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Il borgo del mistero: un viaggio tra mostri, oracoli e tesori incantati delle Madonie

Gratteri (www.visitgratteri.com)

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di Marco Fragale

Monaci alchimisti, creature fantastiche e ricercatori di leggendari tesori nascosti tra i posti più impervi delle Madonie: sono questi alcuni dei protagonisti delle ataviche leggende che avvolgono di suggestione Gratteri, piccolo centro montano della provincia di Palermo, che sempre più visitatori definiscono oggi come il “borgo più misterioso delle Madonie”. Negli ultimi vent’anni, grazie a ricerche sul campo di carattere etnolinguistico, condotte con interviste ai più anziani abitanti del paese, sono stati raccolti significativi racconti popolari che sembrerebbero venuti fuori dalle pagine più affascinanti di celebri romanzi medievali.

Diavoli e anime: l’accesso al mondo capovolto 

Gratteri dal gr. Kratera ‘cratere, vaso, coppa’ [1] è un antico borgo siciliano che sovrasta la costa tirrenica, dominandola, a 670 metri d’altitudine, come un calice sospeso al cielo. L’etimologia del toponimo deriverebbe da un «cratere dal perenne stillicidio dell’acqua all’interno di una grotta denominata Grattàra» [2], o anche dalla «geomorfologia stessa del suo territorio, ossia una conca delimitata da due rupi che si ergono come contrapposti del centro abitato, chiudendo il torrente Piletto in un’angusta e profonda gola “Ucca d’infiernu”» [3].

Gratteri (www.visitgratteri.com)

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Si tratta di un gelido fiumicello che raccoglie le acque del massiccio montuoso di Pizzo Dipilo e attraversa quell’amena vallata dividendo la parte antica dell’abitato dalla nuova, prima di essere risucchiato da una voragine che gli antichi abitanti chiamavano la bocca dell’Inferno” poiché profonda e inaccessibile agli umani [4]. Difatti, racconti autoctoni narrano di un accesso leggendario al mondo capovolto attraverso quella impervia spelonca al di sotto della cittadella madonita, accostabile, come una Gerusalemme siciliana, alla descrizione dell’Inferno dantesco.    

Come spiegano alcune depositarie della tradizione orale, la credenza popolare vuole che, quell’angusto passaggio sia ostacolato da un mostro, un diavolo infernale – Macigna – ricacciato nell’abisso dall’Arcangelo Michele che ne difende il borgo [5]. Alcuni contadini immaginano quella creatura come un dragone delle acque che in qualunque momento è pronto a venir fuori dal torrente che si riversa nel dirupo sottostante il quartiere Conigliera, per afferrare e trascinare nella vertigine dell’altezza gli avventurieri che si sporgono troppo per vederne l’abisso [6].

Con questa immagine fantasiosa le nonne di Gratteri incitavano i nipoti più piccoli, soprattutto quelli più vispi e irrequieti, a rimanere lontani dai precipizi e, più in generale, dai torrenti o dai pozzi profondi, con l’intento di proteggerli [7]. È per questo, come spiegano delle donne, che Gratteri è difesa, da tempo immemore, dall’Arcangelo Michele, che con la sua lucente spada, ricaccia quella bestia nell’abisso, tanto che alcune di esse recitavano una singolare litania a San Michele: «San Michieli Arcàncilu oh risplendenti / Vui siti lu veru Àncilu di Diu / sutta lu pedi tiniti un serpenti / chidda è la spada chi vi detti Diu / tiniti li volanzi giustamenti / pisati st’arma e purtàtila a Diu» (San Michele Arcangelo, oh risplendente, Voi siete il vero Angelo di Dio, sotto il piede tenete un serpente, quella è la spada che Vi ha dato Dio, mantenete la bilancia giustamente, pesate quest’anima è portatela a Dio) [8].

Gratteri (www.visitgratteri.com)

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Al di là di una significativa valenza antropologica, un aspetto interessante risulta quello lessicale del termine Macigna, variante di Macingu che, dall’antico siciliano, designerebbe proprio il ‘demonio’: «Macingu, nome che la bassa gente appropria al diavolo, satanasso, satanas, diabolus» [9]; «forse dal greco màchimos, pugnator, bellicoius (macchinatore, orditore, demonio) oppure forma corrotta dal lat. malignus» [10]. Tuttavia, la stessa forma lessicale avrebbe assunto anche altre sfumature semantiche all’interno del territorio siciliano. Da uno studio linguistico condotto sul lessico della cultura dialettale delle Madonie, ad esempio, si evince che i nomi macignu, macingu e macinga, sono stati individuati anche a Bagheria, Petralia Sottana e Castelbuono, associati ad un ‘forte vento vorticoso’ [11]. 

Dal punto di vista antropologico, invece, Macingu andrebbe connesso a «tutte quelle forme di credenza, riscontrabili presso i popoli più disparati, che […] sono da ricondurre alla stessa concezione di una forza segreta operante nell’universo e presente nell’accadere dell’insolito» [12]. L’antropologo Antonino Buttitta, ad esempio, pone in relazione il rispettivo significato del termine macingu (< machineus), con il concetto melanesiano di mana ‘diavolo’ e quello latino di numen ‘destino, imprevisto, rovina’[13]. Del resto, nella tradizione del folklore siciliano sono presenti diversi racconti di mostri e creature leggendari attestati in diversi angoli della Sicilia con caratteristiche molto simili alla Macigna di Gratteri, come, ad esempio, a Biddrina, a Marabbecca, u Sùgghiu, animali mitici che abitano le zone costiere, le paludi e gli acquitrini di numerosi borghi e contrade dell’Isola [14]. Ad ogni modo, la credenza di un locale mostro di Loch Ness ha generato a Gratteri delle espressioni o degli epiteti che ancora oggi ricorrono nei parlanti, come macignazza, per designare un individuo dal comportamento malvagio [15].   

Gratteri, Grotta Grattara (www.visitgratteri.com)

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Un altro dei più suggestivi racconti riportati dagli abitanti, che si lega, inevitabilmente, ad una dimensione spirituale di un varco ultraterreno, riguarda una processione di anime che, secondo credenze del luogo, ritornano sulla terra la notte di ogni primo giovedì del mese allo scoccare delle due ore notturne, ovvero le ore ventidue [16]. Spiegano alcune donne che, a quell’ora della notte, si raccomandava alla gente di non uscire dalle loro case come per una sorta di coprifuoco: «A du uri tutti d’un culuri/ lu monaco canta e la vecchia si scanta» (Alle due ore [ore 22:00] tutti dello stesso colore [uguali], il monaco canta e la vecchia si spaventa) [17]. La chiamavano “Priggissioni Mparadisu” e, fino a qualche tempo addietro, in ogni casa del paese era consuetudine accendere e porre sui davanzali delle finestre, delle lucerne ad olio o delle candele di cera poiché passavano le anime dei morti [18].

Gratteri, chiesetta della Scala (www.visitgratteri.com)

Gratteri, chiesetta della Scala (www.visitgratteri.com)

Questi spiriti attraversavano il centro storico tutti in fila – come sfilano i confrati di Gratteri durante la processione del Venerdì Santo, a Sulità – recando però, al posto delle candele, arti di scheletri detti truncuna [19]. Essi, dopo averne percorso le vie, scomparivano nel nulla all’arrivo nella chiesetta del Crocifisso alla Scala, dove vi è una strada che, per illusione prospettica sembrerebbe terminare in cielo. Sono diverse le testimonianze raccolte negli anni in paese. Alcune vecchiette arrivano ad asserire di averle viste passare nei pressi della Matrice Vecchia, da dove escono in processione, o di aver riconosciuto qualche loro parente defunto [20].

Molti dei più suggestivi racconti sono ambientati all’interno della Vecchia Matrice intitolata a San Michele Arcangelo o nella chiesa di San Sebastiano, sotto il titolo delle Anime del Purgatorio. La signora Giuseppa Ilardo, ad esempio, sentiva raccontare dalla madre che, in passato, durante la notte di ogni giovedì, passasse per il centro storico un uomo con una candela ed una campanella, che invitava la gente a pregare per la salvezza della propria anima, salmodiando tale litania: «Oggi in fuura, dumani in sepoltura, miatu a cu pi l’alma si procura» (Oggi in figura [vivi], domani in sepoltura (morti), beato chi si procura la salvezza della propria anima) [21]. Si tratta di un antico culto verso le Anime del Purgatorio – l’Armu priatùoriu – testimoniato a Gratteri oltre che dalla presenza di una chiesa ad esse intitolata, da numerose edicole votive, come due cappellette esistenti, fino a qualche tempo fa, sulla strada di campagna che da Gratteri collega l’Abbazia di San Giorgio. Esse vennero inspiegabilmente murate intorno agli anni ’60, durante i lavori di rifacimento della via. Oggi, quelle immagini pietose, dimenticate da tutti, si custodiscono all’interno della chiesetta del Crocifisso alla Scala.    

Gratteri, Grotta Grattara (www.visitgratteri.com)

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L’oracolo della Vecchia nella grotta e la fonte della Ninfa 

Da un sentiero sinuoso in salita, passo dopo passo, in mezz’ora di cammino dal centro abitato attraversando una fitta pineta, si giunge alla Grotta Grattara di Gratteri che, come un’orbita vuota, osserva le case del borgo da millenni. La grotta è avvolta da mille misteri, come quello di una presenza femminile solitaria, A Vècchia, e di una fonte naturale formata nei millenni dal perenne stillicidio di acque che venivano considerate, in passato, «purgative e ristoratrici, dette volgarmente di Bevuto» (dall’arabo buyut ‘acqua salutifera’) [22], da cui probabilmente il paese prenderebbe il nome: «Gratteris antiquum oppidum a Cratere ob perennem stillantem aquam celebri dictum, Berillo lapide nobile» [23].  

Senz’altro, la Grotta Grattara è parte integrante della storia e del folklore del luogo, perché in essa ha sede la Befana, a Vècchia Strina. Secondo la tradizione gratterese, in questa fiabesca spelonca, sin dalla notte dei tempi, risiederebbe solitaria una arcigna donnina che sorveglia, dall’alto della sua grotta, l’antico villaggio madonita, passando il suo tempo, come una vera e propria Parca, a filare con “fuso e conocchia” e a preparare leccornie per i fanciulli di Gratteri. Essa scenderebbe nel paesello soltanto una volta all’anno, la notte di Capodanno, per riempire le calze di doni ai più piccoli intrufolandosi, silenziosamente, dai posti più impensabili di quelle vecchie casette accovacciate nella valle. Si narra che nessuno avrebbe mai osato alzare lo sguardo per osservarla in volto, poiché, in tal caso, essa si sarebbe vendicata bucando gli occhi con il fuso [24].  

Gratteri, Oracolo della vecchia (www.visitgratteri.com)

Gratteri, Oracolo della vecchia (www.visitgratteri.com)

Per tal motivo, in passato, come riportano i più anziani, per la notte di Capodanno si attuava in paese un significativo rito, ripreso, alla fine degli anni ’70, come manifestazione di fine anno dalla Pro Loco. Difatti, come spiega la signora Giuseppa Ilardo [25], ai suoi tempi passava per le vie dell’abitato, a dorso di un asinello, un uomo mascherato da donna, a Vècchia, che nascondeva il suo volto sotto un lenzuolo ed era scortato dai giovani del paese che preannunciavano, con urla e schiamazzi, il suo arrivo: «A Vècchia! U picciriddu mi cianci!» (La Vecchia! Mi piange il bambino). Essi attuavano una questua itinerante, suonando corni di animali e campanacci, fischiando e urlando di porta in porta tipiche cantilene: «O mi dati un turtigliuni, o vi scassu lu purtuni!» (O mi date un tortiglione [dolce tipico] o vi rompo il portone!) [26]. Così, ogni famiglia offriva quello che poteva: fichi secchi, fave e dolci di Natale, i tradizionali buccellati – i turtigliuna – ripieni di canditi e ricoperti da code di zucchero, diavulicchi. Tale offerta veniva ricambiata con uno scambio d’auguri, per un prospero e fruttuoso anno nuovo: «Buon Capudannu, buon capu di misi, li turtigliuna unni l’aviti misi, l’aviti misi nte la cascitedda, niscìtili ca passa a Vicchiaredda» (Buon Capodanno, buon capo di mese, i tortiglioni dove li avete messi, li avete messi nel bauletto, portateli fuori che passa la Vecchierella) [27].   

Quest’antica consuetudine, come altre in Sicilia, risulterebbe di straordinario interesse antropologico, poiché retaggio di sincretismi culturali molto antichi. Essa si ricollegherebbe all’antico scambio rituale dei doni, alle maschere e a riti di passaggio durante il periodo invernale per rifondare il ciclo dell’anno e con esso la vita stessa della comunità [28]. L’antropologa Fatima Giallombardo, che si è occupata da anni delle tradizioni del Natale in Sicilia, considera la Vècchia una controfigura mitica della Befana con cui condivide alcuni tratti specifici:

«Ama sbucare, da Natale all’Epifania, da grotte, monti, castelli dirupati, guidando carovane di muli carichi di beni (rètini) che poi distribuirà. Il suo aspetto ugualmente pauroso – malgrado l’allegria con cui viene accolta – è reso minaccioso, con più pregnanza di quanto non facciano i dispetti o le punizioni della Befana, dalla credenza che una volta le Vecchie filassero lunga o breve, a seconda dei comportamenti, la vita degli umani. Un po’ benefattrici, un po’ Parche dunque le Strine siciliane, che con tante altre entità consimili, più antiche e recenti, mediterranee ed europee, condividono statuto e funzioni simboliche. La loro contiguità con il tempo e lo spazio liminari (le notti, i luoghi selvaggi), con i frastuoni caotici ma festosi, con i colori della morte (il bianco o il nero dei loro mantelli) ma anche con gli odori della vita (i cibi e i dolci speziati elargiti in dono), queste portatrici di strenne (da qui la nostra strina e la strenua dei Romani) alludono all’eterno trascorrere dell’anno dalla fine all’inizio, dalla chiusura alla sua augurale riapertura» [29].
Gratteri, Grotta Grattara (www.visitgratteri.com)

Gratteri, Grotta Grattara (www.visitgratteri.com)

Per quanto riguarda proprio i frastuoni e il rumore dei campanacci all’interno delle “strenne” di Capodanno, essi sarebbero da intendere come dei “segnalatori di alterità” [30]. Come spiega il medievista francese Jean Claude Schmitt «i campanacci sarebbero da associare agli animali e non agli uomini, e a loro volta, agli antenati del gruppo. Sono proprio i bambini quindi, che assolvono un importante ruolo, quello di mediatori mitici tra il mondo dei defunti e quello dei vivi, poiché godono di uno statuto particolare e si fanno carico di propiziare ritualmente l’ordinato ciclo delle stagioni» [31]. Per l’antropologo Ignazio E. Buttitta «non è affatto un caso che siano i poveri e i bambini a ricevere doni in precise occasioni rituali né che nei periodi critici, gruppi mascherati irrompano fragorosamente nello spazio abitativo e vadano questuando per case e fattorie […]. Dai morti, dagli antenati, inoltratosi l’inverno, dipende più che mai la vita. Da loro, che in questo periodo di poca luce e di freddo trovano occasione di aggirarsi sulla superficie della terra, è necessario salvaguardarsi; bisogna allora renderli propizi non mancando di offrire cibo e calore; bisogna tenerli a distanza accendendo fuochi, producendo rumori assordanti» [32]. 

In ogni caso, non sarebbe da escludere che il racconto di una “vecchia” eremita custode dei segreti di una grotta si sia innestato ad un mito primordiale. Per Giallombardo, ad esempio, «le modalità qualificanti queste maschere, le cui azioni festive non debbono essere scisse dal sistema di credenze ancora oggi radicato nell’immaginario folklorico, rimandano all’orizzonte simbolico della Grande Dea, figura antropomorfizzata dell’intera natura che in sé contiene vita e morte e il loro reciproco generarsi» [33]

Gratteri, Fonte della Ninfa (www.visitgratteri.com)

Gratteri, Fonte della Ninfa (www.visitgratteri.com)

Verosimilmente, per risalire a qualsiasi tipo di interpretazione del mito delle origini, bisognerebbe comprendere pienamente la valenza che avrebbe potuto assumere, nei popoli del passato, una Parca delle montagne e un cratere naturale di acque “rigeneratrici”, da cui deriva lo stemma originario del Comune che riprende, a sua volta, anche l’immagine di una fonte di pietra a forma di cratere, chiamata dagli antichi abitanti a Ninfa, ubicata oggi nella piazza principale del paese, che rinvia, per somiglianza e significato, a quella della Grotta Grattara.   

Dagli studi condotti dall’archeologo Dario Palermo sulle divinità femminili della Sicilia indigena prima di Demetra, emerge, ad esempio, come «l’aspetto dei culti è forse quello nel quale maggiormente si riesce a percepire il retaggio delle tradizioni originarie delle popolazioni di etnia Sicula, Sicana ed Elima, la cui identità culturale, tende a scomparire col progredire del tempo, assorbita e assimilata dalla più forte e attraente cultura delle colonie greche» [34].  Nello specifico, come spiega lo studioso:

«attraverso le età del Bronzo e del Ferro sembra che si possa riconoscere l’esistenza di un culto, ampiamente diffuso nella parte centro-meridionale della Sicilia, di una o più divinità femminili, praticato in aree organizzate e legato al mondo della vegetazione, al ciclo delle stagioni e alla fertilità […]. Dalle somiglianze di carattere ideologico e dalle affinità degli elementi devozionali rinvenuti in tali aree si potrebbe intravedere un rapporto con il culto cretese della Dea della natura, e quindi un possibile collegamento con il culto delle Metéres ricordato dalle fonti letterarie […]. Le analogie fra i culti prestati nei santuari sicani e quelli della Creta della tarda età del Bronzo mi hanno indotto a formulare la proposta che nelle aree sacre dell’isola si possano vedere le più antiche testimonianze del culto delle Madri di origine cretese che secondo Diodoro Siculo costituivano uno dei maggiori culti degli indigeni dell’isola e che era ampiamente diffuso nella non ancora identificata città di Engyon» [35].
Gratteri (www.visitgratteri.com)

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Il dibattito sviluppatosi attorno all’origine del culto e alla natura della Metéres di Engyon, menzionate da Diodoro Siculo [36], hanno generato, tra gli studiosi, pareri contrastanti riguardo la controversia sull’origine: alcuni suppongono che si tratti di un culto cretese, altri di un culto locale influenzato da elementi pseudocretesi dopo la colonizzazione greca [37]. Tuttavia, «le più accreditate interpretazioni identificano tali dee con divinità femminili minori del pantheon siceliota, riconosciute come Ninfe con una origine profondamente indigena, sicula in particolare: di questa opinione furono nei primi decenni del secolo scorso Emanuele Ciaceri, e pochi anni dopo, Biagio Pace» [38].

In modo particolare il Ciaceri ritenne «naturale pensare che in un paese agricolo, come questo, in cui le condizioni climatiche fanno tanto apprezzare i benefici delle acque, vi fosse sede di culto là ove scaturiva una fonte o scorreva un fiume e che l’una e l’altra venissero dalla fantasia popolare religiosamente personificati» [39]. Una sovrapposizione, dunque, di un culto di origine cretese (ninfe-meteres) a un culto locale indigeno – forse dei Sicani, piuttosto che dei Siculi – già precedentemente esistito (ninfe, divinità di sacre fonti) e che, ancora prima che nell’Isola subentrasse la civiltà greca, occupava nella religione di questo popolo un posto non secondario [40].

Della stessa opinione è Francesco Branchina, che da anni si occupa di studi sulla lingua sicana nell’Isola:

«I Sicani privilegiavano siti nelle cui rocce venivano ricavate delle grotte più o meno ampie e delle nicchie; a motivo della presenza di tali cavità si è portati a credere che tali luoghi venissero utilizzati come siti per la sepoltura degli avi e come luoghi di culto. Tali siti, come ad esempio l’acropoli di Assoro, erano ritenuti luoghi di “ascolto”, a motivo delle forze di attrazione extrasensoriali che li caratterizzano e della spiritualità che suscitano»[41].

Secondo tale studioso «nel mito di Gratteri si potrebbe intravedere una sovrapposizione del culto solare, uranico a quello originariamente chtonio come evocato, ad esempio, ad Enna, dove l’antica divinità sicana, forse Hybla, sarebbe diventata Proserpina»[42].    

Del resto, è noto come nell’antichità, molti luoghi della Sicilia guadagnarono la reputazione di dispensare oracoli, soprattutto le grotte, molto spesso antichi luoghi di culto di divinità indigene e sedi oracolari come è il caso, ad esempio, di quella della sibilla lilybetana nella Sicilia occidentale. Come osserva, invero, lo studioso Giovanni Teresi, nella sua ricerca storica sulla Grotta della Sibilla Cumana a Marsala:

«Grotte ed anfratti, fossi naturali e piccole voragini oscure, divenivano in Sicilia luoghi di culto religioso, accesso verso gli inferi, ed in essi non potevano risiedere che numi sotterranei. Così, nella concezione religiosa indigena, le entità divine presentavano spesso anche quello di divinità sotterranee collegate alla terra come divinità Chtonie; oscuri presìdi insieme della vita e della morte, della vegetazione e degli inferi, che in tanti luoghi venivano identificati con Demetra e Core» [43].

Per tale motivazione, potrebbe essere possibile, dunque, ricondurre il mito di una Vècchia e di un cratere di acque rigeneratrici a Ninfa (probabile divinità locale), a quello di una sede oracolare indigena in una grotta che, per la sua maestosità e suggestione, non poteva di certo passare inosservata ai popoli primitivi?

Gratteri (www.visitgratteri.com)

Gratteri, processione del venerdì santo dei confrati (www.visitgratteri.com)

Per cercare di dare una risposta, bisognerebbe forse analizzare il significato che potrebbe aver assunto la presenza di una figura femminile ancestrale in una grotta, tale da rimandare, intuitivamente, ad una “Sibilla” delle montagne. Con questa definizione gli antichi greci e latini si riferivano a una figura storicamente esistita, individuabile con tutta la classe delle profetesse, donne vergini e giovani, talora ritenute come decrepite, che vivevano in grotte in diversi luoghi del bacino del Mediterraneo. Esse svolgevano attività mantica in stato di trance ispirate da un dio (solitamente Apollo) in grado di fornire responsi e fare predizioni. Il volere degli dèi era dispensato in vario modo: con segni sulle viscere delle vittime sacrificali, con i movimenti degli oggetti gettati in una fonte, attraverso lo stormire delle fronde di un albero sacro, oppure attraverso la bocca di un essere umano, come nel caso dell’oracolo di Delfi, in Grecia. Molto spesso, queste profetesse bevevano l’acqua da una fonte o da un pozzo che, per la loro esaltata immaginazione, portava ad uno stato di ebbrezza. Nello specifico, per quanto riguarda proprio il caso della Sibilla sicula, che lo stesso Teresi localizza presso Lilybeo, gli studi antropologici chiariscono che essa presentava proprio i caratteri di una sacerdotessa che chiedeva i suoi responsi ad un altro nume, la ninfa di una fonte [44]. Ad ogni modo, come puntualizza Palermo, «per desumere qualcosa in più sulla religiosità degli indigeni di Sicilia occorre rivolgersi alla scarsa evidenza disponibile e cioè da un lato alle iconografie della produzione artigianale indigena e dall’altro ai dati di scavo di quelle aree delle quali è stata riconosciuta una destinazione sacra, ancorché esse siano adespote» [45].  

Gratteri (www.visitgratteri.com)

Gratteri (www.visitgratteri.com)

Di certo, al di là delle mere ipotesi, il territorio di Gratteri fu abitato sin dall’età preistorica, come si evince, in maniera inequivocabile, dal ritrovamento nel 1920 di un “ripostiglio” di oggetti di bronzo che oggi viene conservato al Museo archeologico regionale Salinas di Palermo. Questo ripostiglio comprendeva undici pezzi di bronzo: otto asce piatte a contorno trapezoidale di diversa lunghezza (peso complessivo Kg. 2,683); due a occhio con penna incurvata, nella parte del manico (gr. 946 e kg. 1,44) ed un anello con estremità affusolate e accostate fra loro (gr. 117, diam. mm. 69), attribuibili all’epoca di transizione dalla età del Bronzo alla prima età del Ferro dell’Italia continentale, che corrisponde alla fine del secondo periodo siculo e ai principi del terzo [46]. A proposito degli oggetti costituenti la materia dei ripostigli, gli archeologi opinano che, oltre a servire per i bisogni della vita quotidiana, valessero anche come moneta primitiva metallica, circolante per gli scambi commerciali, qualcosa di simile a «quello che saranno più tardi, quando si incominciò a coniare la moneta, i ripostigli monetari» [47]. Come asserisce Sebastiano Tusa «il sito probabilmente veniva utilizzato come centro di scambi commerciali fra gli insediamenti montani e le aree limitrofe» [48].      

Fatte queste osservazioni, l’ipotesi avanzata da alcuni eruditi del passato come il Maurolico, il Passafiume [49] e il Pugliese era quella che il nome del villaggio di Gratteri potesse trarre origine dall’antico nome di Pizzo Dipilo, che loro identificano come monte Craton o Cratos «Craterium oppidum juxta Cephaledem fortasse dictum à nomine montis qui Cratos dicitur» [50] dove fu un primitivo insediamento della Sicilia occidentale non ancora identificato Aterion o Kraserion di cui parlava Stefano Bizantino [51]:

«Dopo molte miglia da Cefalù, viene il fiume di Pilato, che vuotando pria per levante bagna Lascari, Lascaris; poi piegato per ponente lascia Madonna di Gibilmanna da Gebelman, mons manne; e indi curvandosi per oriente rinfresca il ponente di Gratteri, Crater, ove fu Aterium d. da Stefano, e presso Gratteri fu Kalath Asserat d. citato, e giunge all’occaso del divisato Isnello» [52].
Gratteri (www.visitgratteri.com)

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Pertanto, alla luce di quanto affermato, non pare affatto incongruo presupporre l’esistenza di un insediamento primitivo non distante da una caverna, la Grotta Grattara, che, per la sua conformazione e peculiarità, avrebbe potuto essere considerata senza alcun dubbio un luogo di culto indigeno se non finanche sede oracolare, vista la presenza di una leggendaria entità femminile, a Vècchia, tramandata come mito fino ai giorni nostri. 

Monaci alchimisti e profezie: dal vello volante al tocco dei lupi  

Storie fantasiose di tesori nascosti si possono ritrovare in ogni angolo della Sicilia, custoditi alle volte, dalle più misteriose presenze quali folletti, gnomi, demoni e briganti. Il noto etnologo siciliano Giuseppe Pitrè, ad esempio, annovera ben 63 di questi tesori sparsi tra le diverse località dell’Isola [53]. Una ricca letteratura scritta, più copiosi racconti orali, raccolti molte volte da ricercatori locali, documentano come il popolo siciliano fosse molto attaccato a tali leggende plutoniche. Come osservava già nel 1898 Salvatore Salomone Marino, il ritrovamento di un tesoro nascosto era per il villico «la costante aspirazione, il sogno di tutte le notti» [54]. 

Nello specifico, anche a Gratteri, si individuano alcune contrade dove, si racconta, siano stati ritrovati in passato antichi tesori: Cuticchio rosso; Cuzzino; Passo di Ciacalone; Pietra Grossa [55]. Ad ogni modo, benché si tratti di dicerie frutto della suggestione popolare alimentata nei secoli dalla povera gente che, in periodi difficoltosi, trovava spesse volte una ragione per andare avanti sognando di ritrovare un tesoro, bisognerebbe anche considerare che un luogo appartiene prima di tutto a chi lo ha vissuto, come, nel caso di Gratteri, a quella comunità agropastorale che ha lasciato delle tracce antropologicamente significative che riemergono, ad esempio, dalla toponomastica popolare, dove i nomi più suggestivi delle contrade sembrerebbero rinviare alle più fantasiose leggende:

Gatti Maimoni (Gatti Mammoni, contrada attestata nell’anno 1404 nel territorio del barone di Gratteri [56]); Maàro (Mago, feudo Prato); Rocca Dinaru (Rocca del Denaro, feudo Malagirati); Rocca Muònuco (Rocca del Monaco, feudo San Giorgio); Vaddi di l’uoru (Valle dell’oro, feudo delle Terre Comuni); Vàusu Dimoniu (Vetta del Demonio, feudo Purace); Vucca d’Infiernu (Bocca dell’Inferno, feudo delle Terre Comuni).

Gratteri (www.visitgratteri.com)

Gratteri (www.visitgratteri.com)

Di certo, una delle più conosciute leggende di truvature gratteresi è ambientata nei pressi delle vestigia della normanna abbazia di San Giorgio, unica fondazione di canonici Premostratensi in Sicilia [57]. Sulla condotta di quei monaci, che vivevano da eremiti nel monastero medievale ubicato in un fitto bosco abitato da lupi, si alimentavano storie misteriose arrivate fino ai giorni nostri. Secondo i racconti che tramandano gli abitanti di Gratteri, questi praticavano riti alchemici singolari come quello di curare alcune malattie con le scintille di due pietre focaie, pietri firrigni, facendo ricadere le faville sulla parte del corpo ammalata. Questa pratica venne appresa, in seguito, dalle donne del villaggio, che curavano allo stesso modo, fino a qualche tempo addietro, l’herper zooster, comunemente chiamato “fuoco di Sant’Antonio” [58]. 

Tra i più creativi racconti popolari recuperati in situ, alcuni riguardano spiriti di donne imprigionati nel corpo di piccoli animali come i rospi “buffe”. Fu per questo – come spiegano delle anziane donne – che i più superstiziosi allevavano dei gatti detti “mammoni” poiché credevano di allontanare o vanificare un influsso magico maligno e conoscevano anche delle particolari formule apotropaiche tramandate ancora oggi dalle nonne: «Tri stizzi di sangu di Gesù in agonia, tri fila di capiddi di Maria, ncatinati e liati a cu vo mali a mia» (Tre gocce di sangue di Gesù in agonia, tre fili di capelli di Maria, incatenate e legate a chi mi vuole male) [59]. Questa “giaculatoria” era seguita dal corrispettivo sciogli-incantesimo da ripetere per tre volte [60].      

Per quanto riguarda invece i bufonidi, ancora oggi, alcuni anziani di Gratteri asseriscono che, nel caso in cui si dovessero ritrovare ad intralciare la via, sarebbe sempre opportuno non toccarli o peggio ancora importunarli, poiché a causa della loro vendetta, si potrebbe rimanere zoppi, ciunchi  [61]. Delle volte, questi rospi potrebbero anche presentare delle piccole trecce – trizzi di donni – ma, ad ogni modo, non vanno mai molestati o addirittura uccisi per non ricadere nella loro maledizione [62]. In tali circostanze sarebbe opportuno, dunque, riconoscerli, pronunciando la seguente formula apotropaica: «Se si donna ti nni vai, se si buffa resti ccà!» (Se sei una donna vai via, se sei un bufonide resti qui) [63]. 

L’antropologa Elsa Guggino, che si è occupata per anni dell’immaginario magico-religioso siciliano, parla di «strane figure femminili di natura extra-umana, credenze siciliane di ascendenza millenaria che si intrecciano al vivere degli uomini – i Donni – spiriti che vagano nell’aere, anime di persone morte che continuano ad aggirarsi o che dimorano stabilmente nei luoghi in cui è stato esalato l’ultimo respiro» [64]. Di loro, Giuseppe Pitrè scriveva: «sono un po’ streghe un po’ fate, senza potersi veramente discernere in che veramente differiscono le une dalle altre» [65]. La stessa Guggino, aggiunge: «vi sono diversi tipi di donne come quelle di locu, una specie di serpenti, lucertole: sono delle streghe buone che vagano nelle campagne. Se qualcuno le uccide, le spacca a metà ed è in agonia, non può morire; si dice perché ha spezzato una vipera, una donna di locu. Queste donne si trasformano in serpi o in rospi» [66].

Gratteri (www.visitgratteri.com)

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Le donne transustanziali siciliane, come definisce Pier L. J. Mannella le donni di fora, possono operare con gli spiriti o andare in volo in forma di spirito: in queste occasioni in cui viene meno la loro forma umana esse, come anime, si identificano parzialmente con queste ultime e compiono atti che normalmente fanno gli spiriti, accompagnandosi e uniformandosi a questi: si incontrano in forma di bisce e buffi (rospi) nelle campagne, come i demoni campestri, o nelle sembianze di gechi sulle pareti di casa, come gli spiriti domestici. Quali demoni dei boschi, esse ballano e cantano nelle foreste, o sono viste presso fonti d’acqua, e in qualità di anime delle case, spostano i bambini, apportano malattie e fortuna alle famiglie che vi abitano [67]. 

Senz’altro, quella sulla distruzione del monastero di San Giorgio è una di quelle storie ancora oggi poco conosciute, le cui motivazioni si alimentano con fantasiose leggende e racconti di popolo che vengono tramandati oralmente da generazioni. Come già riportato in passato da studiosi locali, gli ultimi monaci dell’abbazia di San Giorgio furono cacciati dagli stessi abitanti del villaggio per vendicare il disonore di una donna violata appartenente all’insigne famiglia dei Bonafede, intesi Gibbuini per nomignolo [68]. Si racconta che un tempo, i figli dei ceti più abbienti del villaggio, andassero a studiare presso i religiosi di San Giorgio, i quali insegnavano loro la conoscenza delle arti, delle erbe e delle stelle. Quei discepoli, sin da piccoli, dovevano calzare delle particolari scarpe di cuoio di lupo, u piedi di lupu, per acquisire da grandi poteri taumaturgici sugli animali: «Supra lu mpanaturi c’è l’Altissimu Signuri, cu lu gustu di la patruna, lu disgustu di lu patruni, faciti passari a st’armalu lu duluri» (Al di sopra della spianatoia c’è l’Altissimo Signore, con il gusto della padrona, il disgusto del padrone, fate passare a quest’animale il dolore) [69]. 

«Un giorno, uno dei monaci richiese ad un suo allievo una ciocca dei capelli della madre dalla lunga chioma rossa. Questa insospettita, decise di inviare al suo posto un ciuffo di pelo di capra reciso da un suo tappeto. Passati alcuni giorni la donna, mentre batteva quelle pelli, vide il vello sfuggirle dalle mani e volare in direzione dell’Abbazia tra le urla delle incredule comari del quartiere di la Petra. L’insigne galantuomo, pensando ad un filtro d’amore per possederne la bella sposa che tramite ipnosi sarebbe giunta al monastero, decise di mettere fine a quei sortilegi architettando un tranello. Pertanto, insieme ai fratelli della moglie travestiti da donna, si recarono nel bosco, portando insieme a loro un fantoccio che, posizionato in lontananza sul sentiero, somigliasse alla madre del ragazzo. Così, ad un certo punto, mentre attendevano nascosti nei pressi dell’abbazia, lo videro volare verso la rocca del monastero, attratto da un potente incantesimo di uno di quei religiosi ivi posizionato. Gli uomini a quel punto uscirono allo scoperto e spararono a quel monaco che, in posizione sconcia e con parole oscene, si beffava di loro da sopra quella vetta che, dopo quell’episodio, venne rinominata la Rocca del Monaco»[70].  
Gratteri (www.visitgratteri.com)

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Altri informatori raccontano una seconda versione, che vedrebbe protagonisti quei villani insieme ai mastri artigiani del paese. Questi ultimi, infatti, andarono ad incendiare il monastero durante una fredda notte d’inverno, attraversando il bosco armati di fiaccole di ampelodesma e di grossi tamburi percossi a ritmo continuo per spaventare un nutrito branco di lupi [71]. A quel punto i monaci non vedendo altra soluzione, dovettero abbandonare di fretta il loro monastero nascondendo frettolosamente il loro tesoro e annunciando una singolare profezia per ritrovarlo: tre persone avrebbero dovuto sognare il luogo del tesoro senza farne parola con nessuno. Tuttavia, la sorte dei tre prescelti sarebbe stata differente: il primo sarebbe morto, il secondo sarebbe rimasto paralizzato, mentre il terzo avrebbe usufruito delle ricchezze, ma solo dopo aver mangiato un’intera focaccia sul posto, senza farne cadere le briciole [72]. 

Si narra che, negli anni, furono in tanti che cercarono quelle ricchezze, scavando nella notte in quel terreno venduto a contadini e che alcuni, scavando, rimasero paralizzati, ciunchi, trovando solo gusci di lumache e ceneri di metallo, cacazzi di fuorgi [73]. Simili racconti sono stati riscontrati in tutta la Sicilia, come osserva la stessa Guggino: «molte sono le storie di truvaturi indicate nel sogno. Se non viene rispettata la regola del silenzio o non si esegue il rituale prescritto, il tesoro si trasforma generalmente, in gusci di lumache, meno frequentemente di uova» [74]. Di quel periodo rimarrebbe oggi soltanto un antico rito, u tuoccu di lupi, ovvero un ritmo cadenzato di tamburi che si ripete annualmente per opera dei muratori e carpentieri di Gratteri, nel giorno del giovedì successivo al Corpus Domini, u Juovi di Mastri (il giovedì dei maestri di mestiere). 

Ma il racconto della truvatura di San Giorgio sembrerebbe ancora più affascinante di quanto possa apparire. Dagli etnotesti raccolti, si sostiene che, durante la Seconda Guerra Mondiale, dei soldati nazisti siano andati a scavare presso il sito del monastero di San Giorgio alla ricerca di qualcosa di occulto [75]. Difatti, sulla veridicità di tali episodi non ci è dato sapere, anche se, non è un fatto sconosciuto che proprio il Fuhrer fosse estremamente appassionato di esoterismo e avesse fatto mettere a soqquadro castelli francesi e monasteri cistercensi alla continua ricerca di preziose e potenti reliquie medievali, come il sacro Graal (il calice che usò Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue di Cristo), convinto che possederle avesse apportato una valenza mistica, oltre che un modo propagandistico per legittimare il suo potere e la sua politica [76]. Ad oggi, l’unico fatto certo è che gli ultimi scavi archeologici (2020) confermerebbero l’esistenza di tombe profanate durante reiterati tentativi di scavo che hanno in parte distrutto quello che rimaneva della originaria pavimentazione della chiesa. 

Dialoghi Mediterranei, n.53, gennaio 2022
Note
[1] Cfr. Grattera Pirri 495 (a. 1082), 389 (a. 1132), 393 (a. 1151), Gratera DCM 2 (a. 1087), DIN 82 (a. 1159), Grateria ib. 57 (a. 1145), ar. q.ratiris Edrisi 60, BAS I 125, Graterium TabBelm 11 (a. 1201), Gratterium RRS I 12 (a.1282), la Grattera Barberi Ben. I 218 (Caracausi G., Dizionario onomastico della Sicilia. Repertorio storico-etimologico di nomi di famiglia e di luogo – Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, Palermo, 1994, V. I: 754)
[2] Pirri R., Sicilia Sacra, II, Palermo 1638 – rist. 1733: 839.
[3] Di Francesca P., Gratteri, Palermo, Flaccovio 2000: 11.   
[4] Antonina Lazzara, classe 1922, intervista 2007.
[5] Giuseppa Lanza, classe 1922, intervista 2015.
[6] Giuseppe Cirincione, classe 1918, intervista 2013. 
[7] Maria Antonina Cirincione, classe 1913, intervista 2007.
[8] Antonina Lazzara, classe 1922, intervista 2007.
[9] Pasqualino M., Vocabolario Siciliano Etimologico, Palermo, Nobile Barese, 1785.
[10] Traina A., Nuovo Vocabolario Siciliano Italiano (VS), Palermo: G. Pedone Lauriel, 1868.
[11] Sottile R., I nomi dei venti in Sicilia tra toponomastica, geomorfologia e “mondo magico”. Possibili itinerari di ricerca – In Studi linguistici in onore di Lorenzo Massobrio, 2014: 957-970; cfr. Sottile R., Genchi M., Lessico della cultura dialettale delle Madonie. 2. Voci di saggio, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 2011.
[12] Buttitta A, Macingu, numen, mana, in Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia (a cura del) (2011), Per i linguisti del nuovo millennio. Scritti in onore di Giovanni Ruffino, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani: 248-257.
[13] Ibidem.
[14] Cfr. Guglielmino D., Lo strano mito del “sugghiu”: anche la Sicilia ha il suo mostro di Loch Ness in catania.liveuniversity.it, 25 settembre 2020; cfr. Berta M., Sivieri A., Siclari G., La tradizione sicula con le sue creature mitologiche e mostri paurosi, in monstermovieitalia.com, 2020; cfr. Pennacchietti M., Bestie d’Italia, A. Del Dubbio, 2019, vol. 3.
[15] Giuseppa Lanza, classe 1922, intervista 2015.
[16] Antonina Lazzara, intervista 2007.
[17] Giuseppa Lanza, classe 1922, intervista 2015.
[18] Lucia Cirincione, classe 1923, intervista 2007.
[19] Maria Antonina Cirincione, classe 1913, intervista 2007.
[20] Racconto di Santa Porcello, classe 1891, riportato dal nipote Pietro Rasa, intervista 2021.
[21] Giuseppa Ilardo, intervista 2007.
[22] Amico V. M., Dizionario topografico della Sicilia, Vol. II – (tradotto dal latino e annotato da Di Marzo G.), Palermo 1856, Rist. Bologna 1975: 544.
[23] Pirri R., op. cit., Vol. II: 829.
[24] Cfr. Scelsi I., Gratteri. Storia, cultura e tradizioni, Palermo 1981 rist. Tip. Valenziano, Cefalù, 2008; Anche Ganci Battaglia G., Cenni storici e tradizionali del Comune di Gratteri, La Trazzera, Palermo 1930.
[25] Giuseppa Ilardo, classe 1922, intervista 2009.
[26] Giuseppe Cirincione, classe 1918, intervista 2007.
[27] Maria Antonina Cirincione, classe 1913, intervista 2007.
[28] Cfr. Fragale M., tesi di laurea in Lettere Moderne, Il ciclo dell’anno a Gratteri. Aspetti devozionali e significato antropologico”, Università degli Studi di Palermo – A.A. 2006/07.
[29] Giallombardo F., Le Vecchie di Natale, in “La Sicilia ricercata”, I/2: 39-43. 1999b.
[30] Bonazinga S., Tradizioni Musicali in Sicilia. Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, Palermo 1995; anche Bonazinga S., Forme sonore e spazio simbolico. Tradizioni Musicali in Sicilia, materiali per il corso di etnomusicologia dell’Università di Palermo, 2009.
[31] Schmitt J. C., Religione Folklore e Società nell’Occidente Medievale, Laterza 1988: 146.
[32] Buttitta I. E., I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa, Roma, Meltemi, 2006°: 110-114.
[33] Giallombardo F., 1999b: 39-43.
[34] Palermo D., Prima di Demetra. Divinità femminili della Sicilia indigena in La donna e il sacro. Dee, maghe, sacerdotesse, sante – Atti del convegno internazionale, Palermo, 12-14 novembre 2019, a cura di T. India – Palermo, Fondazione I. Buttitta, 2014, Acta diurna 4: 59-63.
[35] Ibidem.
[36] Diodoro Siculo Biblioteca storica, IV, 80 e V, 70. cfr. Micciché C., Modeo S., Santagati L. (a cura di), Diodoro e la Sicilia indigena. Atti del Convegno, Caltanissetta, 2006: 99-102. 
[37] Farinella S., Le Meteres di Engyon dal culto al tempio fra origini, attributi ed altre divinità in S. Lo Pinzino, G. D’Urso, Atti delle giornate di storia locale. Nicosia 2008-2010, Assoro 2010: 3-91.
[38] Cfr. Ciaceri E., Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, Tip. Francesco Battiato, Catania, 1911 (ristampato da A. Forni Editore, Bologna, 1981 e 2007; cfr. Pace B., Arte e civiltà della Sicilia antica, 4 Voll., Società anonima editrice Dante Aligheri (di Albrighi, Segati & C.), Roma-Milano-Genova-Napoli-Città di Castello (PG), 1935-49 (ristampa anastatica, 1981) in Farinella S., 2010: 3-91. 
[39] Ibidem.
[40] Farinella S., 2010.  
[41] Cfr. Branchina F., Dalla Skania alla S(i)kania. Le grandi migrazioni protogermaniche, Edizioni Simple, 2012.
[42] Branchina F., intervista del 18 febbraio 2021.
[43] Teresi G., La grotta della sibilla lilybetana storie di folklore e tradizioni popolari, 2018 in www.culturelite.com; cfr. Teresi G., Le condizioni politiche, socio-economiche e religiose nell’antica Lilybeo. Oracoli e credenze nel culto della Sibilla Cumana, ilmiolibro self publishing, 2017.
[44] Ibidem.
[45] Palermo D., 2014: 59.
[46] Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti di Palermo – Terza serie, anni 1923-24-25, Vol. XIII, Palermo Scuola Tip. “Boccone del Povero” 1926.
[47] Bernabò Brea L., La Sicilia prima dei Greci, Milano 1972: 185.
[48] Tusa S., L’archeologia, in Il parco delle Madonie, Palermo 1989: 178.
[49] Passafiume B., De origine ecclesiae cephaleditanae, Venezia, 1645: 53: «Il territorio sul quale si estende la diocesi di Cefalù è reso più bello, dalla parte di occidente, dal monte che, se da Tolomeo viene chiamato Craton, dagli altri viene indicato ora con il nome di Moron, ora con quello di Nebrodi. La maggior parte delle persone, però, è solito chiamarlo con quello di Madonia».
[50] Maurolico F., Index alphabeticus oppidorum montium, et fluviorum Siciliae, in “Sicanicarum rerum compendium”, Messina, 1816
[51] Bizantino S., Ethnicorum ex recensione August Meineke, Berlino, 1849.
[52] Pugliese V., Geografia sicula, Palermo 1836: 49.
[53] Cfr. Pitrè G., Usi e costumi. Credenze e pregiudizi del popolo siciliano, 4 voll., Palermo, L. Pedone-Lauriel, 1889.
[54] Salomone Marino S., Leggende popolari siciliane, Palermo, Luigi Pedone Lauriel, 1880.
[55] Cfr. Fragale M., Tesori nascosti e incantesimi da sciogliere: alla ricerca delle ultime truvature (visitgratteri.com) in Il borgo del mistero. Sulle tracce del Sacro Graal. Cunti e credenze di Gratteri (di prossima pubblicazione).  
[56] Archivio di Stato di Palermo, Archivio Belmonte, v. 81.
[57] Cfr. Agostaro F., San Giorgio in Gratteri. La storia intrigante di un monumento normanno, Ed. S. Marsala, Cefalù 2019.
[58] «Questa pratica era ancora utilizzata fino alla fine degli anni ’60 dalla signora Vincenza Ventimiglia» (Lucia Cirincione, classe 1923, intervista 2007). 
[59] Giuseppa Lanza, classe 1922, intervista 2005; Lucia Cirincione, classe 1923, intervista 2007 in Fragale, 2007.
[60] Ibidem.
[61] Maria Antonina Cirincione, classe 1913, intervista 2005.
[62] Antonina Lazzara, classe 1922, intervista 2007.
[63] Giuseppa Lanza, intervista 2015.
[64] Guggino E., Fate, Sibille e altre strane donne, Sellerio Editore Palermo 2006:73.
[65] Pitrè G., 1889: 153; cfr. Pitrè G., Medicina popolare siciliana, Clausen, Torino-Palermo, 1896.
[66] Guggino E., 2006: 73.
[67] cfr. Pitrè 1889, 1896; Guggino E., 2006; già in Mannella P.J., Trizzi di donna, tra etnopatia e virtù, in Etnografie del contemporaneo Anno 1 n. 2, 2019 – Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari – Museo internazionale delle marionette “A. Pasqualino”, Palermo; cfr. anche Mannella P.J., Il sussurro magico. Scongiuri, malesseri e orizzonti cerimoniali in Sicilia – Museo internazionale delle marionette “A. Pasqualino”, Palermo 2015.
[68] Ganci Battaglia G., Cenni storici e tradizionali del Comune di Gratteri, La Trazzera, Palermo 1930.
[69] Giuseppe Cirincione, classe 1918, intervista 2013.
[70] Vincenzo Sausa, classe 1928, intervista 2020; cfr. Fragale M., Gratteri da “crater, coppa Graal” (visitgratteri.com) in Il borgo del mistero. Sulle tracce del Sacro Graal. Cunti e credenze di Gratteri (di prossima pubblicazione). 
[71] Giuseppe Cirincione, classe 1918, intervista 2015.
[72] Fragale M., Gratteri: la leggenda della truvatura di San Giorgio tra Premostratensi e Cavalieri di Malta in Esperonews.it, dicembre 2012
[73] Maria Antonina Cirincione, classe 1913, intervista 2005.
[74] Guggino E., 2006: 66; sulla tematica si veda in particolare Giacobello G., Oltre quel che c’è. Oracoli, giochi di sorte, tesori nascosti, incanti sotterranei, Ed. Pasqualino, Palermo 2018.
[75] Cirincione Fedele, classe 1911, intervista 1995; Sausa Vincenzo, classe 1928, intervista 2020.
[76] Cfr. Galli G., Hitler e il nazismo magico, Rizzoli, Milano 2005; anche Fiori A., Il Sacro Graal del potere dalla Palestina a Hitler, in metronews.it, novembre 2016; Fragale M., La leggenda del Sacro Graal: quel calice che ricercava Hitler nel sito dell’Abbazia di San Giorgio, (visitgratteri.com); Fragale M., Gratteri da crater, coppa, Graal. Un racconto popolare occultato da secoli in Il borgo del mistero. Sulle tracce del Sacro Graal. Cunti e credenze di Gratteri (di prossima pubblicazione).   
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Marco Fragale, cresce a Gratteri, paese delle Madonie, dove sin dalla giovane età, per passione personale, intraprende una ricerca sul campo condotta in archivi e tramite videointerviste ai più anziani abitanti del paese. Si laurea nel 2007 in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul “Ciclo dell’anno a Gratteri”, evidenziando il legame tra aspetti devozionali e significato antropologico. Nel 2009 si specializza con il massimo dei voti in Filologia Moderna, con una tesi sul repertorio onomastico ufficiale e popolare di Gratteri, con interviste ai contadini e ai pastori del luogo. Dal 2009 insegna materie letterarie presso la Scuola Secondaria di secondo grado. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: Rattalùçiu…abberaffé! Cognomi e soprannomi di Gratteri dalla fine del sec. XVI agli inizi del XXI (Edizione Don Lorenzo Milani, 2013, rist. Lampidistampa, 2018); “La coscienza è conoscenza”. Noi giovani contro la Mafia (Lampidistampa, 2018). Autore del portale turistico “Visit Gratteri” e del museo virtuale “Gratteri nel cuore”, dal 2020 è Dottorando in Studi umanistici (XXXVI ciclo) presso l’Università degli Studi di Palermo.

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Foto tratte da www.visitgratteri.com;

Video Racconto sulle leggende di Gratteri: https://youtu.be/uz6CjU1u0E8

 

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