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Il dibattito su pandemia e guerra: un problema epistemologico

Picasso, Guernica, part.

Picasso, Guernica, part.

di Neri Pollastri

Sul thauma e su come affrontarlo

Gli ultimi due anni che abbiamo vissuto ci hanno sventuratamente costretti a misurarci con due vere e proprie manifestazioni del thauma, di quel “terrore”, o “angosciante stupore” – per esprimersi con le parole di Emanuele Severino – che tradizionalmente viene considerato il topos dal quale si origina la filosofia.

La ragione per cui di fronte al thauma c’è necessità di rivolgersi alla filosofia è presto detta: perché esso fa saltare il quadro entro il quale diamo senso alla realtà, quel contesto di eventi che viviamo quotidianamente e che ci permette di rispondere a essa in modo immediato, semplice e lineare. In altre parole il thauma ci ricorda, dolorosamente, che la realtà è più complessa di come siamo abituati a pensarla e che le risposte standardizzate non vanno sempre bene: talvolta, come in tali occasioni, devono essere radicalmente ripensate, modificate, adattate, forse persino gettate e sostituite con qualcosa di nuovo e più adeguato.

Sfortunatamente affrontare filosoficamente il thauma non è né comodo, né semplice – ed è ovvio che sia così, visto che ci rimanda alla complessità e ci obbliga ad attraversarla nei suoi inesauribili dettagli – perciò non tutti ne sono capaci, per almeno due motivi. Il primo è che molti non sono attrezzati per farlo: la nostra è una cultura tecnico-strategica, che semplifica per rendere più efficace il “fare”, e l’educazione scolastica è interamente costruita per insegnare a diventare uomini simili alle macchine, come ben spiegava già a metà del secolo scorso Gunter Anders [1] e come, più recentemente, ha illustrato Marco Revelli [2].

andersIl secondo è che non tutti ne hanno la forza: l’identità di ciascun uomo si basa infatti anche sui propri principi – morali, politici, di appartenenza –, sulle proprie credenze – che, in quanto tali, non sempre sono ben fondate –, sulle proprie presunte “verità” – le quali, in una cultura pesantemente condizionata prima dal platonismo, poi dal Cristianesimo, sono troppo spesso rigidamente pensate come eterne e immutabili. Porre in questione quei princìpi, quelle credenze, quelle verità, per alcuni può essere troppo, può farne vacillare l’equilibrio emotivo, fino a impedir loro di esercitare correttamente quella facoltà che, nel bene e nel male, distingue l’uomo dalle altre specie viventi: la facoltà di pensare.

I due drammatici episodi che abbiamo vissuto in questi anni – la pandemia e l’esplosione di una guerra nel cuore dell’Europa – hanno confermato sia la diffusa difficoltà di molti ad affrontare il thauma, sia il fatto che la difficoltà di usare correttamente la facoltà del pensiero in situazioni di “angosciante stupore” non sia prerogativa solo di chi manchi degli strumenti adeguati per farlo, ma anche di chi li possegga: abbiamo infatti visto autorevoli intellettuali arroccarsi su spiegazioni mitologiche come il complottismo, usare argomenti logicamente fallaci, far ricorso a grossolane argomentazioni retoriche spacciandole per spiegazioni logiche, e via dicendo. Troppo fragile, evidentemente, la loro identità, perché fossero in grado di “mettere alla prova” di eventi inattesi e angoscianti i loro princìpi, le loro credenze, le loro rigide “verità”.

Si badi, qui non si ha nessuna intenzione di difendere una certa posizione riguardo agli eventi rispetto a determinate altre: il valore aggiunto della riflessione filosofica – della pratica del filosofare – è infatti proprio la sua libertà di produrre ogni immaginabile tipo di lettura del reale, di supportarla, di difenderla; ma quella pratica richiede anche un rigore argomentativo tale che, alla fine, ne scaturisca una mappa degli eventi che stia in piedi, sia coerente e ben fondata, non faccia riferimento a mitologiche o fideistiche ipotesi ad hoc o a deux ex machina che giustifichino con il loro intervento l’assenza di riscontri empirici.

Chi scrive ha, ovviamente, la propria lettura degli eventi in questione, che ritiene provvisoriamente anche migliore delle altre, ma né la ritiene la parola ultima, né pretende di imporla a chicchessia. Qui si intende solo interrogarsi, provando anche a dare qualche parziale risposta, sul perché così tanti, di fronte ai due eventi “angosciosamente inquietanti” che abbiamo vissuto, abbiano scelto la via della grossolana e conflittuale semplificazione invece di quella, filosofica e democratica, del pacifico e rispettoso confronto delle rispettive analisi della complessità di tali eventi.

La ragione di quest’interrogazione, a sua volta filosofica, è resa urgente da un profondo timore per il futuro della convivenza civile: le semplificazioni polarizzano e, anche a causa della loro parzialità che le rende incomplete e fragili, spingono allo schieramento conflittuale. Dividono cioè in partiti contrapposti, generando non solo polemos – che, come ci insegna Epicuro, può essere generatore – ma anche e soprattutto scontro – che viceversa degenera facilmente in settarismo, esclusione, guerra.

Ben più dell’angoscia per il Covid 19 e per la guerra in Ucraina, ciò che in questi due anni ha sconcertato è stato lo scontro civile tra i cittadini divisi in partiti, che si accusavano l’un l’altro, si offendevano invece di parlarsi, non davano alcun credito alle parole della parte avversa, usando le categorie del “male” da estirpare e del “nemico” da combattere al posto di quelle del “diverso” da accettare e comprendere. È questo il vero, grave problema. Un problema che ha una radice epistemologica, non una radice morale.

revelli2La pandemia

Nel dicembre del 2020, prima dell’inizio della cosiddetta “seconda fase” della pandemia e dell’avvento dei vaccini, ho pubblicato un articolo nel quale analizzavo un ampio ventaglio di argomenti fallaci che erano stati usati per contestare alcune delle sgradite misure di contenimento della diffusione del virus al suo insorgere [3]. Vi mostravo in particolare che, in quella specifica situazione, nessuno – neppure gli “esperti” – fosse in possesso delle conoscenze del fenomeno necessarie a produrre una sua comprensione “scientifica” atta a prendere con sicurezza decisioni operative univoche e almeno parzialmente durature. Di fronte a quel thauma, in altre parole, era indispensabile attendere, dar tempo alla ricerca, e nel frattempo muoversi applicando con pazienza il “principio di cautela” – il virus mieteva vittime e non si riusciva a capirne l’evoluzione – sospendendo temporaneamente anche pratiche e comportamenti che, in situazioni normali, sarebbero state ritenute fondamentali e inalienabili.

Su quali fossero i limiti di tali sospensioni restava aperto il dibattito democratico, ma che ciò fosse necessario, ancorché doloroso e per taluni anche drammatico, era fuor di dubbio. Un giudizio confermato dal fatto che, in tutte le parti del globo ove il virus era penetrato [4], le istituzioni avevano risposto nello stesso modo, ancorché con differenze di dettaglio dettate proprio dalla diversità di peso data ai costi delle rinunce necessarie.

In quell’articolo osservavo come, al contrario, un po’ ovunque minoranze di cittadini si fossero opposte alle misure, facendo pesare princìpi di valore e sofferenze individuali o collettive senz’altro reali, ma anche giustificando l’opposizione con argomenti quasi sempre fallaci; vi mostravo inoltre come – a fronte delle repliche che venivano loro rivolte dalle istituzioni, dalla stragrande maggioranza degli esperti (che, sebbene impossibilitati a dare risposte certe, disponevano comunque di ipotesi previsionali più fondate di un semplice cittadino) e dei cittadini stessi – gli oppositori aggirassero la responsabilità delle possibili conseguenze dell’abolizione delle profilassi semplicemente negando il pericolo, oppure esibendo forme ideologiche di “eroismo”, esemplarmente rappresentate dal diffuso slogan retorico “vivere come morti per paura di morire”.

Rimandando a quell’articolo per una disamina delle più diffuse tipologie di errore argomentativo usate in quella prima fase da chi non riusciva ad affrontare con lucidità il thauma della pandemia, vorrei aggiungere alcune considerazioni sul tema che ha dilaniato l’opinione pubblica in seguito, più precisamente quando sono stati introdotti i vaccini.

Che l’avvento dei vaccini avrebbe prodotto un’ondata di proteste e una resistenza organizzata era più che prevedibile: l’antivaccinismo era infatti già ampiamente diffuso ed era uno dei pilastri su cui poggiava la punta di diamante del populismo politico italiano – il Movimento Cinquestelle – che nella diffidenza per istituzioni, media ed establishment aveva un tratto distintivo. Inoltre, dato che i vaccini – come peraltro ogni altro farmaco – hanno effettivamente i loro anche pericolosi effetti collaterali e che, in questo caso, la loro introduzione era avvenuta per necessità in tempi assai più rapidi del consueto, la resistenza era ancor più preventivabile. Da questo punto di vista, che qualcuno abbia pensato che la loro efficacia avrebbe finalmente spazzato via ogni residuo del movimento antivaccinista è da un lato sorprendente, dall’altro preoccupante: evidentemente non si è ancora compreso che siamo entrati nell’era della post-verità, nella quale i fatti contano meno delle emozioni e le prove si costruiscono con la retorica e non con il rigoroso vaglio dei dati empirici.

Infatti, fin dal momento in cui si è cominciato a parlare di vaccini in arrivo, è esploso un fronte di “resistenti”, arroccati attorno all’ingigantimento dei reali rischi che potevano profilarsi all’orizzonte. In particolare si è preso a ripetere incessantemente che i vaccini:

Ÿ     Erano sperimentali, quindi non ancora utilizzabili;

Ÿ  Non erano neppure vaccini, basandosi su una tecnologia diversa da quella tradizionale;

Ÿ     Modificavano il DNA, o comunque producevano alterazioni organiche permanenti;

Ÿ     Avevano altissimi tassi di reazioni avverse;

Ÿ     Favorivano il prodursi di varianti;

Ÿ     In ultimo, non erano né efficaci, né necessari [5]. 

nicolsTutto questo – e anche molto altro che per brevità non prendo in considerazione – condito con argomentazioni retoriche spesso surreali, tipo l’uso denigratorio del termine “siero”, la costante svalutazione della medicina in quanto “al soldo delle multinazionali del farmaco” (quasi che fosse possibile corrompere tutti i medici e tutti gli operatori sanitari, o che le case farmaceutiche avessero da guadagnare solo dai vaccini e non anche – e certo alla lunga ben di più – dai farmaci per la cura della malattia), l’incensamento dei pochi scienziati che si opponevano ai vaccini in quanto paladini contro la “scienza mainstream” (laddove la scienza è mainstream per definizione, visto che la validità di una teoria si misura con la sua accettazione nel tempo da parte della maggioranza degli scienziati), perfino la diffusione di dati palesemente inventati [6].

Agli attacchi del fronte antivaccinista, ampiamente minoritario tra i cittadini (si stimano inferiori al dieci per cento), ma non sorprendentemente onnipresente sul web e in particolare sui social network, rispondevano esperti e istituzioni, confutando con ottimi argomenti tutte le critiche su esposte:

Ÿ   Per quanto introdotti in tempi assai più brevi che in passato, i vaccini sviluppavano quelli per la SARS, messi a punto da anni, ed erano stati testati su un numero maggiore di persone, grazie a uno sforzo internazionale senza precedenti, per cui non si potevano considerare “sperimentali”;

Ÿ  Che la tecnologia fosse (in parte) nuova non li toglieva dalla categoria dei vaccini, in quanto stimolatori del sistema immunitario (comunque la polemica era puramente nominalistica e pragmaticamente priva di senso);

Ÿ  Per la loro struttura, era del tutto impossibile un loro effetto sul DNA e solo in rare ed eccezionali circostanze potevano produrre effetti permanenti sull’organismo;

Ÿ  Fin dai test sperimentali avevano mostrato un basso numero di effetti collaterali, cosa poi confermatasi progressivamente dal loro impiego, che è stato alla fine il più esteso della storia;

Ÿ  Non solo non favorivano le varianti, ma al contrario, diminuendo il numero di contagi, le riducevano, come dimostrato dal fatto che queste ultime provenivano prevalentemente dai Paesi con minore diffusione dei vaccini (Sudafrica, Brasile, Cina);

Ÿ   Ne erano ampiamente dimostrate tanto la necessità, quanto l’efficacia. 

A queste risposte – necessarie, va detto, perché l’esercizio del senso critico è sempre legittimo e, in un caso di tale complessità e portata qual era questo, persino doveroso – il fronte antivaccinista rispondeva facendo sordamente muro e usando in prevalenza il solito, grossolano e arcaico argomento retorico: la delegittimazione dell’interlocutore. Ogni ragione addotta veniva infatti sistematicamente respinta adducendo l’inaffidabilità delle istituzioni – che avrebbero usato la prassi vaccinale per irregimentare i cittadini e compiacerne i produttori –, dei media che riportavano le informazioni – perché asservite al potere e “al soldo” delle case farmaceutiche –, degli stessi scienziati – perché anche loro, in particolare quelli “mainstream” (sic!), asserviti e prezzolati –, da ultimo degli stessi cittadini – perché ingenui, omologati, “servi”, “pecore” o perfino consapevoli coautori della presunta truffa.

La situazione è ulteriormente peggiorata con l’istituzione del cosiddetto green pass quale profilassi alternativa per coloro che avessero scelto di non praticare quella vaccinale – perché, merita ricordarlo, a livello sociale il vaccino era una profilassi non solo e non tanto per gli individui, ma per la collettività, garantendo la riduzione della diffusione del contagio e della saturazione dei posti disponibili negli ospedali. Il green pass aveva infatti la funzione di isolare i non vaccinati in quanto classe di soggetti con maggiore probabilità di contrarre il virus (a seconda dei periodi stimata unanimemente tra le cinque e le dieci volte in più), trasmetterlo (fino alla variante omicron con stime analoghe) e soprattutto di ammalarsi gravemente (in questo caso la stima era tra le dieci e le venti volte in più), garantendo loro il diritto di non sottoporsi al trattamento sul proprio corpo – nonostante la sua obbligatorietà sia comunque autorizzata dalle normative sanitarie internazionali e dalla Costituzione italiana, oltre che già in vigore da decenni per numerose categorie professionali di cittadini.

Non c’è alcun dubbio che detta profilassi alternativa avesse, nella mente di chi l’ha istituita, anche l’intenzione di spingere un maggior numero di persone a sottoporsi alla profilassi vaccinale, ritenuta socialmente più semplice ed efficacie; ma neppure ci sono dubbi sul suo carattere di alternativa offerta a chi non voleva rinunciare, per il bene comune, ai diritti sul proprio corpo, rinunciando pro tempore e per la medesima ragione ad altri suoi diritti. Viceversa, il fronte antivaccinale ha, in larga misura [7], reagito definendo il green pass una misura una violazione dei diritti individuali con finalità “ricattatorie”, accusando di totalitarismo – e spesso, in modo totalmente insensato, persino di nazismo – le istituzioni che lo avevano adottato e tutti coloro che lo difendevano.

hpsleIn questa fase, ad araldi della protesta si sono erte persone autorevoli, di ambito sia politico – e qui non ci sarebbe da stupirsi, visto che si profilava la possibilità di raccogliere consenso elettorale –, sia culturale [8]. In quest’ultimo caso un po’ di sorpresa c’è stata, anche perché all’alzarsi del livello delle competenze non ha fatto seguito un analogo innalzamento della qualità degli argomenti. Anche qui, infatti, è prevalso il tema della radicale diffidenza nei confronti delle fonti e la loro sostituzione con “altre fonti”, ritenute più affidabili solo proprio perché “altre”: non mainstream, non “al soldo”, dunque non del “sistema” [9]. Costruendo così una “realtà alternativa”, una “diversa verità”, in tutto analoga a quella più volte vantata dall’amministrazione Trump di fronte ad accuse circostanziate della società civile statunitense e poi culminata negli eventi di Capitol Hill.

La ragione di tutto questo è proceduralmente molto semplice: per stabilire se tanto il vaccino, quanto il green pass fossero misure giuste, così come la loro imposizione ai cittadini, o fossero invece immorali, incostituzionali o totalitarie, era necessario stabilire preventivamente se esse fossero necessarie, o quantomeno utili, ad affrontare la situazione nel modo migliore, ossia massimizzando i vantaggi. A meno di non ritenere che la morte di svariati milioni di persone (che previsionalmente non si poteva escludere, visto l’epifenomeno e l’assenza di conoscenze adeguate sulle cause) fosse preferibile ai confinamenti, alle mascherine, ai vaccini – cosa, questa, che nessuno si è preso la responsabilità di sostenere –, in gioco non erano dunque questioni di diritto, bensì di fatto: questioni, cioè, sulle quali né il singolo cittadino, né il giurista, il filosofo, l’intellettuale, e neppure il singolo scienziato potevano decidere, specie in una situazione complessa, imprevista e sulla quale mancavano conoscenze consolidate e perciò in qualche misura certe. Su tali questioni di fatto era la comunità degli studiosi e degli esperti a poter e dover dare risposte – e risposte in evoluzione, visto che la conoscenza sul fenomeno cresceva via via che questo si sviluppava, da cui la tanto criticata, e invece ragionevolissima, volubilità dei pareri esperti e delle decisioni – ed erano le istituzioni democratiche a poter e dover decidere di conseguenza.

Da questo punto di vista, la comunità degli esperti e degli scienziati, sulla base dei dati, è sempre stata molto netta nel ritenere utili sia i vaccini – addirittura necessari se si volevano salvaguardare le vite dei cittadini – sia il green pass – indispensabile strumento per ridurre la diffusione del virus e l’occupazione degli Ospedali [10]. A fronte di tali dati, la pratica dell’una o dell’altra profilassi si configurava così come un dovere civile da parte del cittadino e la sua omissione un vero e proprio dolo, del tutto analogo alla guida in stato di ubriachezza o senza patente [11], ragion per cui le istituzioni hanno agito di conseguenza. Accettando quei dati, non esisteva nessun serio problema di diritti, casomai un conflitto di valori sul quale si poteva aprire un dibattito pubblico, consapevole però della necessità di dover dolorosamente transigere, pro tempore, su qualcuno dei valori e dei diritti in gioco.

Viceversa, ogni discussione sull’argomento iniziava sistematicamente dalla questione morale o giuridica, per trasformarsi dopo pochi passaggi nella decostruzione scettico-complottistica della verità di fatto: l’interlocutore, qualunque fosse la sua competenza, avanzava la pretesa di decidere da solo cosa fosse “vero”, obiettando che non fosse possibile credere al “giornale pagato dall’industriale tal dei tali”, alla “TV di Stato”, al “Governo di corrotti” (ignorando regolarmente che c’erano giornali e media indipendenti che sostenevano più o meno le stesse cose, in Italia e all’estero) e appellandosi a siti Internet, influencer sui social network, giornali e media spesso pagati da altri industriali o non si sa da chi, voci di scienziati isolati (spesso scaricati con discredito quando cambiavano idea), tutti comunque totalmente incontrollabili, ma con il pregio di sostenere una verità diversa e più gradita.

A fronte di un tale approccio epistemologico non può stupire che la situazione non sia cambiata neppure a posteriori, al momento in cui la validità dei vaccini è stata confermata dai dati e dall’evoluzione della pandemia, quando cioè il crollo della mortalità e dei ricoveri in terapia intensiva è stato generalizzato e uniforme, così come lo è stato il largo prevalere di non vaccinati tra i ricoverati, mentre gli effetti collaterali gravi rimanevano nell’ordine del prevedibile, ovvero quello dei farmaci e dei vaccini già in uso. Anche tale “realtà” è stata infatti rifiutata quasi unanimemente dal fronte antivaccinista, semplicemente perché le fonti che la testimoniano erano le medesime che in precedenza la avvaloravano previsionalmente – le banche date istituzionali, gli istituti di ricerca, i collettori di dati anche indipendenti, eccetera. Fonti del “sistema” e perciò a priori colluse con la corruzione e con il potere, le quali dunque sicuramente avrebbero operato una manipolazione dei dati. Si sono perciò di nuovo opposti altri dati – in genere isolate eccezioni che, se contestualizzate, mostravano regolarmente di rientrare nel quadro mainstream – e altre fonti – spesso assai meno affidabili, quando non semplici ipotesi di ricerca tutte da verificare –, fino all’argomento più usato e di solito soggiacente a ogni tipo di obiezione: che se mancano le prove per dimostrare che la realtà mainstream è falsa, la ragione è che queste ci vengono accuratamente nascoste dal “potere”.

Torneremo più avanti su questo inquietante fenomeno; qui basti osservare che, come già accennato, non siamo davanti a un problema etico, giuridico o politico, bensì a un problema epistemologico, del tutto analogo a quello che ha originato i succitati eventi di Capitol Hill.

51kodizin9l-_sx330_bo1204203200_La guerra

Il medesimo fenomeno a cui si è assistito nel periodo pandemico si è poi ripresentato in forme del tutto analoghe allo scoppio della tragica guerra in Ucraina. Anche qui, un thauma, cioè un evento inatteso, drammatico – oltre alla tragedia dei cittadini coinvolti, vissuta emotivamente per empatia, quella profilatasi all’orizzonte di un coinvolgimento diretto di altri Paesi, quella economica conseguente al conflitto e, soprattutto, quella di un possibile uso delle armi atomiche e di una immane catastrofe nucleare planetaria – e troppo complesso per essere compreso e affrontato con risposte certe e definitive. Ancora una volta, una situazione che avrebbe richiesto da parte dei cittadini riflessione e dialogo, toni bassi e tolleranza, fiducia – pur vigile – negli esperti e nelle istituzioni. Cose non facili da praticare, specie nella cultura dominante, populista, in cui viviamo. E infatti le cose sono andate ben diversamente.

Gli eventi erano piuttosto chiari nel loro epifenomeno: un Paese, la Russia, invade con il proprio esercito un altro Paese, l’Ucraina. Per il diritto internazionale e per chiunque sia contrario alla guerra, la condanna dell’invasore non poteva che essere netta e unanime, “senza se e senza ma”, come recita uno slogan (peraltro discutibile e anch’esso in buona sostanza populista). Cosa che in un primissimo momento è infatti avvenuta. Gli eventi sono però poi andati avanti in modo piuttosto sorprendente: il “vaso di coccio” ucraino ha sorprendentemente reagito con inattesa energia e ha resistito a quella che tutti credevano essere una Invincibile Armada, rifiutando la resa e chiedendo aiuti, anche armati, ad altri Paesi.

Tale evoluzione apriva scenari, anche di tipo etico, molto complessi: è giusto ignorare la richiesta di aiuto di un popolo aggredito militarmente? Concederglieli, però, non significa a sua volta contribuire ad alimentare la guerra? Limiterà maggiormente i danni del popolo ucraino aiutarlo in una resistenza dalle dubbie prospettive e dai certi danni umani e materiali, oppure spingerlo a una resa che, comunque, avrà costi pesanti e non stimabili sulle loro vite? Favorire la resa di fronte a un Paese aggressore (oltretutto da molti anni noto per la sua violenta gestione politica, interna ed esterna) avrà per conseguenze il placarsi della sua aggressività, oppure costituirà un viatico per ulteriori aggressioni (sono molti i Paesi confinanti che temono il ripetersi degli eventi, stavolta a loro danno)? Lasciar proseguire il conflitto, con aiuti provenienti da altri Paesi (tra cui il nostro), pur non essendo per le leggi internazionali un’estensione della guerra, potrà spingere l’aggressore a entrare in conflitto armato anche con chi fornisce gli aiuti? Quanto costerà economicamente l’aiuto all’aggredito? E, comunque, è giusto anteporre il proprio benessere (o anche il possibile proprio sfascio) economico all’aiuto verso un Paese aggredito? Del resto, quante possibilità ci sono che tali aiuti portino davvero a una situazione favorevole per gli aggrediti? Ma, d’altro canto, sono possibili delle trattative diplomatiche eque in un conflitto che termina con una resa senza resistenze? E potremmo continuare a lungo.

Tutti questi dilemmi sono assolutamente indecidibili. Nessuno è nella testa dell’aggressore (il capo del quale, Putin, è inoltre ben noto per la sua enigmaticità e il suo cinismo); nessuno conosce la situazione reale delle forze in campo (infatti neppure i Servizi dei Paesi più potenti e informati avevano previsto l’evoluzione [12]); nessuno, soprattutto, può essere in grado di stimare comparativamente le conseguenze dell’una o dell’altra delle principali opzioni – aiutare fornendo armi e vettovaglie, continuando a cercare soluzioni diplomatiche, oppure favorire la resa e trattare a invasione completata. E se nessuno può decidere, se non per atti di fede o princìpi astratti, ancor meno lo possono fare i “semplici” cittadini, che nulla sanno di strategie, di armi, di equilibri diplomatici internazionali, e ben poco sanno, purtroppo, anche di dilemmi etici.

Certo, i cittadini hanno il diritto – e forse anche il dovere – di avere una propria opinione; ma dovrebbero per correttezza anche limitare il loro “interventismo” verbale, la loro militanza di parte, riconoscendo che, alla luce della scarsa competenza specifica, la loro opinione vale poco. Il loro dovere, in estrema sintesi, è quello del cittadino democratico: informarsi, riflettere, discutere ascoltando e rispettando l’altrui opinione; sostenere con misura la propria, in quanto limitata e basata su dati largamente incompleti; evitare la rissa propagandistica, che ha il solo effetto di alzare una nebbia emotiva e confondere ancor più le idee già confuse; confidare, pur vigilando, sulla capacità della classe dirigente da lui eletta a proprio rappresentante. Viceversa, così come era accaduto con la pandemia, ciascun cittadino ha preso ciecamente partito e ha iniziato una sorda propaganda della propria posizione, quasi che essa fosse la “verità” su un evento che, essendo a venire, verità non ne contempla. Una propaganda basata fondamentalmente su tre pilastri: l’argomentazione retorica; la demonizzazione dell’altra parte; l’utilizzo dei soli dati a sostegno e la censura di quelli a sfavore.

19359_4408Si è così assistito al sorgere di due versanti: uno a favore dell’invio di armi, che – facendo leva sulla doverosità dell’aiuto a un aggredito, sulla difesa della libera autodeterminazione e sul valore della resistenza a un potere violento – accusava gli altri di parteggiare per l’aggressore (cosa assai raramente vera), di essere egoisticamente insensibili al dramma degli ucraini, quando non addirittura di codardia e viltà; l’altro contrario all’invio, che – brandendo un astratto, per quanto giusto, rifiuto della guerra – accusava i primi di essere guerrafondai, di volere la morte degli ucraini, addirittura di usarli per i propri interessi economici legati alla guerra.

Come sempre accade, la propaganda ha aumentato la sordità reciproca, inasprendo la polarizzazione e facendo emergere il fenomeno principale che avevamo osservato analizzando i comportamenti durante la pandemia: la parte contraria all’invio di armi ha abbandonato – o quantomeno messo da parte – l’iniziale condanna dell’aggressore e ha iniziato, forse involontariamente, a giustificare la sua azione, scagliandosi contro l’aggredito, o quantomeno contro parte di esso. Si è iniziato col dire che in Ucraina erano in atto da anni nel Donbass stragi di russofoni, che nel Paese vi era un’alta concentrazione di neonazisti, con i quali il Presidente Zelensky (definito un narcisista e accusato di avere molti scheletri nell’armadio) flirtava da sempre, che l’eroe nazionale era un nazista responsabile di stragi di ebrei, fino alla definitiva trasformazione della guerra in un’operazione deliberatamente preparata dagli Stati Uniti per consolidare il loro potere, economico e politico, sull’Europa.

Non è questa la sede per discutere tali tesi, né io sono la persona più adatta per farlo; qui basti dire che molte appaiono palesemente o false, o assai discutibili [13], mentre alcune sono senz’altro vere, ma che avanzarle in questo momento è, da parte dei pacifisti, semplicemente contraddittorio, in quanto non fa altro che giustificare l’invasione militare, che Putin ha motivato proprio con la necessità di “denazificare” il Paese e ripulirlo da corruzione e malcostume. Ancora una volta, di fronte a un fenomeno complesso e impossibile da dominare, si è scelta la via delle semplificazioni ideologiche, cadendo in vere e proprie assurdità argomentative, condite da forzature moralistiche, da dati usati in modo falsato [14] o presi da fonti non controllabili [15] e, soprattutto, da una teoria del complotto da manuale: la longa mano dello Zio Sam. In breve, anche in questo caso siamo di fronte alla trasformazione di una comprensibile e legittima differenza di valutazione dei fatti in una paranoica costruzione di una realtà differente: un problema epistemologico.

Dal thauma alla divaricazione epistemologica

Perché succede tutto questo? Perché di fronte a un trauma che in realtà è un thauma, cioè un problema drammatico privo di soluzioni semplici e progettabili, i cittadini scelgono sempre di più di assumere una posizione di parte sostanzialmente fideistica e di litigare tra loro come gli emblematici polli di Renzo, invece di sospendere il giudizio, di ascoltarsi, di confrontarsi, di riflettere, confidando nella possibilità di trovare assieme, passo per passo, la via migliore per uscire dall’empasse? Per queste domande è difficile immaginare risposte ben definite; tuttavia, è possibile indicare delle direzioni di ricerca per trovarle.

41xxb5pbtl-_sx332_bo1204203200_La struttura del thauma

In primo luogo è opportuno ricordare che eventi come quelli sommariamente analizzati producono “sconcertante stupore” proprio nella misura in cui mettono in mora gli apparati simbolici con i quali abbiamo costruito la nostra immagine della realtà. Non sono solo inattesi, ma anche in parte incomprensibili e in larga misura indominabili. La cultura in cui viviamo è attraversata dalla convinzione che l’uomo possa prevedere, conoscere e controllare tutto ciò che lo circonda e coinvolge: scoprire che un virus, nel Terzo Millennio, possa davvero produrre milioni di morti e minacciare ogni singolo abitante del pianeta, sconvolge questa convinzione che, pur con differenze in ciascuno di noi, ci riguarda tutti. Non solo: ci fa sentire più fragili e impotenti, ci ricorda quella finitezza e mortalità che la cultura dell’immagine e del consumo tende costantemente a nascondere. In altre parole: cambia l’immagine rassicurante della realtà che usiamo quotidianamente, svelandocene la “faccia nascosta” che di solito – individualmente e collettivamente – tendiamo a respingere.

Non sorprende allora che ci sia chi respinga anche il dato che rende necessario il cambio di immagine della realtà – nel caso della pandemia, l’esistenza del virus o la sua effettiva pericolosità, in quello della guerra e del nostro possibile coinvolgimento in essa, che sia realmente in corso un conflitto [16] o che davvero ci siano degli aggrediti da difendere [17] – oppure chi assegni a un capro espiatorio la colpa della sua esistenza – sempre rimanendo alla pandemia, l’origine artificiale del virus o la sua sopravvalutazioni per ragioni economiche e di potere, in quello della guerra le trame statunitensi per favorirne lo scoppio e la durata.

A questa umana, psicologica e spontanea avversione ad accettare una realtà di per sé indubbiamente sgradita devono tuttavia aggiungersi altre condizioni che ne permettano lo sviluppo. È un thauma anche la scoperta che il proprio giovane figlio ha un male incurabile, difatti la prima reazione, normale, è giustappunto la negazione del “fatto”: “non è vero! È sbagliato l’esame, oppure il medico è incompetente e ignora che esistono cure!”. Poi però si riesce di solito a prendere atto, per quanto a malincuore, della realtà e chi non ci riesce finisce col costruirsene una “privata”, onirica, che difficilmente gli permette di vivere nel mondo [18]. Nel caso però di un thauma collettivo le cose sono più complicate, perché la “realtà” è già di per sé qualcosa di collettivo – più esattamente, è il risultato sempre in divenire di una complessa costruzione intersoggettiva – ed è sempre possibile che un settore della comunità si costruisca una realtà parallela, basata sulla selezione delle fonti e sull’appoggio reciproco tra gli appartenenti al settore stesso.

È quel che succede nelle comunità religiose ed esattamente quanto accaduto nei casi della pandemia e della guerra.

La fine della competenza

Il processo della costruzione di realtà parallele è tutto sommato piuttosto semplice e poggia su tre passaggi base:

1. Ricerca di confutazioni dei dati che fondano la realtà normalmente accettata;

2. Ricerca di elementi che possano supportarne una alternativa;

3. Rafforzamento della nuova realtà attraverso il supporto reciproco dei membri della comunità che la costruisce (verità attraverso il consenso).

41ucvz7nl-_sx342_sy445_ql70_ml2_Nei primi due passi va in gioco la selezione delle fonti, nel terzo il legame che si crea tra i sostenitori della nuova realtà. Tutti e tre i passi, tra loro interconnessi, mettono capo all’autorevolezza e al potere, fattori assai delicati e controversi in ogni tipo di società, ma che certo nella nostra stanno vivendo una stagione particolarmente complicata.

Cinque anni fa il politologo statunitense Tom Nichols ha illustrato con chiarezza quello che ritiene, non da solo, uno dei più gravi problemi delle società contemporanee, da lui definito «fine della competenza» [19]: la crescente tendenza di ogni cittadino, del tutto a prescindere dalla sua esperienza, cultura, preparazione specifica, a ritenersi portatore di opinioni aventi la medesima fondatezza, certezza e – in ultima istanza – “verità” di chiunque altro. Questo fenomeno trova il proprio fondamento nel fraintendimento del concetto stesso di democrazia:

«I cittadini non interpretano più la democrazia come una condizione di uguaglianza politica, in cui una persona ottiene un voto e ogni individuo è né più né meno uguale davanti alla legge. Gli americani ormai pensano alla democrazia di effettiva uguaglianza, in cui ogni opinione vale quanto le altre su quasi ogni argomento del mondo. I sentimenti sono più importanti dei fatti: se la gente pensa che i vaccini facciano male, o che metà del bilancio pubblico degli USA venga speso per aiuti ai Paesi esteri, diventa “antidemocratico” ed “elitario” contraddirli».

In questo modo, però,

«la democrazia (…) è diventata una questione di rabbia e di risentimento. (…) Gli esperti vengono derisi e definiti elitari, uno dei tanti gruppi che opprimerebbe “noi, la gente”, espressione ormai usata in modo indiscriminato dagli elettori con il significato di “me”. Le consulenze degli esperti o di chiunque venga percepito dai profani come “élite” – cioè quasi tutti tranne loro – vengono respinti per principio. Nessuna democrazia può andare avanti in questo modo» [20].

Pur fondandosi sul fraintendimento, questo fenomeno – spiega Nichols – è in realtà rafforzato da concrete concause materiali, per esempio che non poche classi di esperti usino realmente le loro competenze per costruire delle élite [21], o che, sempre più spesso, gli stessi esperti non siano poi così competenti, a causa del costante peggioramento della qualità delle istituzioni educative trasformate in aziende (costrette ad accaparrarsi gli studenti come fossero “clienti” e perciò sempre più clementi verso le loro mancanze). Problemi reali, che a loro volta spingono le democrazie verso la tecnocrazia, quando non l’oligarchia, ma la cui soluzione non è certo quella di abolire la competenza, equiparando ogni opinione a conoscenza ben fondata.

Questo fenomeno è ciò che in Italia abbiamo vissuto con l’ondata dell’“uno vale uno”, non casualmente connesso alla mitologizzazione della rete, strumento “democratico” – tutti possono accedervi biunivocamente – e “libero” – non vi sono filtri o censure [22] – investito di proprietà rivoluzionarie, se non addirittura salvifiche, capaci di permettere a chiunque di aggirare le famigerate élite e di attingere in prima persona alle “vere” informazioni.

Purtroppo, com’è ben noto e come spiega lo stesso Nichols [23], le cose non stanno così: proprio perché non ci sono filtri, su Internet si trova di tutto, tanto che è stata coniata la cosiddetta “legge di Sturgeon”, secondo la quale «il 90% di ogni cosa è spazzatura»[24], per cui è sempre possibile trovare conferme a qualsiasi bislacca opinione, la fiducia nella quale è maggiore proprio per chi sia meno competente, come provato dall’“effetto Dunning-Kruger”, dal nome dei due psicologi ricercatori che lo hanno scoperto, per il quale le persone di modesta competenza e non specializzate «non solo giungono a conclusioni erronee e compiono scelte infelici, ma la loro incompetenza le priva della capacità di rendersene conto» [25]. Ne consegue così che

«Nelle varie contese delle campagne contro il sapere costituito, internet è come l’artiglieria di supporto: un bombardamento costante di informazioni random, sconnesse, che piovono addosso allo stesso modo agli esperti e ai cittadini comuni, assordando tutti noi e facendo saltare in aria qualsiasi tentativo di discussione ragionevole»[26].

abitare-la-complessita-189549L’impossibilità del dibattito pubblico

È infatti quanto accaduto nei due casi di thauma che stiamo trattando: ogni volta che si è cercato di dialogare per provare a capire le differenze nella lettura degli eventi, si è stati regolarmente sommersi di links che supportavano le rispettive parti contendenti, selezionati senza spirito autocritico, bensì seguendo il «bias di conferma» [27], che fa concentrare sulle informazioni favorevoli a ciò che già si sa e che si vuol sostenere. A ogni confutazione di un link ne seguivano immediatamente altri dello stesso tenore, spesso con la stessa informazione già confutata nei fondamenti e risalente in ultima istanza alla medesima fonte, ma riportata da un nuovo sito internet, quasi che – come avviene nelle fedi religiose – il numero dei credenti fosse prova della sua correttezza, della sua “verità”.

In questo modo il dibattito pubblico, momento della società civile fondamentale per la vita democratica, diventa impossibile e viene sostituito da una sterile contesa agonistica:

«il dibattito pubblico su qualsiasi argomento si trasforma in una guerra di trincea il cui obiettivo principale è stabilire che l’altra persona si sbaglia. Ragionevoli differenze di opinione si riducono a una scadente discussione tra liceali in cui lo scopo è vincere e i fatti sono schierati come pedine su una scacchiera – senza mai raggiungere il livello degli scacchi – soprattutto per contrastare altri fatti»[28].

Apparentemente non è qualcosa di molto diverso da quel che accade nel confronto politico pratico, per esempio in campagna elettorale, dove gli interlocutori si confrontano per vincere e sono perciò attenti solo alle debolezze dell’altro, cosa che gli spinge a mostrare solo il loro lato forte, le loro ragioni, nascondendo le debolezze [29]. Ma in realtà qui c’è un vero e proprio salto di qualità, in negativo, perché il gioco retorico-agonistico non riguarda più solo il contesto ideologico di valori e/o strategie per attuarli – come per esempio nella competizione tra una concezione liberista e non egualitaria della società versus una socialista egualitaria – bensì i dati empirici su cui si gioca lo scontro – per restare all’esempio, l’esistenza o meno di diseguaglianze nel mondo.

Questo salto di qualità all’indietro del dibattito è reso possibile da due fattori: il primo è che, come abbiamo visto, è giustappunto una situazione nella quale nessuno ne sa abbastanza da poter dare soddisfacenti spiegazioni dei fatti; il secondo, la già osservata sfiducia nelle élite. Il primo fattore ha una sua ragion d’essere, che tuttavia viene ampliata in modo inconsulto: il fatto che non si sia in grado di spiegare completamente i fatti (non si sappia esattamente da dove provenga il virus Sars-Cov2, come funzioni, perché in certi Paesi abbia deflagrato e in altri sia rimasto silente, come debellarlo, ecc.) non implica né che questi si possano mettere in dubbio (che il virus non ci sia, non abbia prodotto i danni riportati dagli organi competenti, non abbiano valore misure profilattiche di efficacia almeno parzialmente provata, ecc.). Il secondo è quanto supporta la degenerazione del primo: essendo “élite” anche coloro che riportano i dati – giornalisti, medici, scienziati, istituzioni amministrative – diventa legittimo diffidare delle loro voci.

51xwfvani9lLa cultura della sfiducia e la sua genesi

Si è così arrivati a un punto cruciale di queste riflessioni: come spiegare la dilagante diffusione della sfiducia nelle élite e nelle istituzioni amministrative che dà origine al problema epistemologico? Le ragioni ovviamente sono molte e complesse, tanto che è assai diffusa la tentazione di semplificarle attraverso spiegazioni riduzionistiche, più facilmente padroneggiabili e trasformabili in risposte operative. Tra coloro che hanno cercato di evitare questo rischio c’è il sociologo Marco Revelli, il quale nel suo La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite [30] – riprende e sintetizza alcuni suoi studi su aspetti diversi della società per provare a dar conto della cultura populista, che poggia proprio sulla sfiducia nelle élite. La sua analisi si articola su tre “chiavi”, che corrispondono ad altrettante “crisi”: della democrazia, della forma partito, economica.

La prima, palpabile e perfino misurabile con il calo costante, vistoso e generalizzato in tutti i Paesi della partecipazione al voto, è a tal punto connessa con la sfiducia da aver dato origine persino al titolo di un importante libro di Pierre Rosanvallon: Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia [31]. Si tratta, scrive Revelli, della «messa in stallo della democrazia come metodo per arrivare a decisioni condivise» [32], che ha progressivamente portato al rifiuto della politica così come la si era concepita per tutto il Novecento, ossia come rappresentanza. All’origine c’è certo il fallimento delle promesse della democrazia rappresentativa, connesso al ben noto venir meno degli ideali e al cosiddetto “pensiero unico” affermatosi dopo la fine dell’URSS e alla caduta del Muro di Berlino – il neoliberismo. Si tratta di quella che Thimoty Snyder ha chiamato «politica dell’inevitabilità» [33] e che si è soliti far risalire al famoso TINA (“There Is No Alternative”) – slogan prediletto da Margareth Thatcher – e alla tesi della “fine della storia” dell’economista Francis Fukuyama [34].

Quel fallimento, tuttavia, a ben guardare era fin dall’inizio inscritto nel codice genetico della democrazia rappresentativa, come mostra l’analisi della seconda “crisi”, quella della forma partito. Come già evidenziato all’inizio del Novecento da Robert Michels, nel suo monumentale Sociologia del partito politico [35], la democrazia rappresentativa non può vivere senza la rappresentanza organizzata: la semplice molteplicità di cittadini non può infatti, per sua natura, costituirsi in un corpo che sia rappresentabile; diventa perciò necessario unire gli individui all’interno di un soggetto collettivo, appunto il partito, che organizzi in modo unitario le loro idee e aspirazioni, i loro interessi e bisogni, così da poterli rappresentare collettivamente. Purtroppo, lo stesso Michels aveva anche mostrato quella che aveva chiamato «ferrea legge dell’oligarchia»:

«l’idea, cioè, che ogni processo democratico – ogni tentativo di dare forma alla partecipazione di massa alle decisioni politiche – sia destinato, inevitabilmente, a subire una torsione in senso oligarchico. A produrre strutture gerarchiche nelle quali una minoranza domina la maggioranza e decide per essa» [36].

La costituzione dei partiti in élite non sarebbe quindi tanto una deriva accidentale, quanto una necessità strutturale, del resto evidenziabile ben prima dell’insorgere della sfiducia nei loro confronti, iniziata a fine secolo: che i partiti avessero anche in precedenza delle strutture oligarchiche è infatti un dato inconfutabile. Come si spiega dunque che essa sia stata a lungo tollerata e poi, in breve tempo, abbia prodotto la dilagante sfiducia cui abbiamo assistito all’alba del Terzo Millennio?

Anche in questo caso le ragioni addotte da Revelli sono molteplici e complesse. Le potremmo qui sintetizzare osservando che l’organizzazione che aveva caratterizzato la forma partito è strutturalmente la medesima che aveva a lungo contraddistinto il mondo del lavoro, in particolare quella della fabbrica fordista: divisione del lavoro, struttura piramidale delle responsabilità, isolamento quasi religioso dell’interno dall’esterno, così da far funzionare la “macchina” trasformando anche ogni membro in un ingranaggio. Un tal tipo di organizzazione, però, richiede alti costi per essere attuata: molto personale, una filiera diretta, grandi scorte di magazzino, ed è di conseguenza andata in crisi nel versante aziendale con la saturazione dei mercati e la concorrenza internazionale prodotta dall’aumento di circolazione di merci, personale e informazioni, ossia da quel che chiamiamo globalizzazione.

Ma, mentre le aziende si sono adeguate passando al modello organizzativo della lean production, o toyotista (dal nome dell’azienda che per prima lo sperimentò), il partito ha tardato ad adeguarsi e, quando lo ha fatto, i risultati non sono stati i medesimi. Il taglio del personale – referenti locali dei rappresentanti nei Parlamenti, dirigenti delle capillari strutture sul territorio, corpi intermedi tra la politica nazionale e gli elettori – e delle strutture – sedi di partito, scuole di formazione per quadri, strutture di informazione e di supporto per i militanti, ecc. – hanno progressivamente dissolto il legame che fino ad allora esisteva tra l’organo di rappresentanza collettiva e i rappresentati. È venuto meno in tal modo il riconoscimento di autorevolezza che precedentemente rendeva tollerabile (quando non addirittura un valore) l’esistenza di una élite, cosicché l’inevitabile oligarchia dei partiti ha iniziato a essere vista come una mera casta. Si aggiunga a questo che i “costi della politica” sono a lungo cresciuti lo stesso [37], a causa della trasformazione della contesa elettorale in un vero e proprio “mercato”, gestito attraverso metodi commerciali – pubblicità, passaggi televisivi e radiofonici a pagamento, eventi non più sostenuti da una militanza volontaria ormai in caduta libera –, destando nei cittadini ancor più l’impressione che i loro contributi fossero utilizzati dall’élite a suo esclusivo e nobiliare vantaggio.

Su quest’ultimo aspetto, sul quale peraltro ci sarebbe molto da discutere [38], hanno fatto leva i movimenti della cosiddetta “antipolitica”, aggregatisi progressivamente all’insegna della logica populista.

9788858134078Fenomeno e cultura populista

Come ben osserva Revelli, “populismo” è un termine assai difficile da usare, per la sua ambivalenza e per la complessità fenomenologica a cui rimanda, tant’è che spesso viene impiegato più per denigrare l’avversario che per definirne le caratteristiche. Il sociologo torinese ne analizza alcuni degli studi più acuti e approfonditi, in primo luogo l’interessantissimo La ragione populista di Ernesto Laclau [39] e le considerazioni critiche su di esso svolte da Slavoj Žižek in In difesa delle cause perse [40].

Il primo, con un’analisi accuratissima che fa un uso, peraltro non indispensabile, di strumenti psicoanalitici lacaniani, sostiene che il populismo sia «un modo di costruire il Politico» [41] e mostra come esso funzioni da aggregante per tutti coloro che abbiano rivendicazioni che non trovano un referente rappresentativo tradizionale, attraverso la costruzione – che, seguendo Cornelius Castoriadis [42], potremmo definire “immaginaria” – di un “popolo” la cui identità è volutamente indeterminata e ruota attorno a un contenuto rivendicativo altrettanto indeterminato, se non addirittura vuoto, così da poter funzionare per tutte le rivendicazioni non rappresentate. Questo comporta una distinzione del politico di tipo orizzontale – “noi” versus “altri”, esemplificabili con le contrapposizioni “popolo versus élite” o “cittadini versus immigrati” – invece che verticale – com’era il caso della tradizionale distinzione per classi. In questo senso, per Laclau il populismo non sarebbe un’ideologia, ma uno strumento strategico neutrale, e proprio per questo avrebbe reso obsoleta l’antica distinzione tra destra e sinistra.

Su quest’ultimo punto dissente però Žižek, in parte seguito da Revelli, secondo il quale il carattere di contenitore vuoto, indeterminato, renderebbe il populismo necessariamente inconcludente, anzi addirittura

«una mistificazione, il cui “gesto fondamentale è il rifiuto di confrontarsi con la complessità della situazione” preferendo al sostanziale antagonismo un suo surrogato riduttivo nella forma del conflitto contro figure pseudo-concrete (dalla burocrazia di Bruxelles agli immigrati clandestini). Per questo – dice in sostanza Žižek – il populismo, cosí come teorizzato da Laclau, “è, per definizione, un fenomeno negativo, un fenomeno basato su un rifiuto, persino un’ammissione implicita di impotenza”»[43]

In questo senso, il populismo conterrebbe per Žižek addirittura «una tendenza a lungo termine protofascista» [44], nella misura in cui ha necessariamente bisogno – a garanzia dell’esistenza di un “popolo” in sé privo di caratterizzazioni che lo definiscano – di un “altrove” e di un nemico, «il cui annientamento restaurerà equilibrio e giustizia»[45].

La rassegna dei fenomeni populisti fatta da Revelli tende in effetti a confermare le considerazioni critiche del filosofo sloveno: dagli USA all’est Europa, passando per gli eventi della Brexit e per la trasformazione del sistema politico in Italia, il populismo recupera il cosiddetto voto di protesta dei cittadini penalizzati dalle promesse non mantenute, secondo linee arcaiche che ovunque contrappongono dal punto di vista territoriale «centro/periferia, città/campagna, borgo/contado» [46], da quello sociale alto/medio-basso livello di cultura, informazione, reddito, aspettative. Le analisi del voto in Italia con l’avvento dell’ondata gialloverde arrivano a mostrare come il voto populista si manifesti persino a livello di quartiere, prevalendo in quelli più poveri e degradati, mentre nei centri storici o nelle zone residenziali “bene” si afferma il voto per i partiti tradizionali e, in particolare, per il PD, che da rappresentante dei meno abbienti si trasforma in “partito dei primi” [47].

Tuttavia, il montante successo del populismo non porta alcun vantaggio concreto e strutturale agli elettori che lo votano e che esso rappresenta: questo è evidentissimo negli USA, dove Donald Trump, prova vivente delle abnormi diseguaglianze sociali, cresciute a dismisura negli ultimi venti anni e che egli non ha fatto niente per fermare, ciononostante cavalca e alimenta l’onda populista antisistema; ma è evidente anche altrove, perché nessun partito o movimento populista mette mano al ripristino di tassazioni progressive, a regolamentazioni delle speculazioni economiche o al riassesto del sistema sanitario. A parte sporadici, limitati e occasionali interventi di supporto alla povertà, ci si concentra soprattutto solo sul consolidamento di quel “contenuto vuoto” che permette la coesione di tutti i cittadini delusi e antagonisti, a prescindere dalle loro istanze individuali: il “noi” del “popolo” contro un “loro” che, a seconda dei momenti e dei Paesi, possono essere i politici, le multinazionali, l’Unione Europea, gli immigrati, e via dicendo. Né si salvano dalla deriva populista i giovani rampanti che a parole dicono di opporvisi, come dimostrano il caso francese di Macron e quello italiano di Renzi, entrambi privi di radicamento territoriale, entrambi sorti dal nulla in contrapposizione alla vecchia oligarchia politica, entrambi votati con bassissima convinzione del programma proposto [48] e in sostanziale assenza di provvedimenti atti a modificare la situazione a vantaggio degli elettori più sofferenti.

Il clima culturale che sostanzia i movimenti populisti – e che questi a loro volta alimentano per recuperare i cittadini delusi dal letale composto di oligarchia politica e crisi dell’economia globalizzata – è appunto quello che abbiamo visto imperversare nelle due occorrenze di thauma degli ultimi due anni e mezzo: sorpresi e sconcertati da problemi complessi, impotenti a fronteggiarli, sollecitati a farlo con dei costi di qualche rilevanza sulle loro esistenze – le limitazioni profilattiche e i loro costi economici per la pandemia, il rischio di coinvolgimento nel conflitto e, di nuovo, le conseguenze economiche per la guerra – i cittadini non rappresentati hanno prima rigettato le soluzioni proposte da istituzioni ed esperti – le élite per antonomasia –, poi rifiutata anche la realtà che le rendeva necessarie. I presupposti e le modalità erano gli stessi: radicale diffidenza per la rappresentanza istituzionale e per i media; prevalenza delle emozioni, per loro natura individuali e autocentrate, sui fatti definiti intersoggettivamente; incapacità di affrontare la complessità e l’indecidibilità delle situazioni, per l’urgenza di risolverla e/o per l’assenza di strumenti; semplificazione del quadro attraverso interpretazioni ad hoc, spesso di natura mitologica (tipici il complottismo e il capro espiatorio); polarizzazione e radicalizzazione del confronto, con trasformazione dell’interlocutore in “altro”, quando non sua demonizzazione in “nemico”. In questi casi però, complice la natura di thauma degli eventi, gli esiti sono risultati particolarmente estremi, dando luogo appunto a un problema epistemologico che in precedenza era emerso in tutta la sua evidenza solo in rari casi – per esempio, quello della summenzionata rivolta statunitense di Capitol Hill e nei suoi strascichi – e altrimenti limitatosi a singoli aspetti della realtà – come quelli noti come “realtà percepita”, totalmente diversa dalla realtà oggettivamente riscontrabile, quali il numero di immigrati o di islamici presenti nel Paese [49].

9788862200073_0_536_0_75Il problema epistemologico

La questione epistemologica è appunto il culmine – e il cuore – di tutto il problema. A prescindere dalle dinamiche che ne sono causa e che abbiamo cercato sommariamente di indicare, essa si articola essenzialmente su due cardini: l’incapacità di affrontare la complessità del conoscere e gli standard in base ai quali si argomentano le singole conoscenze.

Del primo tema si sono occupati tra gli altri Mauro Ceruti e Francesco Bellusci [50], i quali – rifacendosi anch’essi a Žižek – si soffermano sul fenomeno populista, giudicandolo

«un rifiuto di comprendere, un’esasperazione nei confronti della complessità, e la conseguente convinzione che ci deve essere un responsabile per tutto il disordine, motivo per il quale si va alla ricerca di qualcuno che stia agendo dietro le quinte e che costituisca la spiegazione di tutto» [51],

e lo riconnettono alle diffuse reazioni osservate durante la pandemia:

«diventa comodo placare le proprie paure, la minaccia di un pericolo e i propri istinti aggressivi proiettandoli sull’altro, pensato come radicalmente diverso, e assecondare, per questa via, pulsioni arcaiche e sacrificali. Il che è accaduto anche in occasione dell’epidemia del Coronavirus: la riluttanza ad accettare la possibilità dell’improbabile e l’idea che l’ignoto è inseparabile dai progressi della conoscenza ha fatto sì che subito si insinuasse nelle menti il pregiudizio, chiaramente inconsistente, che una precisa etnia fosse portatrice congenita del virus oppure il pregiudizio, in Europa, secondo cui precise nazionalità fossero per definizione colpevoli di comportamenti indisciplinati e irresponsabili» [52].

Rifacendosi in ultima istanza al prospettivismo di Nietzsche, ma andando oltre i suoi esiti sterilmente nichilistici, i due studiosi indicano come rimedio il superamento della semplificazione di matrice cartesiana e l’assunzione del “paradigma della complessità”:

«il pensiero complesso è il pensiero della “distinzione-congiunzione”, in alternativa alla tendenza a semplificare arbitrariamente la complessità privilegiandone alcuni aspetti ed escludendone altri, tipica del pensiero disgiuntivo e binario»[53].

In questo senso,

«la complessità è il risultato di un modo di rapportarci alla realtà e non la “cosa in sé”. Invita ad assumere lucidamente i nostri modi di configurare, rappresentare, modellare concetti, nel tentativo che facciamo di conoscere le cose e affrontare un problema» [54],

laddove invece

«il populismo enuncia vie semplici, piene di speranze, ma impraticabili. Per questo, suscitare false speranze senza tenere conto della complessità del reale, e senza valutare i rischi di una politica che potrebbe aggravare maggiormente la sofferenza, significa solo strumentalizzare la sofferenza per scopi politici fondati sulla conquista del potere o per la sollecitazione di fantasie ideologiche» [55].

61xooioof5lDi contro alla semplificazione, alla frammentazione e specializzazione disciplinare e alla conoscenza parcellizzata tipici del metodo cartesiano, che fanno bancarotta di fronte a fenomeni planetari e globali – com’è stata la pandemia, ma come sono anche il problema ambientale che minaccia l’ecosistema in cui tutti viviamo e la ristrutturazione dell’economia globalizzata che produce diseguaglianza e povertà – o inattesi e non padroneggiabili nell’immediato – come sono stati tanto la pandemia, quanto lo scoppio della guerra in Ucraina – «il metodo della complessità conduce alla conoscenza contestuale e pluridisciplinare e all’insegnamento interdisciplinare e transdisciplinare» [56], i quali possono consentire di produrre una sinergica interazione umana capace di «elaborare nuove e inedite sintesi dialogiche» [57], così da unificare le differenze e superare ogni polarizzazione, ogni scontro escludente, ogni “noi” versus “loro”.

Non è difficile rendersi conto che siamo di fronte al moderno – o forse post-postmoderno – riproporsi di quel che ha dato vita alla filosofia nell’antichità greca: la finitudine e l’impotenza dell’uomo di fronte a problemi prima facie indominabili e alla difficoltà di prendere decisioni democratiche. Oggi come allora viene evocata la necessità della sospensione pro tempore di ogni tenzone pragmatica, a vantaggio della chiamata in causa di una comprensione riflessiva e sistematica – cioè complessa – dei problemi, svolta dialogicamente da tutti i cittadini. La quale tuttavia mette in gioco anche il secondo cardine cui facevamo riferimento e che potremmo emblematicamente chiamare problema della verità.

Com’è noto, negli ultimi anni si è affermata l’espressione “post-verità”, messa in evidenza forse per la prima volta nel 2004 [58] e poi eletta nel 2016 a “parola dell’anno” dall’Oxford Dictionary [59]. Tra i molti che si sono occupati del fenomeno c’è Maurizio Ferraris, il quale lo descrive come

«l’atomismo di milioni di persone convinte di aver ragione non insieme (come credevano, sbagliando, le chiese ideologiche del secolo scorso), ma da sole o meglio con il solo riscontro del web»[60].

Pur scaturendo dalla “crisi della verità” del nichilismo otto-novecentesco, la post-verità usa quest’ultimo per andare oltre l’affermazione che “niente è vero” e approdare al trivialismo, per il quale “tutto è vero” e, quindi, ciascuno può avere una verità privata – può, in altre parole, affermare come vero ciò che più gli piace [61]. Esattamente quel che abbiamo visto all’opera negli ultimi due anni.

Ma una tale concezione della verità è possibile? Ha senso? Oppure finisce per collassare su se stessa e per produrre necessariamente effetti concreti deflagranti, come appunto quelli di Capitol Hill o come gli agghiaccianti scontri dei periodi pandemico e bellico?

Dell’argomento si è più volte approfonditamente occupata Franca D’Agostini, affrontandolo in modo sia strettamente teoretico [62], sia maggiormente legato al dibattito pubblico [63]. Essa definisce la verità come «una proprietà inferenziale, o riflessiva: serve a effettuare “ascese semantiche”, come diceva Quine, ossia a passare “dal parlare del mondo al parlare di parole”» [64]; una proprietà che assegniamo alle cose grazie a «la funzione concettuale (o se si vuole l’atto o operazione mentale) che attiviamo quando diciamo o pensiamo “è vero”, “è falso”, “non è vero”» [65]. Che di tali proprietà e funzione concettuale non si possa fare a meno è testimoniato sia dall’evidenza che, di fatto, nessuno ne faccia mai a meno – a parte forse il nichilista estremo –, sia dalla ben nota dimostrazione apagogica, pragmatica della verità, risalente a Platone e Aristotele – che mette in mora anche il nichilista estremo – per la quale se la proposizione “la verità non esiste” è vera, allora è la prova dell’esistenza della verità, se invece è falsa, allora semplicemente la verità esiste. Tralasciando qui le questioni teoretiche che sono state su questo sollevate e che rimandano alle interpretazioni delle logiche “non standard”, anche perché tali logiche non sono quelle che si usano nel dibattito pubblico che adesso ci interessa, resta il problema del modo – o anche dei molteplici modi – in cui in quest’ultimo si utilizzano quella proprietà e quella funzione.

ferraraUn tale problema ci rimanda, ancora una volta, alla filosofia e alla sua origine, poiché il progetto che guidava Socrate nell’Atene del V secolo a.C. era appunto quello di individuare, di volta in volta, a quale delle molteplici cose papabili fosse da attribuire la proprietà “vero” (o quantomeno a quali cose detta proprietà non si potesse proprio attribuire, svelando se non la verità, quantomeno la menzogna), e di farlo dialogicamente, in pubblico dibattito, attraverso la corretta attivazione della funzione concettuale. Si trattava cioè di un progetto epistemologico, riflessivo, dedito all’analisi degli argomenti usati di volta in volta per definire una cosa “vera”; un progetto indispensabile in situazioni critiche (come sono i casi di thauma), laddove cioè gli strumenti semplici, pragmatici per stabilirlo siano per qualche ragione incapaci di farlo con affidabile certezza. È per questa ragione che la stessa D’Agostini afferma che

«la filosofia, con i suoi concetti fondamentali, è una disciplina (o meglio un’attività) d’emergenza: diventa importante in circostanze critiche, quando è difficile dire questo è vero, questo è giusto ecc., e al tempo stesso sembra necessario dirlo» [66],

e che essa, usata nel dibattito pubblico, ha per obiettivo

«difendere chi è vittima dell’inganno, chiunque egli sia, e smascherare la stupida furbizia o la sventurata malattia degli ingannatori» [67].

9788833923055_0_536_0_75Un tale progetto guidava l’articolo che lo scorso anno dedicai al dibattito pubblico avvenuto nella prima fase della pandemia [68], nel quale cercavo di mostrare come, a prescindere dalle posizioni che venivano assunte e difese, gran parte degli argomenti addotti fosse fallace; una cosa ripetutasi in seguito e, nuovamente, ripropostasi nel dibattito oggi in corso sulla questione della guerra in Ucraina [69]. Ma tale progetto richiede il distacco – critico, metodologicamente scettico, atarassico – dalla competizione sulle idee, l’accantonamento della “cultura della diffidenza” e delle “teorie del sospetto”, la disponibilità a esporsi mettendo in discussione le proprie stesse convinzioni fino alla possibilità di cambiarle e, soprattutto, una più diffusa competenza filosofica [70] e logico-argomentativa,

«la competenza logica e argomentativa, di cui tutti i cittadini devono disporre, e che deve essere spinta fino al punto in cui l’abilità retorica incontra le sue ragioni filosofiche»[71].

Solo con essa sarà possibile a tutti

«Riesaminare quel che sappiamo circa la natura degli argomenti, e la combinazione di validità formale, verità, efficacia, che li rende (di principio) “buoni” argomenti, per districarsi nella comunicazione caotica e malata che caratterizza il dibattito pubblico»[72].

Solo in questo modo potremo uscire dal trivialismo della post-verità e dal rissoso clima di diffidenza che ha torbidamente inquinato l’aria negli ultimi anni, condizione necessaria per poter tornare a provare a costruire assieme la nostra realtà condivisa, la nostra verità intersoggettiva: una verità, cioè, non assoluta e con la V maiuscola, ma che sia la sintesi dialogica, ricca di varianti e sfumature, dei rispettivi punti di vista su una realtà che possa essere la stessa per tutti, senza la quale la convivenza civile, la pace, ma anche il solo “buon vivere” di tutti abitanti del pianeta sono e resteranno impossibili. 

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022 
Note
[1] Günther Anders, L’uomo è antiquato. 1. considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003 (ed. or. Die Antiquiertheit des Menschen Band I: Über die Seele in Zeitalter der zweiten industriellen Revoluzion, Verlag Beck’sche, München 1956).
[2] Marco Revelli, La politica senza politica, Einaudi, Torino 2019.
[3] Neri Pollastri, La Caporetto del pensiero razionale. Una lettura pratico-filosofica della pandemia, “Dialoghi Mediterranei”, 46, 2020, www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-caporetto-del-pensiero-razionale-una-lettura-pratico-filosofica-della-pandemia/.
[4] Che ciò non fosse accaduto ovunque è un fatto, ma nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione conclusiva sulle cause di questa disparità, dipendendo ciò da una molteplicità di fattori che tutt’oggi si fatica a raccogliere in una lettura organica.
[5] Va osservato i non vaccinisti coincidevano in larga misura con i “negazionisti” della prima fase della pandemia, che respingevano l’applicazione di misure profilattiche fastidiose sostenendo che, in fondo, il virus non fosse altro che un’influenza e, spesso, anche che le morti mostrate dai media e dalle istituzioni fossero solo una mistificazione se non proprio una messa in scena.
[6] Per quanto vale l’esperienza diretta, sono stato personalmente informato da una persona laureata e apparentemente ben informata, della morte, a causa del vaccino, di centinaia di bambini, quando però per quella categoria non ne era ancora neppure stata autorizzata la somministrazione (sic!).
[7] È doverosa la precisazione, perché chi scrive ha avuto il piacere di conoscere più persone che, per non vaccinarsi, hanno accettato di buon grado le limitazioni del green pass, ovviamente senza gioirne, ma anche senza protestare o accusare di totalitarismo che lo aveva istituito, comprendendone il senso funzionale.
[8] Ovviamente in primo luogo il riferimento è a intellettuali come Massimo Cacciari, Giorgio Agamben o Ugo Mattei, ma i nomi meno noti sono molti, sebbene anche in questo caso largamente minoritari.
[9] Gli esempi sarebbero innumerevoli, qui possiamo limitarci a ricordare le gaffe di Massimo Cacciari, che – con la medesima grossolana logica dei propagandisti del web – ha pubblicamente richiesto cosa ne pensasse di certe misure la Corte Costituzionale dopo che essa si era già pronunciata positivamente, oppure citato a sostegno della protesta siti internet incontrollabili (proprio lui, che dell’inaffidabilità della rete è da sempre un censore), citando studiosi inesistenti e teorie del tutto inconsistenti.
[10] In una fase, a cavallo tra il 2021 e il 2022, tutti i data base degli ospedali di tutta Europa segnalavano la massiccia presenza nelle terapie intensive di un numero tra le dieci e le venti volte superiore di non vaccinati, se rapportati al numero dei cittadini che avevano praticato la profilassi e nonostante fossero loro imposte le limitazioni del green pass.
[11] Da questo punto di vista erano del tutto inconsistenti le obiezioni che sottolineavano il maggior carico di privazioni del green pass rispetto al ritiro della licenza di guida: primo, perché strutturalmente si trattava del medesimo tipo di “garanzia” per la sicurezza degli altri; secondo, perché anche il rischio pubblico era ben più alto, trattandosi non della possibilità di investire una persona o un gruppo ristretto, bensì di diffondere a macchia d’olio un virus, con conseguenze potenzialmente amplissime.
[12] Mentre scrivo siamo al cinquantesimo giorno di guerra, sembra essere caduta Mariupol, ma perfino da parte russa si è sorprendentemente iniziato a riconoscere che le cose non sono andate come previsto.
[13] Per esempio la percentuale di neonazisti in Ucraina è stimata al 2%, presumibilmente non lontana da quella stimabile in Italia, che Zelensky è ebreo e perciò difficilmente al servizio dei neonazisti, che gli Stati Uniti avevano offerto subito a Zelenzky una via di fuga che avrebbe interrotto la guerra già ai suoi albori.
[14] A Zelensky, che ha alle spalle una carriera di comico di successo, è stata attribuita la proprietà di un “palazzo” sulla costa toscana che in realtà è un immobile che in Italia potrebbe possedere una famiglia delle media borghesia, ed è stato spesso demonizzato per il fatto di curare il dettaglio scenografico dei suoi comunicati video, inviati al resto del mondo per chiedere aiuti, cosa che – in una società dell’immagine quale purtroppo è la nostra – è condizione della buona riuscita della comunicazione.
[15] La strage di Bucha è stata dichiarata da molti una messa in scena, ma l’unica fonte che accreditava questa interpretazione è quella… russa, parte in causa e la cui malfamata propaganda è nota per la sua inaffidabilità, come tra gli altri documentato dal libro (pubblicato prima dello scoppio del conflitto) di Marta Federica Ottaviani, Brigate Russe. La guerra occulta del Cremlino tra troll e hacker, Ledizioni, Milano 2022.
[16] Sebbene pochi, qualcuno ha persino ipotizzato che fosse in larga parte una messa in scena.
[17] Mi riferisco qui all’incredibile processo di colpevolizzazione dell’Ucraina, accusata di essere culla di neonazisti, e al suo Presidente, accusato di un po’ di tutto, funzionale a giustificare il sottrarsi a offrire una qualche forma di esplicita “alleanza”.
[18] L’esempio non è per niente campato in aria, anzi deriva dalla mia esperienza di filosofo consulente.
[19] Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2018 (ed. or. The Death of Expertise. The Campaign Against Established Knowledge and Why it Matters, Oxford University Press, Oxford 2017).
[20] Op. cit., Conclusione, § 5.
[21] Il fenomeno è stato denunciato in Italia tra gli altri da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo nei loro libri La casta (Rizzoli, Milano 2007) e La deriva (Rizzoli, Milano 2008).
[22] In realtà questo è vero fino a un certo punto, ma pochi conoscono i modi in cui è possibile “controllare” le informazioni della rete, ben utilizzati però tanto dalle organizzazioni di propaganda che diffondono fake news e persino dalle grandi aziende, dotate di personale costantemente attivo per rimuovere o correggere le informazioni nocive ai loro affari.
[23] Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici, cit., Capitolo 4.
[24] Ibidem.
[25] D. Duning e J. Kruger, Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One’s Own Incompentence Lead to Inflated Self-Assessments, in “Journal of Personality and Social Psychology”, 77, a. 6, Dicembre 1999: 1121-1122.
[26]  Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici, cit., Capitolo 4.
[27] Op. cit., Capitolo 2, § 3.
[28] Op. cit., Capitolo 2, § 1.
[29] Ho trattato questo tema nel mio La vita filosofica è una vita politica (in S. Zampieri (a cura di), La vita filosofica è una vita politica, Liguori, Napoli 2012), riprendendo quanto elaborato da Vittorio Hoesle in Moral und Politik. Grundlagen einer  politischen  Ethik für das 21. Jahrhundert, Beck, München 1997.
[30] Einaudi, Torino 2019.
[31] Castelvecchi, Roma 2012 (ed. or. La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Seuil, Paris 2006).
[32] Marco Revelli, La politica senza politica, cit., Introduzione, § 2.
[33] Timothy Snyder, La paura e la ragione. Il collasso della democrazia in Russia, Europa e America, Rizzoli, Milano 2018 (ed. Or. The Road to Unfreedom. Russia, Europe, America, Tim Duggan Books, New York 2018).
[34] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992 (ed. or. The End of History and the Last Man, Free Press, New York 1992).
[35] Robert Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna: studi sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici, Unione tipografico-editrice torinese, Torino 1912 (ed. or. Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie. Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens, Werner Klinkhardt, Leipzig 1911 (ma il libro era stato scritto già nel 1903).
[36] Marco Revelli, La politica senza politica, cit., Parte Seconda, Cap. II, §2.
[37] In Italia sono quasi decuplicati nel primo decennio del nuovo Millennio.
[38] Revelli lo fa, con una certa equidistanza, non negando cioè l’esistenza di un indubbio malcostume da parte della classe politica, italiana e internazionale, ma anche sottolineando come quasi ovunque i costi della politica siano sempre rimasti in un ordine tale da essere pressoché ininfluente per la soluzione dei problemi concreti dei cittadini: un’ingiustizia, dunque, senz’altro da risolvere, ma non la più grave e ancor meno la più determinante per la soluzione dei reali problemi sociali dei Paesi.
[39] Laterza, Roma 2008 (ed. or. On Populist Reason, Verso, New York 2005). Merita forse ricordare che il libro di Laclau, fino a qualche anno fa non notissimo in Italia, si dice fosse stato tra le ispirazioni di Gianroberto Casaleggio, fondatore e guru del Movimento Cinquestelle.
[40] Salani, Milano 2009 (ed. or. In Defense of Lost Causes, Verso, New York 2008).
[41] Ernesto Laclau, La ragione populista, cit.: XXXIII.
[42] L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995 (ed. or. L’Institution imaginaire de la société, Seuil, Paris 1975).
[43] Marco Revelli, La politica senza politica, Parte I, Cap. 1, § 9 (la citazione è da Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse, cit.: 335).
[44] Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse, cit.: 350.
[45] Op. cit.: 349.
[46] Marco Revelli, La politica senza politica, Parte I, Cap. 2, § 1.
[47] Op. cit., Parte I, Cap. 3, § 10.
[48] «Un’interessante analisi del voto realizzata da Ipsos/Sopra Steria alla vigilia del secondo turno [del 2017], rivela come solo il 16% degli intenzionati a votare Macron lo facessero sulla base di una condivisione del suo programma, e solo il 9% per la sua personalità. La maggior parte ha scelto la new entry, il giovane comparso come un oggetto misterioso nell’orizzonte politico francese, per «le renouvellement politique qu’il représente» (33%) e «en opposition a Marine Le Pen» (43%), conferendogli dunque un mandato politico assai generico» (Op. cit., Parte I, Cap. 3, § 2).
[49] In proposito si rimanda ai molti e documentati esempi riportati da Nando Pagnoncelli in La penisola che non c’è, Mondadori, Milano 2019, oppure nel ià citato lavoro di Nichols.
[50] Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Mimesis, Milano 2020.
[51] Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse, cit.: 351-2.
[52] Mauro Ceruti, Francesco Bellusci, Abitare la complessità, cit., Introduzione.
[53] Op. cit., 2.4.
[54] Op. cit., 4.1.
[55] Ibidem.
[56] Op. cit., 2.4.
[57] Op. cit., 5.6.
[58] Ralph Keyes, The Post-Truth Era. Dishonesty and Deception in Contemporary Life, St.Martin’s Press, New York 2004.
[59] Word of the Year 2016 is… Post-Truth, sul sito www.oxforddictionaries.com.
[60] Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, il Mulino, Bologna 2017: 146.
[61] Nelle discussioni fatte attorno ai due Thauma di cui trattiamo, a chi scrive è stato più volte riferito dagli interlocutori che la selezione tra le molteplici fonti delle informazioni e/o tra le numerose ipotesi esplicative possibili era stata fatta in funzione non già della loro coerenza, verificabilità, autorevolezza di chi le avanzava, bensì, in ultima istanza, della loro migliore rispondenza ai propri interessi e aspettative (sic!).
[62] Disavventure della verità, Einaudi, Torino 2002; Introduzione alla verità, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
[63] Verità avvelenata, Bollati Boringhieri, Torino 2010; Menzogna, Bollati Boringhieri, Torino 2012; con Maurizio Ferrera, La verità al potere, Einaudi, Torino 2019.
[64] Franca D’Agostini, Menzogna, cit., Introduzione, 2.
[65] Franca D’Agostini, Maurizio Ferrera, La verità al potere, cit., Cap. Secondo, 1.
[66] Franca D’Agostini, Menzogna, cit., Introduzione, 1.
[67] Op. cit., Introduzione, 3.
[68] Neri Pollastri, La Caporetto del pensiero razionale. Una lettura pratico-filosofica della pandemia, cit.
[69] A mo’ d’esempio posso citare una discussione a cui ho partecipato nel mese di aprile su un social network, nella quale era stato riportato un articolo di Marco Travaglio che denunciava la “morte della logica” prodotta dalla guerra, dandone dodici esempi. Ben undici di essi erano effettivamente errori logici, errori commessi tuttavia proprio dallo stesso Travaglio e aventi per obiettivo persuadere retoricamente i lettori. Nessuno della decina di partecipanti alla discussione s’era accorto dell’inconsistenza logica degli argomenti fino a quando non ho loro sottoposto a un’analisi logico-argomentativa dell’articolo.
[70] Da individuarsi, aldilà delle competenze storiografiche, nella capacità di affrontare le problematiche in modo teoretico, sistematico, aperto e non dogmatico.
[71] Franca D’Agostini, Verità avvelenata, cit.: 223.
[72] Op. cit.: 14. 
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Neri Pollastri, filosofo, è nato, vive e lavora a Firenze. Dal 2000, primo in Italia, svolge la professione di consulente filosofico, privatamente e in strutture pubbliche. Sulla materia ha pubblicato tre libri e una cinquantina di articoli, l’ha insegnata in diverse Università ed è stato relatore in convegni italiani e internazionali. Si è occupato attivamente anche del pensiero di G.W.F. Hegel, sul quale ha pubblicato un libro, di filosofia della scienza, filosofia politica e di estetica musicale. Scrive sul blog Filosopolis (filosopolis.wordpress.com), il suo sito Internet è www.neripollastri.it, quello del suo istituto di ricerca e formazione www.istitutodiconsulenzafilosofica.it.

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