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Il cibo degli dèi e degli uomini

copertina-sorgi-001-2di Orietta Sorgi

Il cibo, nelle sue varie declinazioni, è certamente uno degli ambiti privilegiati in cui si manifestano con maggiore evidenza i processi di ominazione, attraverso il passaggio dalla natura alla cultura e la trasformazione delle materie prime in prodotti storicamente determinati. La produzione, la preparazione e il consumo degli alimenti non sono fenomeni collocabili all’interno di un orizzonte naturale, ma al contrario assumono una specifica valenza culturale che, distribuendosi con specifiche peculiarità in tempi e luoghi diversi, in rapporto a occorrenze e a scadenze particolari della vita collettiva, finiscono col rivelare l’identità di un gruppo sociale (Montanari, 2004).

Ogni alimento quindi, quel particolare alimento e non un altro, al di là del suo semplice consumo quotidiano in cui si pone come una risposta immediata al bisogno biologico universale di nutrizione per garantire la sopravvivenza e la continuità della vita, assume un carattere simbolico, comunicativo (Cirese, 1977): funziona come un linguaggio, un sistema di segni, soggetto alle regole dello scambio e della reciprocità, come già Lévi-Strauss aveva osservato.

Da queste considerazioni prende avvio la riflessione di Ignazio Emanuele Buttitta nel suo recente contributo dal titolo I cibi della festa in Sicilia, pubblicato nel 2019 da Cleup Editore, in una nuova collana diretta da Paolo Scarpi. L’antropologo palermitano non è certamente nuovo a questi argomenti, su cui ha fondato il suo lungo percorso di ricerca, sempre attento alle relazioni fra pratiche alimentari e ritualità. Relazioni che rimandano ad un tempo di lunga durata quando l’istituzione del banchetto sacro serviva a rinsaldare i vincoli fra gli uomini e le divinità, fra i vivi e i morti. Presso gli antichi greci e romani, ma anche nelle culture mesopotamiche, la condivisione del cibo, l’offerta e la sua redistribuzione collettiva servivano in altre parole a riconfermare antiche alleanze fra le forze terrestri e quelle oltremondane, ivi compresi i Lari protettori della famiglia.

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Pupi di zucchero

È sorprendente notare come ancora oggi il panorama delle feste siciliane appaia costellato da numerosi eventi conviviali dedicati ai santi e ad altre figure celesti e ctonie, durante i quali il pasto comune assume modalità devozionali fortemente radicate in un passato molto lontano. Ed è proprio al cibo della festa che si rivolge l’Autore, dimostrando, in una scrupolosa quanto dettagliatissima e capillare ricerca etnografica, la straordinaria persistenza in Sicilia di pratiche alimentari e consuetudini antiche, che riaffiorano, ora come allora, in determinate circostanze malgrado le grandi trasformazioni del Terzo Millennio.

In primo luogo è il pane, quello che rivela ancora oggi la sacralità del cibo, la sua valenza offertoria e gratulatoria nei confronti dell’aldilà: non il pane quotidiano, alimento centrale della civiltà mediterranea, che per secoli ha sfamato in Sicilia e altrove, una popolazione contadina oppressa dalla miseria, ma il pane della festa, che assume varie forme simboliche in determinate ricorrenze rituali del calendario religioso (Cusumano 1992). Anche se – a ben riflettere – anche il pane quotidiano, ultimo traguardo del ciclo del grano, richiama, con la sua alterna vicenda del morire sottoterra e rinascere a nuova vita in una spiga verde (Buttitta I.E., 2006) la circolarità di un tempo sacro e la sua periodica ricorrenza. La genesi del pane, il suo modellarsi diversamente in rapporto a specifiche scadenze temporali di un determinato territorio, ne spiega la valenza simbolica, ponendolo come indicatore diretto di momenti liminari dell’anno, nello scorrere e nell’alternarsi delle stagioni, ma anche nei vari passaggi del ciclo della vita individuale e di gruppo.

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Pani votivi di San Calogero, Aragona

Nelle antiche società agropastorali, antropologi e storici delle religioni lo hanno ampiamente dimostrato, i cambiamenti stagionali, dal caldo al freddo e viceversa (Le Goff, 1977), comportavano sempre una certa dose di rischio per i raccolti e dunque per la stessa sopravvivenza del gruppo. Non è un caso che le principali festività dell’anno solare sono, in ultima analisi, feste di rifondazione del cosmo e prevedono sempre l’irruzione del caos nell’orizzonte esistenziale delle comunità umane, attraverso la presenza dei morti o di forze demoniache, estranee comunque all’esperienza quotidiana. I riti e le pratiche alimentari ad essi connesse, esprimono dunque questo bisogno di controllare l’energia vitale e il disordine distruttivo che irrompe nella terra durante le fasi di transizione da una stagione all’altra e da uno status all’altro dell’orizzonte esistenziale dell’uomo (Van Gennep, 1981).

Dalle feste autunnali che annunciano l’arrivo dell’inverno, come la celebrazione dei Defunti o il Natale, alle feste di Primavera come la Pasqua, per arrivare alle feste di inizio e fine estate in ricordo dei santi patroni, si avverte ancora, al di là del significato cristiano che esse rivestono, la circolarità di un tempo sacro che tende a rimuovere i rischi naturali e a superare l’opposizione primordiale vita/morte, irresolubile sul piano della prassi (Buttitta A., 1978). «È proprio nel momento critico della morte – osserva a questo proposito Fatima Giallombardo – che la comunità mette in atto meccanismi di difesa individuali e di se stessa. E cosa meglio del cibo può garantire la continuità della vita, cibo che per il suo simbolismo ormai inconsapevole media le fondamentali contraddizioni vita – morte?”.

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Altare di San Giuseppe, particolare, Salemi

Al sopraggiungere della primavera – come Ignazio Buttitta ampiamente documenta – si verifica in Sicilia la più straordinaria diffusione di cerimonie e pratiche alimentari in onore dei Santi, accompagnate dall’offerta di pani dalle varie morfologie, tutti con funzione di mediazione e controllo del mondo dei morti e dell’alterità in generale. In questi momenti il pane rituale viene donato, scambiato, ricevuto, restituito: è nel carattere del dono che, come ci ha insegnato Marcel Mauss (1902-1903), si riafferma nel gruppo il senso della reciprocità e della condivisione. Mangiare insieme ai Santi, mangiare e offrire il pasto ai propri defunti, equivale a rinsaldare periodicamente la protezione oltremondana sulle comunità dei viventi.

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Altare di san Giuseppe, Gibellina

Un esempio per eccellenza è dato dalle feste di San Giuseppe che si collocano proprio nel momento più a rischio dell’anno, quello della fine dell’inverno e dell’inizio della primavera. L’ostentazione del cibo, quella abbondanza che confina con lo spreco (Lanternari, 1976; Giallombardo 1990; 2003; 2006), esprime proprio questo bisogno di esorcizzare le fasi liminari dell’esistenza, propiziandone attraverso il favore dei Santi, le prospettive future e ponendo le premesse per un nuovo benessere. In molti comuni della Sicilia avviene così un vero e proprio trionfo di pani figurati, che campeggiano sugli altari di legno rivestiti di tovaglie bianche ricamate secondo una sontuosa scenografia, con al centro l’immagine della Sacra Famiglia circondata da pani dalle forme diverse riconducibili da un lato alla simbologia cristiana (il bastone del Santo, il monogramma di Maria e il cucciddato o la stella per il Bambino Gesù), e dall’altro a motivi vegetali, ricorrenti nella società antiche agropastorali. Le mense da offrire ai Santi, denominati “virgineddi” sono colme di pietanze di ogni tipo, spesso su base vegetale con finocchietti di montagna, carciofi e ogni sorta di primizia volte a richiamarne il senso augurale della nuova stagione primaverile. Gli ospiti che vengono invitati alle cene sono generalmente fanciulli che interpretano i componenti della Sacra Famiglia, rievocando l’episodio della fuga in Egitto di Gesù, Giuseppe e Maria. Si tratta, il più delle volte di bambini poveri e bisognosi, figure liminari, “altre” rispetto alla comunità: figure che occorre tutelare, ambivalenti e minacciose, verso cui manifestare col dono e l’ospitalità la propria benevolenza. Da qui l’esigenza di promuovere nel tempo del rito pratiche di scambio e prodigalità come le questue alimentari che mettono in atto attraverso il dono e la redistribuzione del cibo una catena di solidarietà nel vicinato e nella comunità di devoti. Spesso la questua è agita da attori in maschera come i Giudei di Sanfratello o i Diavoli di Prizzi, proprio per confermare la natura altra dei personaggi.

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Pupa con le uova, Lascari

Anche la Settimana Santa, al di là del suo significato attuale che celebra la morte e la rinascita del Dio Salvatore, rivela nella sua ricorrenza antiche pratiche delle società agropastorali rivolte a controllare i rischi connessi alla morte dell’inverno e all’arrivo della primavera. I numerosi pani votivi di questo periodo esprimono il bisogno di rigenerazione della natura e della vita, in particolare quelli con l’uovo, simbolo della cosmogonia (Buttitta A., 1978).

Questa volontà di rinascita e rigenerazione della natura si esprime anche in comportamenti non necessariamente legati al consumo dei cibi, ma che, accanto a questi, concorrono ad affermare il principio della vitalità sulla morte. Si pensi alle corse sfrenate dei portatori di fercoli durante le processioni dei santi patroni, come avviene nelle rigattiate dell’Agrigentino, durante le quali il movimento esasperato del corpo attesta lo sprigionarsi dell’energia vitale in senso augurale.

In definitiva se è vero che gli attuali processi di modernizzazione hanno determinato il declino e l’omologazione di certe pratiche tradizionali, è pur vero che nel tempo della festa il valore rituale degli alimenti si manifesta ancora nel suo carattere di assoluta obbligatorietà (Miceli, 1972). Non c’è festa in Sicilia che non abbia il suo pane devozionale o il suo cibo particolare: dalle forme più note come la cuccia per Santa Lucia o la “sfincia” di San Giuseppe ad altri alimenti meno diffusi ma altrettanto vitali del calendario religioso: uno per tutti la vastedda cu sammucu a Troina per la festa di San Silvestro.

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Moscardini per la festa dei morti

Nonostante la globalizzazione e la comunicazione in rete tenda ad annullare le differenze di spazio e tempo, rendendo tutto accessibile “qui ed ora” – si pensi allo sfincione che da alimento natalizio è divenuto protagonista abituale della cucina da strada – è ancora il cibo a rivelare il bisogno dell’uomo di controllare attivamente il suo orizzonte vitale, riproponendo e ridisegnando, in certi momenti dell’anno, i propri confini e sistemi di orientamento. Il cibo e i cibi mantengono così, malgrado le apparenze e i mutati contesti di fruizione, il ruolo di marcatori dell’identità. «La cucina infatti – ricorda Antonino Buttitta – non appartiene alla storia événementielle, non è iscritta in un ordine storico dai tempi brevi; ma è un fatto storico di lunga durata, è una marca che gli individui si portano dentro non solo dalla culla alla bara ma per l’arco lungo del susseguirsi delle generazioni. Da qui il suo valore identitario, da qui la privilegiata assunzione di essa da parte di tutti i popoli a segno della propria identità» (1981).  Una sfida dunque alle accelerazioni rapidissime del nostro tempo.

Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Riferimenti bibliografici
 Buttitta A.
1978  Pasqua in Sicilia, fotografie di Melo Minnella, Grafindustria, Palermo
 1981  Prefazione, in G.Coria, Profumi di Sicilia. Il libro della cucina italiana, Vito Cavallotto, Catania
 Buttitta I.E.
2006  I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa, Meltemi, Roma
 Cirese A.M.
1977  Oggetti, segni, musei. Le tradizioni contadine, Einaudi, Torino
 Cusumano A.
1992  Per una religione del pane. Le tavolate di San Giuseppe in Sicilia, in «Mythos. Rivista di storia delle religioni», 4: 67-79
Giallombardo
1990  Festa orgia società, S.F. Flaccovio, Palermo
 2003   La tavola l’altare la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Sellerio, Palermo
 2006  La festa di san Giuseppe in Sicilia. Figure dell’alternanza e liturgie alimentari, Fondazione Ignazio Buttitta, Palermo
 Lanternari V.
1976  La grande festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali, Dedalo, Bari
 Le Goff J.
1977  Calendario, in «Enciclopedia Einaudi», vol. II, Einaudi, Torino: 501-534
 Lévi-Strauss C.
1971  Le origini delle buone maniere a tavola, il Saggiatore, Milano
 Mauss M.
1991 (1902-1903) Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino
 Miceli S.
1972  Rito. La forma e il potere, in «Uomo&Cultura. Rivista di studi etnologici» n.10: 132-158
 Montanari M.
2004  Il cibo come cultura, Laterza, Bari
 Van Gennep A.
1981 (1909)   I riti di passaggio, Bollati-Boringhieri, Torino

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

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