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Il silenzio delle sirene

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Ex voto di famiglia

dialoghi intorno al virus

di Gian Mauro Sales Pandolfini

16 marzo

I miei prozii abitavano la casa che vivo oggi, al secondo piano di un delizioso palazzetto dei primi anni del Novecento costruito dai Rutelli, noti e illustri antenati che hanno disegnato il volto di Palermo durante la Belle Époque. Vivo insieme al mio compagno, Luca, e alla nostra gatta, Maria Carolina, in un loft di 50 mq dagli alti soffitti a vela e con un ballatoio all’ingresso, ricco di piante. Quando ci siamo trasferiti qui appena due anni fa abbiamo deciso di appendere sulla parete del letto, a mo’ di nume tutelare, l’ex voto che ho trovato durante le opere di ristrutturazione nel cassetto vicino al letto del prozio. Lui e sua moglie, una celebre psicanalista fiorentina morta prematuramente, che abitarono proprio quest’ala del più grande appartamento originario, non riuscirono mai ad avere il tanto agognato figlio.  Quel bambino d’argento, che mai luciderei per rispetto alle rughe del tempo, custodisce oggi il nostro sonno, quel momento onirico della vita in cui ci spetta di diritto mettere in scena i desideri inappagati o gli incubi inconsci che la vita stessa ci impone di nascondere tra le grucce di armadi pieni di scheletri.

Ho sempre considerato l’armadio come un palcoscenico bizzarro e intimo in cui personaggi non graditi al grande pubblico avessero la libertà di recitare e danzare il loro dramma, una sorta di danse macabre di desideri, rimorsi e perversioni. Non è un caso che l’armadio sia il luogo deputato alla custodia degli abiti, come anche, nel mondo fiabesco, filmico e più in generale nell’immaginario popolare, uno scrigno di meraviglie, una porta per altri mondi, un accesso privilegiato agli spauracchi infantili.

Io, Luca e Maria Carolina trascorriamo queste strane giornate non avvertendo il peso del tempo né le costrizioni di uno spazio ridotto. L’uomo non ha mai avuto grandi difficoltà nell’adattarsi alle condizioni e agli accadimenti che s’impongono. Si dorme magari un po’ di più, si guardano film, si legge, si sta al computer a scrivere o a mettere insieme idee e progetti per un futuro pur sempre imminente.

Nel momento in cui ho appena finito di scrivere “imminente”, già quell’aggettivazione, che evoca prossimità e sospensione, si fa passato. Tutto viene divorato dal passato. Certa filmografia americana, molto in voga tra i produttori cinematografici contemporanei, fa spesso riferimento agli orrori di un futuro distopico, apocalittico, di rado alla retrotopia di cui parla Bauman, ovvero alla brama spasmodica di una buona fetta dell’umanità di tornare indietro nel tempo, laddove si anniderebbe una società migliore, una migliore esistenza, un ideale universo perduto. La memoria, i ricordi rappresentano un’immateriale tavola dei colori su cui l’immaginazione può facilmente ridisegnare quell’idealità dei desideri che si scontra con la realtà degli scudi all’appagamento. L’immaginazione è l’antidoto primo alla putrefazione del destino. Il pittore preraffaellita Sir Burne-Jones lamentava che nella sua epoca non sapevano che farsene di lui e che avrebbe preferito abitare le sontuose dimore del passato.

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Sir E. C. Burne-Jones, Tisbe riceve un messaggio di Piramo attraverso il muro, disegno tratto da Pre-Raphaelite Drawnings by Burne-Jones, Dover Publications, New York, 1981:18

In questi giorni in cui persino il cielo blu e limpido sembra collassare e non avere più ragione di esistere, perché da nessuno goduto, protagonista assoluta non è più la natura, ma la cultura dell’uomo. Una friabile memoria profumata di pane corre libera tra le strade, s’insinua negli appartamenti, senza distinzione alcuna, non trova ostacoli alla sua diffusione. Un odore familiare, quotidiano, antico e sempiterno.

In questi giorni dechirichiani, assolati, silenti, unico baluardo di normalità è diventato il pazzo che da anni passa sotto casa, cantando neomelodica a squarciagola, a dimostrazione che forse proprio nella follia si annida la salvezza rassicurante della ripetitività e della ripetibilità, dell’incuranza e dell’impassibilità.

La speranza, Elpìs per gli antichi greci, l’unico male che non riuscì a uscire dal vaso di Pandora, è sovrastata oggi dalla nostalgia, che, con quel dolce affare delle lacrime, consente all’uomo di vedere l’inclemenza del mondo offuscata, opacizzata, senza la crudele nitidezza imposta dall’occhio vigile e presente. Gli occhi hanno per certuni la cattiva abitudine di osservare le cose come fossero antichi mosaici bizantini. Ne colgono la preziosità dell’insieme e della narrazione ma finiscono poi per cadere nella rete del particolare, laddove s’infiora il dettaglio, l’altare delle origini. Sono i dettagli che rivelano, che stordiscono, perché puzzano di verità e il dolore la verità la conosce bene, se ne nutre. Molti di noi dentro le proprie case rincorrono le curve del sole, attendono che si distenda sul balcone e, appena esso sopraggiunge, interrompono qualunque attività, apparecchiano il suo altare, gli immolano ricordi, lo avvertono caldo sui vestiti, lo sudano persino, almeno qui in Sicilia. Dopo, nel momento in cui si allontana dietro i merletti del palazzo di fronte, tornano dentro e accendono i propri lumi, i propri artifici, nuovamente consapevoli che «la troppa luce produce il buio intorno» (Hillman 1999: 108).

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illustrazione tratta dalla graphic novel L’approdo di S. Tan Elliot, Roma 2008

L’uomo preferisce essere strozzato dalle ipnotiche serpi dell’illusione che dal cinto della necessità. La sua ricetta per la salvezza si avvale di risorse sublimi, in grado cioè di stordirlo e distrarlo, capofila indiscussa delle quali rimane l’immaginazione creatrice, seguita dalla nostalgia dei ricordi e infine dalla drammatizzazione degli eventi.

Corre allora in mio aiuto lo strano libello edito dal vecchio Franco Maria Ricci nella famosa collana della Biblioteca Blu, glorioso florilegio negli anni Settanta di scherzi letterari, insoliti e gustosi. In questo volume due scrittori argentini, il monumentale Borges e il suo collaboratore Bioy Casares, hanno allestito un teatrino di brevi racconti aventi in comune, come si legge in quarta di copertina, il «carattere antico, religioso, fantastico».

Ulisse, padre dell’epica classica, è diventato nel tempo simbolo dell’astuzia, dell’intelligenza e dell’avidità conoscitiva dell’uomo. Ha veleggiato attraverso il mondo e le sue storie, compiendo imprese memorabili, eroiche ed eccentriche, valicando quelle Colonne d’Ercole che gli valsero un posto d’onore nell’Inferno dantesco e scendendo persino nell’Ade, tra illustri «ombre incappucciate di tenebra» (Vernant 1987: 55). Ulisse ha padroneggiato l’eccezionalità del mostro, la magia di Circe, la ciclopicità di Polifemo, la celeste armonia delle sirene.

4copertina-dei-racconti-brevi-e-straordinari-di-j-l-borges-e-a-bioy-casares-fmr-1973Queste, prima di assumere nel folclore euronordico le sembianze della donna-pesce, nell’antica Grecia erano rappresentate in modo completamente diverso. Divinità infere di straordinaria bellezza, custodi delle insidie del mare, burrascoso o calmo, abitavano un’isola del Tirreno, molto probabilmente l’odierna Capri. Erano creature dal corpo ibrido, con la testa di donna e il corpo di uccello (sebbene non fossero in grado di volare), abili con la cetra e il flauto, abilissime in quel canto che ammaliava i naviganti, fino a farli naufragare sugli scogli per poi divorarli. Si narra che proprio Ulisse, seguendo il suggerimento di Circe e curioso di sapere cosa gli sarebbe accaduto, turò le orecchie dei suoi compagni con la cera e si fece legare all’albero maestro per resistere a quella melodia ipnotica e sovrannaturale. Le sirene, sdegnate per l’insolita resistenza, si gettarono tra le onde del mare, tramutandosi in faraglioni o arenando nelle spiagge di quei luoghi che un giorno sarebbero diventati Napoli e Lamezia Terme.

Nel nostro racconto, riportato da Borges e Bioy Casares, è Kafka a parlare. Tutti i naviganti sanno bene che qualunque espediente è vano dinanzi alla forza incantatrice delle sirene. Ulisse sa bene il rischio che corre: il «pugno di cera» e il «mazzo di catene» avrebbero potuto cedere. Nessuno tuttavia immagina che le diaboliche divinità marine abbiano in mente un piano più subdolo, l’inaspettabilità del silenzio. Quando Ulisse si avvicina ad esse, le sirene, che hanno compreso il trucco, decidono di non cantare, ma egli crede di non udirle. Ulisse non ode il loro silenzio ed esse, «più belle che mai», non esistono più se non come ombre dell’Ade che si dimenano per farsi notare, con gli occhi lacrimanti, supplicanti e i capelli scarmigliati dalla brezza. Ulisse non incontra mai il loro sguardo e persino «quando fu più vicino a loro, non seppe più nulla della loro presenza». «Ulisse, così narrano, fu […] tanto ricco d’astuzia, che neppure la dea del destino riuscì a penetrare nell’intimo della sua coscienza. Forse […] avvertì in realtà che le sirene tacevano, e solo a mo’ di scudo, per così dire, oppose ad esse e agli altri dèi quella commedia» (1973: 79-81).

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J. W. Waterhouse, Ulisse e le sirene, 1891, Melbourne National Gallery of Victoria

Tacciono adesso le nostre città, tacciono i boschi e i fiumi di Tasso tra gli scaffali delle librerie, tacciono le urla della gente che si riversa per le strade. Unici suoni le sirene dell’ambulanza tra le sconfinate vie deserte, i singhiozzi tra le lenzuola soffocati nella notte per non addolorare i propri cari accanto, le immense risate dei bambini, gli unici che possono permettersi di voltare le spalle al mare mentre giocano alla vita: «da ragazzi si è come immortali», dice Pavese, «si guarda e si ride» (1999: 60). Tutti restiamo in attesa, in una gabbia d’oro, chi attingendo ai colori dell’arcobaleno per un immediato augurio di normalità, chi indossando passioni e sognando amori, chi giocando a scacchi con la morte tra le corsie degli ospedali, chi, con la cera alle orecchie proprio come Ulisse, resistendo all’abbraccio fatale di una seducente e fatale melodia celeste. Tutti siamo pronti a recitare, protagonisti instancabili, la commedia che deve necessariamente intrattenere il destino, confonderlo, stordirlo. In modo sublime.

 Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
 Riferimenti bibliografici
 Bauman Z., Retrotopia, 2017, trad. di M. Cupellaro, Laterza, Roma-Bari.
 Borges J. L. e Bioy Casares A., 1973, Racconti brevi e straordinari, trad. di G. Guadalupi, La Biblioteca Blu, Franco Maria Ricci Editore, Milano.
 Hillman J., 1999, Puer aeternus, trad. di A. Bottini, Adelphi, Milano.
 Pavese C., 1999, Dialoghi con Leucò, introduzione di S. Givone, Einaudi, Torino.
 Vernant J. P., 1985, La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, trad. di C. Saletti, il Mulino, Bologna.

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Gian Mauro Sales Pandolfini, antropologo, si occupa di credenze popolari, siciliane e classiche attinenti la sfera magico-rituale e di fenomeni legati allo spiritismo tra Ottocento e Novecento. Ha contribuito al disvelamento dell’opera saggistica e letteraria, inerente l’occultismo, di Luigi Capuana, sostenendo il dialogo interdisciplinare tra antropologia e letteratura. Ha recentemente pubblicato, presso la casa editrice palermitana Ex Libris di Carlo Guidotti, Metafischerie. Luigi Capuana e la cultura medianica tra Ottocento e Novecento, con la presentazione di Vittorio Sgarbi, la prefazione di Clementina Giuffrida e le illustrazioni di Luca Ferracane. Già redattore e amministratore multimediale presso diverse case editrici palermitane, è stato archivista presso la biblioteca del Dipartimento dei Beni culturali-storico-geografico-antropologici dell’Università degli Studi di Palermo; ha collaborato e collabora all’organizzazione e all’allestimento di mostre d’arte moderna e contemporanea presso diverse istituzioni pubbliche e private; è stato consulente antropologo e coordinatore editoriale per conto di Sgarbi in qualità di ex Assessore ai Beni Culturali e all’Identità siciliana della Regione Sicilia.

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