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In viaggio, senza illusioni, sui confini tra coscienza di luogo e pesantezza del mondo

 

Cirese a Nuoro, 1980

Cirese a Nuoro, ottobre 1990

il centro in periferia

di Pietro Clemente

Cirese 100

Con il ricordo di Paolo Piquereddu dedicato ai transiti di Alberto Cirese per Nuoro, in particolare in occasione delle iniziative prese dall’Istituto Superiore Regionale Etnografico (ISRE), si chiude l’omaggio per il centenario della nascita dell’antropologo che ha fondato una nuova linea di studi in Italia. Molti degli omaggi e dei ricordi sono stati dedicati a come Cirese ha coniugato il tema de Il centro in periferia, tema che ha descritto con frasi come ‘tra cosmo e campanile’ o ‘con i piedi nel borgo e la testa nel mondo’, o ancora ‘con il cuore nel borgo e la mente nel mondo’. Nel ricordo di Paolo Piquereddu, Nuoro è una città che, anche grazie all’impegno dell’ISRE, cercava con la cultura di porre il centro in periferia, riuscendo spesso nella difficile impresa.

Per la Sardegna Nuoro è una sorta di capitale ‘morale’ perché sta nel cuore della Sardegna pastorale, della Sardegna dei banditi e dei sequestri e della Sardegna delle grandi narrazioni, da Grazia Deledda, a Salvatore Satta e Marcello Fois e nel mondo giuridico a Antonio Pigliaru. Nuoro, centro del mondo anche per me, perché ci sono nato, pur avendola vissuta solo per pochi mesi. La Sardegna anche di tante voci esterne che hanno scelto la Barbagia come cuore: da Cagnetta a De Seta, per ricordare quelli più lontani per avvicinarci poi a Cirese a Nuoro. Paolo Piquereddu ha raccontato il rapporto di Cirese con Nuoro attraverso delle immagini che ci rendono presente il ricordo della sua vivacità, della sua capacità di dialogo, della sua disponibilità all’ascolto, della sua passione e polemica sui grandi temi di ricerca. E così – continuando a ricordarlo anche al di là dei compleanni – speriamo che questa rassegna di ricordi affettuosi e riconoscenti serva anche a fare ciò ch’egli auspicava si facesse per Lévi Strauss. Infatti in occasione dei suoi cento anni che Levi Strauss festeggiò da vivo, Cirese gli dedicò uno scritto di bilancio:

(A Lévi Strauss) forse sarebbe fruttuoso prestare di nuovo scientifica attenzione. Agli studiosi si porta onore studiandoli, e studiando.

Così sia anche per AMC.

Il tempo del PNRR

Sarà certo deluso chi ha pensato (come me anche se brevemente) che il tempo del PNRR avrebbe visto emergere la coscienza di luogo e una programmazione basata sull’idea dello sviluppo ‘mirato’ ai luoghi, alle località, ai paesi delle Alpi, degli Appennini, alle isole e alle aree interne e marginali.

Dopo la pandemia si era creato un clima di attesa per forme diverse di investimento. Sembrava perfino che non si potesse uscire altrimenti dallo scenario di concentrazioni urbane della vita e dello sviluppo che era risultato congeniale alla diffusione del virus.

Mi sembra ormai evidente che le forze politiche non sono interessate a investire sulle zone interne anche a causa del loro scarso peso elettorale e che il dover mostrare all’Europa dati quantitativi certi sulle azioni in corso, finirà per favorire una gestione ultracentralizzata del PNRR. Cerco tra le pagine virtuali della rivista Dislivelli e nel sito di UNCEM (Unione Nazionale dei Comuni delle comunità e degli Enti montani), in genere molto positivi, tracce che smentiscano questa mia percezione. Mi pare invano, anche se nessuno giustamente si dà per vinto.

In verità dal basso si vedono esperienze positive. Segni di qualcosa di più che non la sola resistenza. Nuclei che visti in una rete sembrano potere diventare forze. Ma non è difficile che queste possibili concrezioni sociali alternative sul piano dello sviluppo locale vengano contrastate e spente, finiscano per essere casi isolati, travolti dalla forza dell’investimento centrale in direzioni diverse da quelle finalizzate ai luoghi.

Mimmo Lucano

Mimmo Lucano

Mimmo Lucano

Il processo a Mimmo Lucano con il suo esito sorprendente ha dato un colpo durissimo alla possibilità di originali soluzioni creative che nascano usando il mondo migratorio come energia trainante e non come spazio concentrazionario. Che la Corte abbia aumentato la pena rispetto al Pubblico Ministero, in un momento in cui c’è una grande discussione su tutta la sfera giuridica degli atti fatti dai sindaci, è stato davvero un cattivo segnale. Oggi, quasi ogni sindaco è portato a scostarsi dalla stretta esecuzione della legge per agire in tempo, per realizzare attività socialmente rilevanti. La sentenza ha forse qualche analogia con le scelte economiche centraliste, perché scoraggia qualsiasi possibile innovazione amministrativa legata ai contesti locali. Anche la fine degli Sprar sottrae possibilità di iniziativa sociale, come Salvini e la Lega volevano. Sembra che su questo terreno è ancora la Lega ad avere in mano le carte. Attaccando la ministra degli Interni, mettendo al centro la minaccia degli sbarchi, tiene accesa una propaganda antimigratoria, e blocca ogni possibile avvio di legge sui diritti dei migranti e sulla cittadinanza.

Nella cultura dello sviluppo delle zone interne i migranti non hanno una parte significativa. Non sono entrati nell’orizzonte dei progetti locali. Talora se ne parla temendone la problematicità, più che immaginandoli come risorsa. Tra i piccoli paesi che ho seguito è solo Monticchiello ad avere ‘adottato’, con la sua Cooperativa del Teatro Povero, 8 ragazzi africani per inserirli nel mondo del lavoro.

Ecomuseo della Pastorizia, Pietraporciana (ph. Pietro Clemente)

Ecomuseo della Pastorizia, Pietraporciana (ph. Pietro Clemente)

In viaggio

È girando l’Italia, ma anche leggendo, ascoltando, cercando sul web che appaiono quei grumi di futuro che sembrano apparire localmente in molte parti d’Italia, e che hanno anche riempito le pagine de Il centro in periferia. Qui troverete una recensione di Silvia Mascheroni del libro di Francesco Erbani. In giro per l’Italia Erbani vede e racconta in modo inedito fin dal titolo, gli spazi di questa Italia che crea nuovi modi di vivere. Il libro Dove ricomincia la città. L’Italia delle periferie. Reportage dai luoghi in cui si costruisce un Paese diverso, dell’editore Manni, fa seguito ad un altro libro dello stesso Erbani di viaggio e di scoperta delle novità per lo più taciute di casa nostra: L’Italia che non ci sta. Viaggio in un paese diverso, Einaudi, 2019.

Erbani propone un giornalismo che si fa racconto, ma al tempo stesso anche etnografia e comunicazione di mondi locali che, per lo più vengono ignorati, e che scompaiono nelle comunicazioni di massa, mentre sono lo stato nascente di qualcosa d’altro cui guardare.

Durante l’estate ho fatto un po’ come lui, cercando incontri ed esperienze. Da tempo volevo visitare l’Ecomuseo della pastorizia a Pietraporciana. Le pecore erano in alpeggio e non ho potuto vederle, ma c’era il fondatore a raccontarci la sua vicenda, e c’era il Museo, cuore storico dell’ecomuseo, a parlare della ripresa di allevamento della pecora sambucana, della lenta ma innovativa crescita di un indotto aperto ai giovani, della cooperazione per la produzione locale del formaggio e di altre valorizzazioni gastronomiche della pecora. Le valli del cuneese – spesso con paesi martiri del passaggio nazista o protagonisti della Resistenza – danno un forte accento alla centralità della natura e delle Alpi nella storia del vivere e abitare quelle terre. Si aprono a paesaggi imprevedibili, sia per conformazione che per ricchezza di storia, imprevedibili a causa delle semplificazioni cui ormai siamo abituati da decenni, che ci fanno pensare alle zone interne come zone di desolazione e non di ricchezza.

Comunità Nazareth, Fondazione Don Primo Bonass (ph. Pietro Clemente)

Comunità Nazareth, Fondazione Don Primo Bonassi (ph. Pietro Clemente)

Vicino a Bergamo ho cercato e trovato, invece, uno dei nuclei che mi avevano colpito di più in un volume che ha visto il grande volontariato bergamasco come protagonista: Lascio in eredità me stesso alla terra. Fare memoria tra volontariato e patrimonio culturale, a cura dell’associazione Patrimonio di Storie (Simona Bodo, Silvia Mascheroni, Maria Grazia Panigada), Masso delle Fate edizioni, Bergamo, 2021 [1]. Il mio obiettivo era vedere dal vero le opere che il pittore francese Arcabas (Jean Marie Pirot 1926-2018) ha creato per la chiesa realizzata nello spazio della Associazione AEPER, Comunità Nazareth, Fondazione Don Primo Bonassi. Nel libro Arcabas, mi aveva colpito per la capacità di racconto, la sua passione per il colore, l’umanizzazione di tutto il ciclo pittorico legato a immagini della storia sacra, lo stile con echi del fumetto ma anche da pittura pre-raffaelita. E tutto questo ha continuato a colpirmi nella visita diretta, dove ho trovato anche altre opere di Arcabas, che si era fortemente legato alla comunità di accoglienza. Tutto questo ho ritrovato in Via Papa Giovanni XXIII, 45/a, a Torre de’ Roveri, a pochi chilometri da Bergamo. AEPER significa Animazione, educazione, prevenzione e reinserimento. Il loro spazio – che comprende la chiesa – è dedicato da decenni a persone che hanno bisogno di attenzione, di cura, che vengono aiutati ad autogestirsi. Sono migranti, bambini, marginali, famiglie. Con una esperienza importante anche in forma di Cooperativa agricola, la Cooperativa La Pèta Società Agricola Via Pèta, 3 24010 Costa Serina, Bergamo.

Comunità Nazareth, Fondazione Don Primo Bonassi, Opera di Arcabas (ph. Pietro Clemente)

Comunità Nazareth, Fondazione Don Primo Bonassi, Opera di Arcabas (ph. Pietro Clemente)

Questo spazio mi è sembrato un luogo di amore e di dedizione unico, dove si sfida ogni giorno il potere laico e religioso, per poter accogliere ed aiutare. Un luogo che si prenota per dare asilo a profughi e non per fare muri. La forza del volontariato cattolico è straordinaria, vista in questa esperienza: vite dedicate agli altri, capacità imprenditoriali applicate alla solidarietà, forza di autogestione per non dipendere da altri nella pratica di accoglienza. Chi non è credente viene colpito dal fatto che i credenti siano in prima persona più responsabili dei laici. Non delegano, agiscono e se è il caso pagano di persona. Coniugano un cristianesimo che – se l’avessi visto praticato più spesso lungo la mia vita – forse avrei condiviso visceralmente. Il movimento per Riabitare l’Italia tiene poco conto dei nodi dell’accoglienza cattolica che in Italia sono molto forti soprattutto in tante aree del Sud, ma anche del Nord, e che hanno una grande potenzialità di confluire in progetti del riabitare le zone abbandonate.

Nel corso della Scuola di paesaggio “Emilio Sereni” organizzata dall’Istituto Alcide Cervi-Biblioteca Archivio Sereni, alla sede di Gattatico (luogo anche della casa Museo Cervi) dedicata a ‘Il paesaggio delle aree interne’, abbiamo incontrato la Comunità di Massenzatico [2] nel Delta del Po. Una larga impresa agricola collettiva, basata su antichi statuti comunitari, riusati al fine di una gestione comunitaria e democratica della terra. Una esperienza davvero imprevedibile, contrastata o almeno ignorata da Stato ed Ente di bonifica del Delta e dalle amministrazioni pubbliche, impegnate in quel processo di cancellazione della particolarità e di negazione della possibilità di forme diverse di gestione e di produzione. Massenzatico ha macchine, produce pomodori in quantità gigantesche, rifornisce la COOP, non è facile far finta che non ci sia (si veda http://www.uominidimassenzatica.it/). Eppure ci si prova in ogni modo. Forse per il timore che una esperienza originale possa essere contagiosa.

Massenzatica

Massenzatica

Quest’anno il libro di Sereni sulla Storia del paesaggio agrario italiano compie 60 anni ed è oggetto di studi e approfondimenti speciali. A Gattatico nell’ultimo giorno della Scuola di Paesaggio c’è stato un confronto assai interessante per la nostra prospettiva del Riabitare l’Italia tra due aspetti della riflessione sulle zone interne. L’approccio di Alberto Magnaghi che presentava ai corsisti il suo libro Il principio territoriale e Sabrina Lucatelli, che parlava della Strategia Nazionale Aree Interne e del lavoro dell’Associazione Riabitare l’Italia. Si può dire che si è trattato di un confronto tra visione e praticità, tra sguardo lontano e sguardo ravvicinato, tra disegni di istituzioni di una utopia possibile e intrecci di sindaci, consulenti, esperienze, iniziative in corso. Due facce di un mondo che non possiamo tenere separate. Che avrebbero meritato di trovare un punto di mediazione utile per chi si batte su queste frontiere e vuole che possa essere sia una visione che una ricca e dinamica esperienza del presente.

Altri racconti

Molti altri scritti che si leggono nelle pagine che seguono e danno vita a questo numero de Il centro in periferia possono essere letti come racconti di viaggio e di esperienza. In modi e con stili diversi. Quasi un racconto di vita è quello di Adriani: un viaggio nel passato che diventa metafora del presente migratorio; mentre quello di Atzori è piuttosto una visita guidata sul territorio e sul senso che i musei hanno in esso, quello di Colazzo crea un percorso visivo forte e drammatico nel mondo degli ulivi salentini colpiti da un virus che distrugge secoli di cura, ma suggerisce nuove ipotesi di ‘colpa’, quasi come un giallo: è la xilella o siamo noi i colpevoli? In forma di aggio avviene il viaggio in Marmilla di Piga e Pisu che ha al centro il tema della rinascita, un tema ciclico nell’isola lungo tutto il Novecento. Rinascita ha voluto significare un diverso sviluppo, la fine dell’emigrazione, ma oggi vuol dire anche risposta alla crisi demografica e alle devastazioni degli incendi. Vuol dire ripartire dalle zone interne, ovvero dal fallimento storico della Rinascita post-bellica.

territori-marginali-copertinaIl racconto di Berardi, Copertino, Santoro è invece un meta-racconto, perché restituisce il clima di un convegno di antropologia e di un panel mirato sulle zone interne, in cui le critiche arrivano a criticare perfino la definizione di zona interna. Un piccolo coro di voci di antropologi, giovani in gran parte, che segnano una piccola svolta nella ricerca del settore, una nuova attenzione, sia nella critica delle retoriche, sia nella accoglienza a nuove etnografie. Anche il testo di Molinari è un racconto di viaggio, ma insieme racconto di una scuola estiva in Spagna, scuola di ripopolamento, anch’esso un coro di voci. Dal testo di Mascheroni siamo partiti, perché recensisce il viaggio di Francesco Erbani ai confini delle città. Lo scritto di Alessandro Triulzi è anch’esso il racconto di un evento: la sezione del Premio Saverio Tutino, dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, dedicata ai diari multimediali dei migranti (DIMMI), racconta di un paese – il paese del Diario – come si legge all’ingresso di esso, o meglio ‘città del diario’, nel senso di capitale delle scritture autobiografiche. E al tempo stesso racconta le storie di tanti immigrati che cercano di trovare ascolto, di dare immagini diverse da quelle della stampa e del cattivo giornalismo che li circonda, intrecci che sono ormai parte della nostra vita, parte ancora invisibile. La presenza delle loro testimonianze, in forma di libro, è la modalità simbolica di una cittadinanza di fatto, che ancora non lo è di diritto. Triulzi racconta anche il volontariato che accoglie e crea strumenti di emancipazione e di capacità di orientamento per questi nuovi protagonisti dell’Europa contemporanea.

Mentre scriviamo esce Territori marginali. Oscillazioni tra interno e costa, a cura di S. Lanteri, D. Simoni, V. R. Zucca, edizioni Lettera Ventidue, Siracusa. Mirato ai nessi tra interno e costa, nasce anch’esso in parte da un viaggio di studio realizzato a Solanas, nell’area della città Metropolitana di Cagliari, promosso dal Politecnico di Torino e da quello di Milano, nell’ambito della formazione alla progettazione territoriale. Un testo ricco di vari livelli di sguardo, decisamente interdisciplinare, al quale ho contribuito anche io, confluendo in uno stage localizzato in una delle spiagge più belle della costa sud-orientale sarda, e facendo ricorso alla mia memoria di sardo vissuto intensamente nell’isola nel secolo scorso dal 1942 al 1974 (e poi a distanza).

Giovanna Serra davanti casa Lussu

Giovanna Serra davanti casa Lussu

Zia Giovanna

Anche gli ultimi due testi dell’indice (Tiragallo, Da Re) sono racconti del lungo viaggio della signora Giovanna Serri, morta di recente, a 95 anni ad Armungia (Il paese di Emilio Lussu). Per noi Giovanna, o Zia Giovanna, in segno di rispetto. Nel viaggio che ho fatto nell’estate e che ho sommariamente descritto, come in quelli che tanti altri hanno raccontato di prima o di seconda mano, spesso il punto di appoggio sono le singole persone. L’ecomuseo della pastorizia è incorporato nella storia del suo fondatore o ispiratore, che lo ha anche fatto crescere e disseminare. Nella storia della Comunità di Nazaret, vicino a Bergamo, c’è una genealogia di storie di fondatori che hanno assunto il mondo sulle loro spalle, fino all’interlocutore che ci guida e racconta, già sindaco, ora presidente. La storia è fatta di queste persone, che assumono e incorporano nella loro vita altre storie, tante responsabilità, capacità di gestione e di accoglienza, di inventiva e di sacrificio. Per cui dalla loro semina nascono buone spighe di grano. Giovanna Serri faceva parte di questo mondo delle persone che assumono la storia sulle loro spalle in modo suo proprio, originale

(ne ho scritto su face book: https://www.facebook.com/pietro.clemente.79).

Giovanna Serri al telaio

Giovanna Serri al telaio

Donna che ha lavorato tutta la vita, che ha sofferto gravi dolori negli affetti più cari, Zia Giovanna è stata custode di Casa Lussu, curandola e rispettandola per tutta la vita in attesa dei vari ritorni di famiglia. Ma finita la generazione antica ha aspettato, paziente come Penelope, il tempo del ritorno di quella ulteriore. Chi l’avrebbe mai immaginato che aspettando il tempo dei nipoti di Zio Emilio (come lei lo chiamava) avrebbe potuto trasmettere il suo sapere di tessitrice insieme tradizionale e originale a Tommaso, nipote di Emilio, figlio di suo figlio, e alla sua stessa nipote Barbara, figlia di sua figlia. Due cittadini di ritorno, compagni di vita, che hanno scelto di cambiare la loro esistenza e che si affidano per farlo al ‘know how’ di Giovanna. Si affidano al sapere della tessitrice, che è anche conoscenza del paese, delle memorie di famiglia, dei luoghi, che è ‘coscienza di luogo’. Casa Lussu è, a suo modo, un tempio della coscienza di luogo, denso di storia del Novecento ora rinnovata. Forse Giovanna lo aveva previsto in uno dei suoi sogni densi di pronostici e di segnali che amava raccontare. Da Casa Lussu e dalla capacità di Giovanna di trasmettere l’arte del tessere a Tommaso e Barbara, tessitori inediti e imprevisti, nasce anche il premio del 2016 ricevuto dalla Associazione Bianchi Bandinelli a casa Lussu come esempio di tutela della tradizione.

Giovanna Serri e la nipote Barbara

Giovanna Serri e la nipote Barbara

Fatto sta che Giovanna, come raccontano Tiragallo e Da Re, era una di quelle ‘Maestre’ di saperi dell’artigianato e della vita, della pazienza e della memoria, che richiamano al proverbio africano che dice: «Quando muore un anziano è come se bruciasse una biblioteca». Formidabile metafora – benché centrato sulla scrittura – dei saperi nelle culture prevalentemente orali è stato coniato da Amadou Hampate Ba, un celebre scrittore del Mali vissuto nel secolo scorso, storico, poeta e traduttore difensore delle antiche culture orali dei popoli. E condiviso nel dibattito sul patrimonio culturale immateriale. Quasi sempre patrimonio culturale immateriale significa ‘persone’, persone-patrimonio come era Giovanna.

Giovanna Serri

Giovanna Serri

Per la sua storia Giovanna era un esempio di cultura delle classi subalterne che media con la modernità gestendola creativamente, ma senza mai abbandonare i linguaggi della tradizione, evitando di perderli e riuscendo così ad arricchirli e quindi a trasmetterli. Esempio di una ricchezza dei mondi locali e di resistenza della diversità a subire la prepotenza dell’uniformazione, spazio concreto di alterità per noi che cerchiamo nel passato strade del futuro. Come ha scritto Da Re: «Era lei il patrimonio, l’interprete, lei la depositaria di ciò che contava nella cultura del luogo».

Addio Zia Giovanna, patrimonio e biblioteca, salutandoti sappiamo che ci accompagni nel ricordo e nell’eredità che hai lasciato. 

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021 
Note
[1] Si può sfogliare il libro con questo link: https://www.mokazine.com/read/csvbergamo/lascio-in-eredita-me-stesso-alla-terra–fare-memoria-tra-volontariato-e-patrimonio-culturale
[2] Nasce da antichi diritti delle popolazioni locali, in esecuzione della legge 4 agosto 1894 n.397 sull’ordinamento dei Domini Collettivi nelle Provincie dell’ex Stato Pontificio [...]” (Art.2, Statuto e Regolamento), evoluti attraverso i secoli e che, giunti ai giorni nostri, sono stati valorizzati appieno dalla legge 20 novembre 2017, n. 168 “Norme in materia di domini collettivi”.

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021).

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