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Il lavoro di fabbrica e il corpo assoggettato nell’era post-fordista

di   Tommaso India  Chaplin:Tempi moderni

Tutti noi abbiamo in mente le immagini del capolavoro cinematografico di Charlie Chaplin Tempi Moderni (1936). Le sequenze di quel film mostravano come la dilagante produzione industriale di tipo taylorista-fordista avesse stravolto il modo di lavorare che gli uomini avevano conosciuto fino a quel momento. Chaplin, con il suo sguardo intelligente, acuto e ironico dimostrava, attraverso le sue capriole, i suoi movimenti frenetici e le sue contorsioni improbabili, che anche il corpo dei lavoratori moderni, i lavoratori della linea di montaggio e della produzione taylorista, era totalmente incastrato negli ingranaggi del ciclo produttivo. Sebbene abbondantemente edulcorato dal parossismo comico di Chaplin, anche il lavoro delle fabbriche contemporanee – contrariamente a quanto pensavano autori come Alain Tourain e Daniel Bell [1], i quali seguendo linee interpretative diverse ipotizzavano la scomparsa della classe operaia – coinvolge a più livelli i lavoratori, il loro corpo e la loro fisicità. Un coinvolgimento spesso doloroso e dalle molteplici conseguenze.

Sono diversi, infatti, gli operai che, durante i colloqui informali, mi hanno raccontato dei dolori fisici causati dalla ripetizione infinita degli stessi movimenti, eseguiti sulla linea di montaggio. Fra questi vi è A. A., per esempio,  dipendente della Lear, l’azienda che produceva gli interni per le auto Fiat. Ho conosciuto questo lavoratore alcuni anni prima che iniziassi la mia ricerca sullo stabilimento di Termini Imerese. In quegli anni A. A. arrotondava il suo stipendio di operaio metalmeccanico facendo il cameriere nei fine settimana in un ristorante di Buonfornello (Termini Imerese). È in quel ristorante, in cui anche io lavoravo per pagarmi gli studi, che feci la sua conoscenza. Spesso A. A. accusava dolori al pollice della mano destra, causati dal movimento eseguito per avvitare bulloni, lungo diverse ore al giorno, nel processo di preparazione degli interni per le auto prodotte nel sito siciliano. A. P., invece, è un operaio di Ventimiglia di Sicilia. Entrato in fabbrica nel 1977, per circa trentacinque anni ha montato le guarnizioni delle portiere delle automobili, che vengono incassate alla scocca dell’auto con l’ausilio di un martello gommato. Tale movimento ha spesso fatto insorgere delle dolorose infiammazioni al tendine del gomito di A. P., sottoposto a sollecitazioni continue e prolungate, a tal punto da non riuscire più ad eseguire semplici movimenti, come stendere il braccio tenendo un peso leggero nella mano, senza avvertire dolori al gomito. Infine, vi è A. C.,  un operaio iscritto alla Fiom, che, entrato in fabbrica nel 1988, ha sempre lavorato sulla linea di montaggio, svolgendo diverse mansioni. È in questo modo che questo testimone racconta la sua esperienza lavorativa e le difficoltà che ha incontrato dal punto di vista fisico:

D.: Ma tu che mansione avevi?

R.: Niente, io ero un operaio in catena di montaggio. Ho fatto 25 anni in catena di montaggio.

D.: E quindi materialmente montavi cosa?

R.: Chi ha lavorato in catena di montaggio può capire. Noi, il giorno, quando arrivavamo là, staccavamo il cervello e lo mettevamo nell’armadietto. Diventavo un robot, ero un automa preciso. Tu avevi un percorso dove dovevi fare un determinato lavoro, tornavi indietro prendevi la macchina e tu per otto ore al giorno facevi sempre lo stesso lavoro. Non avevi spazio per sentirti male per andare in bagno o per… c’erano degli orari stabili perciò tu eri un automa a tutti gli affetti.

D.: Ma tu cosa montavi materialmente?

R.: [...] i primi anni ero alla parte meccanica e c’era un reparto che si chiamava la giostra. C’erano due linee praticamente, una che camminava sotto, con i motori, noi l’alzavamo dalla scocca che veniva sopra. Eravamo chiamati i minatori del… perché era un posto schifosissimo dove tu assemblavi motori, tutta la parte sottococca della macchina, poi negli anni ho cambiato vari reparti, sono stato in verniciatura sempre in catena di montaggio, poi in lastratura in catena di montaggio, poi sono tornato di nuovo al montaggio mi sono alternato sempre anche…

D.: Sempre sulla linea?

R.: Sì, perché io ero anche un soggetto scomodo per l’azienda per il fatto che ho sempre militato in politica, nel sindacato e quindi rompevo un po’ i coglioni e quindi mi emarginavano, mi cambiavano spesso di squadra.

Questo lavoratore, nel passo appena riportato, tende a rilevare implicitamente la pesantezza del lavoro sulla linea di montaggio, dovuta al fatto che, innanzitutto, una simile mansione costringe i lavoratori a rinunciare ad una parte della propria umanità («Noi, il giorno, quando arrivavamo là, staccavamo il cervello e lo mettevamo nell’armadietto. Diventavo un robot, ero un automa preciso»). Inoltre, soprattutto nel caso del reparto meccanico, il lavoratore si trova a svolgere le operazioni di montaggio al di sotto della scocca dell’automobile e a montare su questa sia il motore che tutta la parte di sottoscocca, mantenendo una posizione estremamente scomoda per una larga parte delle otto ore di lavoro. Lo sforzo fisico, da quanto emerge dalle parole dell’informatore basate sulla propria esperienza, era utilizzato anche come mezzo intimidatorio volto ad arginare e a rendere difficoltosa una qualunque attività politico-sindacale.

1Il corpo, nel caso qui riportato, è uno strumento di produzione che deve essere addestrato, attraverso l’imitazione di altri corpi produttivi, ma, allo stesso tempo, deve essere de-umanizzato, privato di bisogni fisiologici (oltre i brevissimi dieci minuti di pausa ogni due ore) e di ciò che lo rende pienamente il “corpo di un uomo”, cioè il pensiero. È significativo il fatto che A. C. ricorra all’immagine della separazione dal cervello che deve precedere l’inizio del lavoro. Tale privazione del cervello, cioè del luogo di origine del pensiero, nella pratica, è eseguita dall’azienda attraverso l’aumento del carico di lavoro e lo spostamento continuo esercitato su un corpo “fastidioso”, quale può essere quello di un militante politico e sindacale. In questo senso è lampante il tentativo di assoggettamento del corpo, piegato ad un lavoro duro e pesante, che dovrebbe condurre il lavoratore anche ad un assoggettamento politico e sociale alla produzione e ai dettami dell’azienda.

In Sorvegliare e punire (1993), Michel Foucault [2 ] ha analizzato quella che, in seguito, lo stesso filosofo francese ha identificato con i termini di «microfisica del potere», ovvero i meccanismi e i processi messi in atto dal potere degli Stati, ma non solo, affinché i suoi cittadini divengano produttivi, puliti, ordinati. Per fare questo il Potere [3] deve cominciare con il circoscrivere, definire, assoggettare i corpi:

Il corpo – sempre secondo lo studioso francese – è anche direttamente immerso in un campo politico: i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l’obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni. Questo investimento politico del corpo è legato, secondo relazioni complesse e reciproche, alla sua utilizzazione economica. È in gran parte come forza di produzione che il corpo viene investito da rapporti di potere e di dominio, ma, in cambio, il suo costituirsi come forza di lavoro è possibile solo se esso viene preso in un sistema di assoggettamento […]: il corpo diviene forza utile solo quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato. Questo assoggettamento non è ottenuto coi soli strumenti sia della violenza che dell’ideologia; esso può assai bene essere diretto, fisico, giocare della forza contro la forza, fissarsi su elementi materiali, e tuttavia non essere violento; può essere calcolato, organizzato, indirizzato tecnicamente, può essere sottile, non fare uso né di armi né del terrore, e tuttavia rimanere di ordine fisico [4].

La fabbrica della Fiat, nel caso di Termini Imerese, ha rappresentato il Potere per oltre quarant’anni. Questa ha inciso ed assoggettato i corpi dei suoi lavoratori attraverso l’adattamento al lavoro, modificando la struttura e sottoponendo quei corpi a stress prolungati: corpi da scomporre in movimenti e gesti precisi e veloci; corpi da misurare, da addestrare a posture corrette allo svolgimento dell’azione lavorativa; corpi da de-umanizzare.

2Questo processo di assoggettamento dei corpi, almeno nel caso dei contesti industriali, non è quasi mai unidirezionale e pacifico. Basti citare, solo a titolo di esempio, lo studio di Aihwa Ong, dal significativo titolo Spirits of resistance and Capitalist discipline: factory women in Malaysia. [5]  In questa monografia Ong ha analizzato le conseguenze, a livello sociale e culturale, dell’istallazione di una fabbrica di componentistica per personal computer in una zona rurale della Malesia. La studiosa riporta il caso di un gruppo di operaie (praticamente tutte donne) che lavoravano nella fabbrica e provenivano da un contesto legato ad una economia agricola e fortemente influenzato dalla religione islamica. Queste donne, soggette a tempi e ritmi di lavoro estremamente lontani da quelli a cui erano abituate e poste sotto la vigile sorveglianza di uomini, cominciavano a sviluppare quella che le stesse operaie identificavano come delle vere e proprie possessioni dovute a spiriti locali. Come sostiene Ong, queste crisi, che di fatto interrompevano il lavoro sia delle vittime della possessione che delle loro colleghe, rappresentavano l’unico modo per esprimere il loro malessere in una condizione completamente nuova. Le crisi di possessione fra quelle operaie divennero talmente numerose che la dirigenza della fabbrica fu costretta a fare intervenire dei curatori locali, i quali non solo eseguirono gli esorcismi ma, grazie alla loro sola presenza, portarono sul luogo di lavoro un elemento culturale largamente riconosciuto e familiare che attenuò la disciplina e l’estremo rigore della fabbrica.

Se il corpo dei lavoratori è centrale nel processo produttivo, quest’ultimo esercita una pressione capace di modificarne la struttura e, in alcuni casi, le funzionalità. Inoltre, tale pressione sui corpi plasma e modifica contemporaneamente la percezione del proprio essere-nel-mondo [6] e della stessa identità individuale. È appena il caso di richiamare la ormai nota tripartizione in corpo individuale, sociale e politico di Nancy Scheper-Hughes, secondo cui: «lo sguardo dell’antropologia medica [ma il discorso può essere allargato ad altri ambiti delle scienze etnoantropologiche] sfiora la superficie del corpo per muoversi verso il contesto, per cogliere il gioco di metafore, figure retoriche e significati simbolici entro la rete di scambi tra i ’tre corpi’ […]: il corpo sociale delle rappresentazioni, il controllo esercitato dalle forze del biopotere sul corpo politico, e, non indipendente dai primi, la consapevole, più o meno, attribuzione di significati all’individuale ed esistenziale corpo personale».[7]

Attraverso il coinvolgimento dei lavoratori nel processo produttivo, in definitiva, il corpo si configura anche come un oggetto politico destinato ad essere modificato, plasmato e manipolato dal Potere, ma a cui è possibile anche resistere mettendo in atto pratiche di microresistenza che hanno nel corpo dei lavoratori il loro strumento principale [8].

Dialoghi Mediterranei, n.9, settembre 2014
Note

1      Touraine A., 1969, La société post-industrielle. Naissance d’une société, Denoël, Paris. Bell D., 1973, The coming of post-industrial society. A venture in social forecasting, Basic Books, New York.
2      Foucault M., 1993, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. Einaudi, Torino.
3      Secondo Foucault, il potere non è un «privilegio acquisito o conservato dalla classe dominante, ma effetto d’insieme delle sue posizioni strategiche – effetto che manifesta e talvolta riflette la posizione di quelli che sono dominati» (Foucault M., 1993, op. cit., p. 30). Questa definizione del potere è utile poiché rende conto di tutta una serie di dinamiche che in ogni momento sono pronte a rimodularsi in base ai movimenti storici, politici e sociali.
4      Foucault, 1993,  op. cit., p. 29.
5      cfr. Ong, 1987,  State University of New York Press, Albany.; Ong A., 2009, The Production of possession: spirits and multinational corporation in Malaysia, in  Mollona M., De Neeve G., Parry J. (a cura di), 2009, Industrial work and life. An Anthropological reader, Berg, Oxford-New York. 83-102).
6      Per quanto riguarda il concetto di essere-nel-mondo cfr. Merleau-Ponty, M., 2003, Fenomenologia della percezione, trad. it. Bompiani, Milano, p. 193 (ed. or. 1945, Phénoménologie de la Perception, Éditions Gallimard, Paris); Csordas T. J., 1990, Embodiment as a paradigm for anthropology, in «Ethos», vol. 18, n. 1, pp. 5-47; Id., 2003, «Incorporazione e Fenomenologia Culturale» in Corpi. Annuario di Antropologia 3, Meltemi, Roma, pp. 19-42, in part. pp. 23-24.
7      Sheper-Hughes N., 2000, Il sapere incorporato: pensare con il corpo attraverso un’antropologia medica critica, in Borofsky R. (a cura di), L’antropologia culturale oggi, trad. it. Meltemi, Roma, pp. 281-295, p. 282 (ed. or. 1994, Assessing Cultural Anthropology, McGraw-Hill).
8    Sarebbe troppo lungo in questa sede affrontare la tematica della microresistenza corporale nei contesti lavorativi. Per affrontare la questione mi limito qui a rinviare al testo di James Scott (2006, Il dominio e l’arte della resistenza. I «verbali segreti» dietro la storia ufficiale, trad. it. Elèuthera, Milano), in cui l’autore mostra in maniera dettagliata come in determinati contesti repressivi i gruppi sociali tendano a creare delle pratiche di tacito boicottaggio, differimento e microresistenza attraverso il proprio corpo.

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Tommaso India, attualmente si occupa di antropologia del lavoro con un particolare riferimento ai  processi di deindustrializzazione e precarizzazione in corso in Sicilia. Si è laureato nel 2010 in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi intitolata Aids, rito e cultura fra i Wahehe della Tanzania, frutto di una ricerca etnografica condotta nelle regione di Iringa (Tanzania centro-meridionale). Dal 2012 è dottorando in Antropologia e Studi Storico-linguistici presso l’Università degli Studi di Messina.

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