento, tuttavia, riguarda una parte di popolazione, mentre un’altra, anch’essa non trascurabile, non sarebbe d’accordo a essere inquadrata secondo i termini esposti nel saggio di Fukuyama, al quale opporrebbe il cammino fatto in tema di libertà religiosa a partire dal Rinascimento e la sua codificazione nelle Costituzioni nazionali, nelle Convenzioni del Consiglio d’Europa e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Inoltre, meriterebbe maggiore considerazione il supporto alla costruzione di un Islam europeo interessato a conciliare la scelta di fede con il rispetto della democrazia.

Anche il riferimento al mondo europeo, qualificato come solo formalmente multiculturale (coesistenza senza interazione tra le culture e senza l’opportunità di maturare un minimo comune denominatore) si configura come una cornice troppo stretta, che non è in grado di inquadrare l’intera realtà europea. Un modello così inteso è riferibile in parte al Regno Unito (e forse a qualche altro Paese europeo), ma non a tutti in Italia. Ad esempio, la legge n. 40/1998 (che costituisce la base del vigente Testo Unico sull’Immigrazione) parla di “intercultura”, mentre il modello francese, seppure per altre ragioni, è diametralmente opposto a quello britannico.

Si deve anche aggiungere che la convivenza in Europa non è orientata verso la creazione di un nuovo spazio socio-culturale bensì (e non potrebbe essere diversamente sulla base degli orientamenti costituzionali) verso la fruizione su un piano di uguaglianza di diritti e doveri nell’ambito di una società laica, al cui interno, come attestato dalla giurisprudenza delle singole nazioni e dalle Corti europee, vige un comune orientamento di apertura, salvo particolarità sulle quali si ritornerà. In un continente che nel passato è stato drammaticamente segnato dai contrasti religiosi, si tende ad affermare la laicità dello Stato come una garanzia operativa per l’esercizio della libertà religiosa e culturale. Secondo la Corte costituzionale italiana il concetto di laicità non significa indifferenza dello Stato di fronte alle religioni, ma al contrario costituisce la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo, di cui lo Stato è garante e non un osservatore estraneo od ostile.

7Samuel P. Huntington

Un altro famoso politologo statunitense non ha affermato che la società liberale sia tutt’altro che priva della capacità di integrare al suo interno; però, ha sostenuto che vi sono dei nuovi arrivati che non sono integrabili. Si tratta di Samuel P. Huntington (1927-2008), che nel 1996 ha pubblicato il saggio Lo scontro delle civiltà [24], il cui contenuto è stato anticipato in un articolo apparso con lo stesso titolo sulla rivista Foreigns Affairs [25]. Questo autore, non condividendo la tesi esposta da Fukuyama nel saggio The End of History and the Last Man (1992), ha ravvisato il compimento della storia delle società occidentali nello stato liberale e democratico, ma ha ritenuto che si sviluppano in maniera autonoma diverse civiltà in grado di influenzare gli equilibri di potere e ridurre l’influenza dell’Occidente. Pertanto, i conflitti saranno inconciliabili perché deriveranno dalla diversità delle aree culturali (vengono enumerate otto civiltà, una delle quali è quella occidentale).

Un altro politologo, Myron Weiner (scomparso nel 1999), nel suo The Global Migration Crisis: Challenge to States and Human Rights [26] ha rappresentato gli occidentali come persone che hanno sempre più paura di essere invasi non da eserciti e carri armati bensì dagli immigrati, che parlano un’altra lingua, pregano un altro Dio, appartengono a un’altra cultura, rappresentano il pericolo che mina la loro identità nazionale e genera scontri culturali.

8Giovanni Sartori

Il tema dello scontro di civiltà, in particolare quello tra l’Occidente e l’Islam veicolato dagli immigrati, viene ripreso da un politologo italiano, a lungo docente presso la Columbia University. Si tratta dell’italiano Giovanni Sartori (1924-2017). Egli, nel saggio Pluralismo, multiculturalismo e estranei, ha ritenuto che l’immigrato islamico sia il più ‘distante’, il più ‘estraneo’ e quindi quello più difficilmente integrabile [27]. Questa posizione trova conferma in diverse sue citazioni:

«L’Europa è sotto assedio e oramai accoglie immigranti soprattutto perché non sa come fermarli [… ] Gli immigrati sono di natura diversissima, la loro integrazione non può essere gestita con una ricetta unica. […] È possibile che l’immigrato estraneo religiosamente o etnicamente possa essere integrato come l’immigrato diverso soltanto per lingua e tradizione? No, e questa l’impossibilità aumenta quando l’immigrato appartiene a una cultura fideistica o teocratica che non separa lo Stato civile dallo Stato religioso e che riassorbe il cittadino nel credente. […] La cittadinanza concessa a immigrati inintegrabili non porta a integrazione, ma a disintegrazione» [28].

Seppure con argomentazioni differenti, le posizioni di questi autori sono convergenti nell’affermare il rapporto difficile (che rasenta l’impossibilità) tra immigrazione (almeno nella sua componente islamica) e integrazione in una democrazia occidentale. Se queste conclusioni fossero valide, l’Europa sarebbe sull’orlo di un baratro, ma le conseguenze da trarre possono essere diverse come vedremo argomentando sulla situazione europea e come induce a ritenere la positiva esperienza canadese.

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Immigrati a Montreal

In questo saggio abbiamo cercato di essere osservatori esterni delle teorie prima riportate, anche se in qualche modo siamo coinvolti, o come docenti nel Québec o come operatori sociali in Italia (dove negli ultimi tempi il prof. Sartori ha ampiamente diffuso il suo pensiero), e con questa volontà di equilibrio cerchiamo ora di comparare l’esperienza europea con quella statunitense e ancora di più con quella canadese e quebecchese.

Gli Stati membri dell’Unione Europea sono andati riflettendo sul modello d’integrazione specialmente a partire dagli anni ’70, quando, dopo la grande crisi petrolifera (1973), la presenza immigrata aveva iniziato a costituire un problema, specialmente nelle fasi di bassa congiuntura economica, mentre una consistente presenza si vedrà consolidata nei precedenti due decenni, caratterizzati da un eccezionale dinamismo di sviluppo. Da allora si pensò di adottare politiche migratorie selettive e decidere annualmente quanti immigrati accogliere, come selezionarli e come inserirli nella società, tenendo conto che, da mute e servizievoli, le comunità immigrate iniziavano a mostrarsi portatrici di specifiche esigenze, non solo individuali ma anche collettive.

I modelli di integrazione proposti in quegli anni sono stati sostanzialmente tre: quello anglosassone del multiculturalismo, quello francese dell’assimilazione e quello tedesco della rotazione. Le critiche nei confronti di tali modelli, che l’esperienza fatta ha portato a ritenere fondate, non devono impedire di riconoscere quanto vi è stato di positivo in ciascuno di essi, valorizzabile pertanto, anche nella fase attuale che, però, è chiamata ad attuare consistenti cambiamenti.

Il multiculturalismo comporta il rischio di promuovere delle realtà parallele tra autoctoni e immigrati, delle vite parallele, sottolineando anche l’esigenza di lasciare un ragionevole spazio di espressione delle specificità di cui le comunità immigrate sono portatrici. La sua caratteristica fondamentale è l’accettazione e il rispetto delle differenze, mentre lo è di meno il loro coordinamento dinamico. Abbiamo visto prima che qualche autore americano ha mosso critiche al multiculturalismo praticato nel Regno Unito per l’attribuzione di spazi giuridici autonomi a comunità religiose.

L’assimilazionismo riflette la tendenza dei cittadini, assuefatti a strutture statali forti anche per quanto concerne le espressioni culturali e religiose, con difficoltà a distinguere gli ambiti e i momenti in cui lo Stato si deve fare da parte per non invadere la privacy dei singoli e l’agibilità delle loro associazioni [29]. La caratteristica principale di questo modello è l’uniformità, che da un lato evidenzia il valore di identificarsi con la società che accoglie e, dall’altro, può tradursi in una rigidità che non facilita l’integrazione (specialmente delle seconde generazioni). Questa accentuazione, vista nei suoi aspetti positivi, induce a riflettere, sull’anima di un popolo e di una nazione, sulla sua storia, sulle sue tradizioni e sui suoi valori essenziali proposti in norme fondamentali che anche gli immigrati, come nuovi cittadini del posto, sono chiamati a rispettare, senza che basti la mera acquisizione della cittadinanza del luogo. Ma quanto questa tendenza si traduce in separatezza ed esclusione, il giudizio non può essere positivo.

Il modello tedesco della rotazione, avviato negli anni ’50, portava a considerare gli immigrati lavoratori di passaggio (Gastarbeiter). Non mancava affatto la disponibilità a farsi carico delle loro specifiche esigenze linguistiche (anche con l’insegnamento della lingua madre) nella prospettiva che i loro figli dovessero rimpatriare (Germania non si considerava ancora un Paese di immigrazione). La presenza di 9 milioni di stranieri (e di altri milioni di stranieri ormai diventati cittadini tedeschi) ha dimostrato quanto non fosse realistica questa impostazione, poi radicalmente abbandonata a partire dagli anni 2000. Rimane, tuttavia, valida l’attenzione dedicata alle esigenze linguistico-culturali delle comunità immigrate, una ricchezza da salvaguardare anche nella prospettiva di un inserimento stabile e salvo restando l’impegno all’insegnamento della lingua del posto (che la Germania, peraltro, sta promuovendo egregiamente) [30].

10Questi tre modelli devono considerarsi di natura storica. Nessuno di essi viene più praticato in Europa come avveniva mezzo secolo fa e in ciascuno di essi si riscontrano elementi positivi desunti dagli altri modelli ed elementi aggiuntivi a tutte le tre, non solo a seguito delle delusioni nel frattempo conosciute ma anche in considerazione delle nuove esigenze emerse nell’evoluzione della presenza immigrata. In più, si è verificato un fatto nuovo di estrema importanza. L’Unione Europea, che inizialmente non aveva alcuna competenza specifica per quanto riguarda l’immigrazione proveniente dai Paesi Terzi, ha acquisito ora ampi (seppure non esclusivi) poteri, in grado di incidere profondamente sul percorso di integrazione: ad esempio, per quanto riguarda i ricongiungimenti familiari, la garanzia del soggiorno dopo un certo numero di anni di permanenza, il divieto di discriminazioni nell’accesso alle prestazioni socio-culturali, l’occupabilità in tutti i settori lavorativi (incluso quello del pubblico impiego seppure con alcune eccezioni), il rispetto della libertà personale (incluse la scelta e pratica religiosa) e così via.

L’istituto della libera circolazione (la realizzazione più garantista in tema di mobilità umana finora realizzata nel mondo), esteso da tempo ai cittadini di tutti gli Stati membri, ha rappresentato il modello di cui ispirarsi per concedere anche ai lavoratori non comunitari maggiori diritti e una più ampia tutela [31]. A prescindere dal’appellativo con il quale lo si voglia qualificare, il modello verso il quale attualmente ci si orienta in Europa riflette la necessità di uno scambio interculturale che, come giustamente è stato più volte osservato, sia capace di unire senza confondere (rispettando, quindi, anche le culture di provenienza) e di distinguere senza separare (rispettando altresì i valori ritenuti essenziali dalla tradizione dei Paesi di accoglienza) e anche sanciti dalle Costituzioni nazionali, dalla Carta dei diritti dei cittadini europei (Carta di Nizza) e dalle Convenzioni internazionali. Questi valori sono continuamente attualizzati dalla giurisprudenza costituzionale dei singoli Stati membri, della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte Europea dei Diritti Umani [32].

Sono diversi gli indicatori che inducono a ritenere che l’orientamento seguito in prevalenza negli Stati membri dell’UE, seppure con diverse accentuazioni, sia quello più vicino all’esperienza canadese e quebecchese, con particolare riferimento alle dimensioni interculturali. Bisogna però aggiungere che l’integrazione degli immigrati, per quanto formalmente proposta dalle leggi nazionali e dalla normativa dell’Unione Europea, stenta ad essere condivisa dalla società e si ripetono in misura crescente gli atteggiamenti, i comportamenti e perfino le leggi di ripulsa. Si assiste a preoccupanti rigurgiti di nazionalismo, xenofobia e razzismo in tutta Europa, sui quali senz’altro stanno influendo, in un contesto economico e occupazionale non brillante, l’aumentato arrivo di richiedenti asilo e i migranti economici.

Gli anni 2014-2017 sono stati anni di difficile gestione sul versante della mobilità per effetto della rovinosa e lunga guerra civile in Siria e per la tormentata situazione di molti Paesi africani del Sud Sahara e anche per l’incremento di attentati terroristici di matrice islamica [33]. Alle prospettive aperte a una piena integrazione, alle buone leggi e alla schiera di volontari che si adoperano per realizzarla si oppongono partiti e movimenti culturali, sorretti da un gran seguito di cittadini, che con fatica stento sopportano gli immigrati già insediati e sono contrari ai nuovi arrivi non solo di migranti economici ma anche di richiedenti asilo. La situazione è quanto mai problematica e poco si pensa all’esperienza che nel passato gli europei hanno vissuto come migranti (e che in parte ancora vivono).

Una cosa è certa: l’immigrazione continuerà a essere necessaria in Europa per ragioni innanzi tutto demografiche, mentre l’apertura ai richiedenti asilo è dovuta per motivi umanitari. Sono in gioco gli aspetti più significativi della tradizione occidentale: il rispetto dei diritti umani universali, il cosmopolitismo che ha caratterizzato la moderna storia europea e il messaggio delle comunità ecclesiali. Sussiste, senz’altro, un divario tra questo orientamento aperto e la situazione di fatto e l’interculturalismo è, per così dire, la cattiva coscienza di ciò che non è stato fatto e la volontà di recuperare i ritardi sul piano sociale e religioso. Una normativa realistica non necessariamente deve essere basata solo su una serie di chiusure. Consola il fatto che Paesi come il Canada ricordino all’Europa la possibilità di continuare ad attuare i grandi contenuti umanistici della tradizione europea.

Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
Note
[1] Cfr. il sito del Governo del Québec: http://www.canadainternational.gc.ca/italy-italie/about-a_propos/culture.aspx?lang=ita (consultato il 16 ottobre 2018).
[2] Cfr. https://www.intercultura.it/storie/benvenuti-in-quebec-/parentUrl:1/ (consultato il 16 ottobre 2018).
[3] Inizialmente il multiculturalismo non fu visto di buon grado dalla comunità italiana, che poi invece imparò a farvi ricorso per portare avanti le sue rivendicazioni: cfr. http://quebec.huffingtonpost.ca/doudou-sow/le-dialogue-interculturel-une-necessite-pour-le-quebec_b_5785038.html (consultato il 16 ottobre 2018).
[4] Cfr. il sito del Governo del Québec: http://www.education.gouv.qc.ca/professionnels/aide-et-soutien/immigration-et-education-interculturelle/ (consultato il 16 ottobre 2018).
[5] Cfr. Ernesto Milani, L’emigrazione lombarda nel Nord America, cfr. www.lombardinelmondo.org (consultato il 16 ottobre 2018).
[6] Questo è il pensiero dei promotori dell’interculturalismo: cfr. Gérard Bouchard, Yvan Lamonde, La Nation dans tous ses États. Le Québec en comparaison, Éd. L’Harmattan, Paris/Montréal, 1997.
[7] Il caso di Herouxville trova analogia anche attualmente nel contesto europeo dove, nonostante gli orientamenti legislativi aperti, si trovano contesti territoriali meno disposti all’accoglienza degli immigrati.
[8] Cfr. Luca Codignola, Il buonsenso interculturale in Quebec, intervento del 29 maggio 2008 sulla testata L’Occidentale. Per questo Autore non sono le leggi che si rifanno a princìpi rigidi a risolvere i problemi, ma il buon senso che in pratica permette già di risolvere i problemi: cfr. https://www.loccidentale.it/articoli/51960/il-buonsenso-interculturale-in-quebec (consultato il 16 ottobre 2018).
[9] Gérard Bouchard, L’interculturalisme: un point de vue québécois, Ed. Le Boréal, Montréal, 2012.
[10] Ibidem: 22.
[11] Questo è il pensiero dei promotori dell’interculturalismo: cfr. Gérard Bouchard, Yvan Lamonde, La Nation dans tous ses États. Le Québec en comparaison, Éd. L’Harmattan, Paris/Montréal, 1997.
[12] G. Bouchard, L’interculturalisme…cit.: 233.
[13] Ibidem: 51.
[14] Bruno Demers, Yvan Lamonde, Quelle laïcité ?, Médiaspaul, Montréal, 2013.
[15] Nel Québec è stata sollevata la questione di togliere il Crocifisso dall’Assemblea nazionale del Québec, così come in Italia la proposta di rimozione (che però ha avuto un seguito negativo a livello giudiziario) ha riguardato la sua rimozione dalle aule delle scuole e dei tribunali.
[16] Lomomba Emongo, Bob W. White, L’interculturel au Québec, Rencontres historiques et enjeux politiques, Presses Universitaires, Collection Libre Accès, Montréal, 2014.
[1]7 Cfr. http://www.ledevoir.com/societe/actualites-en-societe/323874/libre-opinion-le-mythe-du-quebec-interculturel (consultato il 16 ottobre 2018).
[18] Cfr. Sophie-Hélène Goulet, “Gérard Bouchard, L’interculturalisme. Un point de vue québécois”, Questions de communication, 25 (2014): 393-394, cfr. https://journals.openedition.org/questionsdecommunication/9133 (consultato il 16 ottobre 2018).
[19]  Ad esempio, è consistente la concentrazione degli italiani nel quartiere residenziale di Saint-Léonard di Montréal, arrivati a incidere per circa il 40%.
[20] Cfr. http://www.ledevoir.com/politique/quebec/432789/le-quebec-est-il-vraiment-un-etat-interculturel (consultato il 16 ottobre 2018).
[21] Cfr. http://www.ledevoir.com/politique/quebec/432789/le-quebec-est-il-vraiment-un-etat-interculturel (consultato il 16 ottobre 2018).
[22] Cfr. F. Fukuyama, Identità e migrazione, “Atlantide”, 2/2007.
[23] Ibidem.
[24] Samuel P. Huntington, The clash of civilizations and the remaking of world order, Simon & Schuster, New York, 1996 (trad. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, traduzione di Sergio Minucci, Garzanti, Milano, 2000.
[25] Samuel P. Huntington, “The clash of civilizations?”, in Foreign Affairs, vol. 72, n. 3(1993): 22–49.
[26] Myron Weiner, The Global Migration Crisis: Challenge to States and Human Rights, HarperCollinsCollege Publishers, New York, 1995.
[27] Cfr. Giovanni Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Rizzoli, Milano, 2000.
[28] Ibidem: 96-97.
[29] Di questa impostazione fece le spese la comunità italiana in Tunisia, quando questo Paese era diventato un protettorato francese; cfr. F. Pittau, V. Rey, “L’emigrazione italiana in Tunisia”, in Mediterraneo: geopolitica, migrazioni e sviluppo. Scenari attuali, dati statistici e prospettive, Edizioni Idos – Circolo di Studi Diplomatici, Roma, 2015: 145-152.
[30] Ambasciata di Germania e Caritas Italia, Da emigrati a cittadini: esperienze in Germania e in Italia, Edizioni Idos, Roma, 2008.
[31] Cfr. B. Cocia e F. Pittau (a cura di), La dimensione sociale dell’Europa. Dal Trattato di Roma ad oggi, Idos & Istituto di Studi Politici ʻS. Pio Vʼ, Edizioni Idos, Roma, 2017.
[32] In Italia, come in precedenza ricordato, l’intercultura viene citata nella legge n. 40 del 1998, che costituisce la base del Testo Unico sull’Immigrazione approvato con Decreto legislativo n. 286 del 1986. Dopo l’entrata in vigore di questa normativa è stata ampiamente sperimentata la figura professionale del mediatore interculturale. Per l’esperienza fatta a Roma, cfr. Franco Pittau (a cura di), Forum per l’intercultura: 18 anni di esperienza, Caritas di Roma, Edizioni Idos, Roma, 2008.
[33] Su questi aspetti relativi alla situazione italiana e anche a quella europea, dati aggiornati vengono riportati nel rapporto annuale Dossier Statistico Immigrazione, pubblicato presso le Edizioni Idos.
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Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino al 2917, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Studi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico. è anche direttore responsabile della rivista Affari Sociali Internazionali, prima edita da Franco Angeli con la cura redazionale del Ministero degli Affari Esteri – Direzione generale degli italiani nel mondo, e ora pubblicata dal Centro studi e ricerche IDOS.
Nadia-Elena Vặcaru, docente presso la Facoltà di teologia e di science religiose dell’Università Laval (Québec, Canada), nel 2009 ha conseguito il dottorato in Geografia (presso l’Università “Alexandru Ioan Cuza” di Iasi, Romania) e nel 2013 il Dottorato in Teologia (presso l’Università di Bucarest, in Romania). Le ricerche attuali, condotte in singoli progetti o in collaborazione con gruppi dei settori della teologia, filosofia, sociologia e geografia, sono incentrate sull’evidenziazione, da una prospettiva interdisciplinare, del ruolo della Dottrina sociale della Chiesa nella società contemporanea. Tra i temi privilegiati nei suoi studi sono: la pastorale e l’etica sociale, le migrazioni contemporanee, l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati, il patrimonio religioso.

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