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I paradossi del Natale

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Giotto, Cappella degli Scrovegni, Natività, part. (1303)

di Leo Di Simone

L’era della globalizzazione è l’era del superamento del senso. Fluttuanti e disponibili i simboli e le credenze delle varie religioni si esportano e si importano, si mescolano e si trasformano con estrema volatilità. La ricerca del senso non ha alcun senso. Ciò che conta è la res cristallizzata e ottusa, apprezzata dal mercato globale. Così risulta alquanto peculiare il fatto che il mondo intero, ormai, si lasci condurre annualmente nella celebrazione di una festa cristiana come il Natale mettendo tra molte parentesi il paradosso dell’Incarnazione: Dio che si fa uomo, l’assoluto che si fa immanente, il Logos eterno, ossia la sapienza divina increata col suo imperscrutabile disegno universale, cosmico, che si fa carne. Carne mortale, in Gesù di Nazareth… nel Bambino che lentamente si è trasformato in Babbo Natale, in albero, in renna, in un cesto regalo…

Da duemila anni però la Chiesa confessa Gesù come Cristo intendendo con ciò che Gesù ci ha rivelato l’amore universale di Dio per tutti gli uomini e tutte le donne non solamente tramite il suo messaggio, ma per mezzo e nella sua umanità concreta. Questa identificazione di Dio come mistero d’immanenza a partire dall’umanità di Gesù di Nazareth è il tratto distintivo del Cristianesimo. Secondo l’affermazione assai pregnante di Paolo «in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità»[1]. Tratto distintivo e paradossale non solo per le religioni che istintivamente si rifiutano di pensare una qualsivoglia identità tra Dio e l’uomo, ma anche per il cristianesimo stesso quando si pensa e si struttura come religione. Di fatto è in questa veste religiosa che il cristianesimo si è provato ad affrontare la grande sfida del pluralismo religioso, tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio quando tutto si è globalizzato, anche la religione. E lo ha fatto non senza qualche contraddizione.

Si è trattato e si tratta di una sfida più radicale di quella ateistica, perché pone direttamente in causa l’identità cristiana stessa. Anche se la parola appare troppo impegnativa per designare i grandi mutamenti all’interno del pensiero cristiano, sembra legittimo parlare del pluralismo religioso come di un nuovo paradigma in teologia. Occorre, in questi tempi, dare risposte ad un momento storico che non è più solo sotto il segno, come nel secolo scorso, dell’indifferenza religiosa e di una secolarizzazione trionfante, ma della vitalità delle grandi tradizioni religiose o delle nuove che si sono plasmate dall’affastellamento di linee sincretiche; le une e le altre convergenti in un unico punto: l’orrore per l’incarnazione. Una situazione davvero difficile che postula più d’un dilemma.

C’è, per un verso, una paura quasi ancestrale nei confronti dell’incarnazione che si percepisce come un’offesa alla divinità e una minaccia per la religione. Pensare che tutto Dio nella sua trascendente impalpabilità si sia assoggettato alla palpabilità carnale, si sia ridotto a presenza tangibile, la si ritiene una forma di blasfemia. Sarà questa la causa delle stragi di cristiani da parte di fanatici fondamentalisti religiosi in Paesi a cultura islamica o induista? E poi, anche nelle postazioni non fondamentaliste, anche nel possesso controllato di una visione pacifica e dialogante della propria religione, quale stima, quale interesse si può avere per una religione cristiana che professa una tale stramberia eretta a sistema teologico? Quale dialogo si può intessere con una religione che ha la pretesa di richiamarsi ad un fondatore che non è solamente un profeta, un inviato di Dio, ma il Figlio stesso di Dio? Un Dio rinunciante e abdicante la sua divinità? Questa è una difficoltà permanente nel dialogo del Cristianesimo con le altre religioni, che pone il problema della mediazione assoluta di Cristo per la salvezza del genere umano. Perché a questo anela ogni religione: alla salvezza del genere umano ad opera di Dio.

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Natività, miniatura, sec. XIV

Come reinterpretare questa singolarità cristiana senza che il Cristianesimo appaia immediatamente come superiore ad ogni altra religione? Tale supremazia appare quantomeno implicita nell’insegnamento della Chiesa circa la mediazione salvifica. È l’insegnamento stesso dell’enciclica Redemptoris missio che d’un tratto afferma: «Il concorso di mediazioni di tipo e di ordine diverso non è escluso, ma queste traggono il loro senso e il loro valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere considerate come parallele e complementari»[2]. Permane una situazione di stallo dialogale impossibile da superare, nonostante gli sforzi dei teologi cristiani che hanno ricercato più d’una formula per edulcorare il paradosso dell’Incarnazione. La dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della Fede, che molti hanno letto come un arresto imposto alle ricerche più promettenti della teologia cattolica delle religioni, deve essere letta come un avvertimento molto serio indirizzato ad alcuni teologi che per favorire il dialogo interreligioso hanno rischiato di porre in discussione l’unicità salvifica di Cristo, e sarebbe come dire che hanno rischiato di perdere la verità della sua reale incarnazione riducendola a pura metafora.

Per altro verso si avverte tangibilmente il risentimento delle religioni nei confronti del cristianesimo in virtù della implicita superiorità di questo in quanto religione storica e rivelata che ostenta con fierezza la sua diversità. Il risentimento è tale che il cristianesimo viene bacchettato anche quando fa appello ai più elementari diritti umani. L’appello di papa Benedetto circa i diritti della libertà religiosa anche per i cristiani in Egitto è stato valutato dai non fondamentalisti musulmani egiziani come ingerenza negli affari dello Stato [3]. La religione cristiana, così, deve tacere in quanto religione di uno Stato cristiano che si intromette in uno Stato musulmano.

Risulta pertanto oltremodo paradossale che per rendere accettabile il cristianesimo agli occhi delle altre religioni si debba non manifestare completamente la sua intrinseca paradossalità, anzi, la serie di paradossi che lo animano quasi per sporogenesi a partire dall’Incarnazione. Ancora più paradossale, però, è il fatto che per sottolinearne la differenza, l’originalità, ci si ostini a farlo nell’ambito dei parametri religiosi che funzionano in maniera differente rispetto ai parametri insiti nella paradossalità dell’incarnazione. Se paradosso è sovvertimento dell’opinione (doxa) comune, il vero paradosso è che il cristianesimo quando lo si sottopone al vaglio scritturistico più rigoroso perde immediatamente la corazza dell’ethos religioso per ridursi alla nudità della fede. Non una religione ma una fede! Il cristianesimo deve diventare debole per essere forte. Non è forse questa la lezione paradossale dell’incarnazione? [4] È questa la lezione che dettiamo a Natale dai nostri pulpiti senza però condurla non tanto alle estreme ma alle sue ontologiche conseguenze che sono paradossalmente estremità di anticonformismo religioso.

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Giotto, Adorazione dei Magi, Cappella degli Scrovegni (1304)

Il cristianesimo, però, nonostante il paradosso dell’incarnazione, in coro con le altre religioni dice che «Dio nessuno lo ha mai visto»! [5] È una parola che lo rende solidale con quanti non sono in grado di esprimere con sicurezza interiore una qualche fede e perfino con quanti lo contestano come religione; senza riconoscerlo, però, come religione “diversa” che non trae profitto dalla sua fede quando dice di veder apparire Dio come esiliato volontario nella carne dell’uomo. Per il cristianesimo il Verbo che è Dio «ha posto la sua tenda fra noi»[6], si è manifestato in modo tale che tutta l’umanità religiosa ne rimane sconcertata. Dio si è manifestato contestato e ripudiato. Bisogna ricominciare da questo paradosso ripugnante alla potenza della religione, alla concezione religiosa della doxa come gloria di forza e di potenza per entrare nella logica paradossale di Dio che entra imprevedibilmente nella storia umana, nella carne umana, nella vita reale dell’umanità oltre ogni schema pensabile, fuori dai quadri stabiliti per tradizione antropologica dalla teologia delle religioni.

L’incarnazione si pone come paradosso religioso in quanto è un tratto marcato di discontinuità rispetto alle codificazioni teologiche religiose che pensano un Dio assoluto in maniera assolutistica, invadente, autoritariamente imponentesi con l’imperialismo spirituale, con la forza dell’istituzione, se necessario con la spada e la guerra. Ma questo Dio delle religioni è un Dio pensato in maniera talmente umana che il Dio fattosi uomo in Cristo Gesù è talmente impensabile da essere rigettato senza ripensamenti. L’umanità rifiuta l’umanità! È l’ulteriore paradosso: «venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto» [7]. Non è accolto il fatto che l’uomo, in quanto tale, è il segno di Dio; non è accettato il fatto che è Dio a pensare l’uomo nella verità, mentre l’uomo teologico pensa soltanto di pensare Dio.

L’affermazione barthiana che «qualunque cosa l’uomo dica di Dio è l’uomo che lo dice» ha la sua conferma antireligiosa nella celebre affermazione di Ireneo che delinea anche la discontinuità cultica del cristianesimo; se davvero «la gloria di Dio è l’uomo vivente» è Dio che infonde la sua doxa nell’uomo mentre l’uomo non può rendergli gloria che nella vita di Cristo, perché è con lui che è nato l’uomo, il vero uomo, senza altri aggettivi, dati anagrafici, privilegi razziali, gradi accademici, onori, titoli, paludamenti sontuosi: l’uomo nella nudità della kenosis di Dio che è abbassamento di esemplarità per l’uomo e nell’uomo. Ora, questo è troppo, è paradossale anche per ogni devota religione.

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Piero della Francesca, Natività, 1470

Ed è troppo anche per la scienza contemporanea, che pretende di discernere e plasmare il reale; la prospettiva dell’incarnazione è inconcepibile, in quanto si tratta di porre l’uomo e la natura contro un orizzonte metafisico, anzi, di rinvenire nell’uomo stesso tale orizzonte. A partire da Cartesio che ridusse la divinità a sostegno della non falsificabilità della ragione e passando per Feuerbach che considerò la religione come la proiezione di categorie umane in un cielo vuoto, fino a giungere a Nietzsche che inorridì davanti ad un cristianesimo «umano, troppo umano», la cultura contemporanea si ritrova erede di un ateismo scientifico che risiede nella non misurabilità di Dio secondo dati epistemologicamente sicuri e di un ateismo antimetafisico che esalta l’autonomia antropologica come forma di nuova ontologia. La mancanza di una aggiornata risposta cristiana a queste più recenti posizioni, sia religiose che laiche, dipende, in larga misura, dalla affievolita consapevolezza da parte del corpo ecclesiale della peculiare difformità dell’incarnazione sia rispetto alle aspettative religiose dell’umanità sia rispetto alle laiche.

Ed è qui che emerge l’ulteriore quanto inatteso paradosso che attiene all’ermeneutica del cristianesimo sul piano del substrato filosofico della sua perenne riflessione teologica. Un paradosso tenacemente rifiutato e rimosso nonostante il costante riferimento alla kénosis del manifestarsi storico del cristianesimo: il paradosso metafisico. Ad una doxa dell’abbassamento, della rinuncia e della mortificazione della potenza divina non può più far eco una considerazione teologica fondata sulla metafisica come “scienza dell’essere in quanto essere”. Se, come abbiamo detto, il cristianesimo ha eretto a sistema teologico la “stramberia religiosa” dell’incarnazione, esso non può più utilizzare strumenti metafisici di verifica al pari delle altre religioni che fondano nel metafisico la loro ontologia. Bisogna rileggere la lezione dimenticata di Wilhelm Dilthey per rendersene conto. Nella sua Introduzione alle scienze dello spirito Dilthey fa coincidere l’inizio della fine della metafisica con l’avvento del cristianesimo. Stante che la metafisica durerà fino a Kant e oltre, ma per il solo fatto che la Chiesa si è lasciata impigliare nelle strutture pensanti del mondo classico, e quindi nel dominante oggettivismo metafisico antico, mettendo in ombra le propensioni cristiane originarie per l’interiorità, la soggettività, la libertà declinate in chiave biblica piuttosto che filosofica. Ma non c’è dubbio che il Dio della metafisica e della scolastica medievale non è il Dio della Bibbia dove con la nozione di creazione viene sottolineata la contingenza e la storicità del nostro esistere.

«Dio non pensa, Egli crea. Dio non esiste, Egli è eterno. L’uomo pensa ed esiste e l’esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l’uno dall’altro nella successione». Così Søren Kierkegaard nella Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole di filosofia” mette tra parentesi la consistenza dell’eternità divina attribuendo valore assoluto al tempo che esiste invece unicamente come spazio metafisico in cui Lui si fa incontrare essendo il tempo atto della sua parola creatrice. Tutto ciò per Kierkegaard appartiene alla categoria del “paradosso”, perché Dio, in quanto oggetto della fede, “urta” contro il principio di immanenza, contro la ragione che pretende di spiegare e di esaurire tutto non ammettendo nulla sopra di sé. Ciò che la ragione crede “assurdo” la fede lo crede paradossale, fusione cioè di categorie opposte: Dio stesso, eterno e immutabile, mediante l’incarnazione del Verbo, “muta”, per così dire, il suo assetto ed entra nel tempo, nello spazio da Lui concesso all’esistenza, e si dà un inizio nel tempo, apparendo sotto “forma” di uomo, ed anzi sotto la forma di servo [8]. Questo paradosso per Kierkegaard non è una concessione dell’intelletto ma una “categoria”: una determinazione ontologica che esprime il rapporto tra uno spirito esistente, conoscente, e la verità eterna. Proprio per il paradosso come tale il credente è portato a credere e non per una evidenza logica. Il cristianesimo perciò insegna che proprio l’eterno è apparso nel tempo, che Dio si è fatto uomo in Cristo e che Cristo ha meritato all’uomo la salvezza eterna, per cui l’uomo in Cristo può attingere l’eternità nel tempo. Il tempo cristiano non è dunque una questione di mutamento di calendario, di mutamento di punto di riferimento cronologico, ma attiene al “mutamento” di Dio. È l’Evento imprevisto e impensabile della dissoluzione metafisica.

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Lorenzo Costa, Natività, 1490

Nella nozione di «Evento» si sintetizzano forse meglio le istanze del pluralismo postmoderno sul modo di pensare l’essere, e con esso la verità non più come riflesso di una struttura eterna del reale ma come messaggio storico che siamo chiamati ad ascoltare, osservare e al quale siamo tenuti a rispondere. Nella fattispecie il «Bambino». Il Bambino non letto, non osservato, non considerato abbastanza nella sua pregnanza simbolica di novità eventuale dalla contemporaneità del pluralismo globale immerso nel mare dell’insignificanza. E ciò a causa della inconfessata nostalgia dell’attuale cultura per la forma metafisica rimasta intatta anche dentro la religione della laicità. Parlo di quella laicità che sostiene paradigmi ateistici e scientisti e che per tenerli in piedi deve utilizzare il discorso metafisico. È stato Thomas Kuhn a ricordarci che le scienze verificano o falsificano ipotesi solo sulla base di certi presupposti, metodi, teoremi, assiomi, i quali a loro volta non sono verificati o dimostrati [9]. Bisogna prendere atto, come sostiene Gianni Vattimo, che la filosofia e la scienza non possono afferrare con certezza il fondamento ultimo, per cui «è finita anche la necessità dell’ateismo filosofico» e dopo una filosofia storicistica, come lo hegelismo e il marxismo o positivistica, come le varie forme di scientismo, nella fine postmoderna delle filosofie assolute «noi siamo di nuovo liberi di ascoltare la parola della Scrittura» [10].

In pratica resta solo l’Evento Bambino come risorsa al “pensiero debole”. E l’Evento ci dice, ancora, – e qui seguiamo una intuizione risolutiva di Renè Girard – che se c’è una verità divina nel cristianesimo questa consiste proprio nello svelamento e smascheramento dei meccanismi violenti da cui nasce il “sacro” della religiosità naturale, cioè il sacro peculiare del Dio metafisico, il Dio “violento” delle religioni naturali[11], per cui ciò che conta è innalzarsi alla conoscenza del principio primo piuttosto che accondiscendere al comandamento della carità.

Ora, il Cristianesimo, per fortuna, non è né una religione naturale né una religione in senso stretto. Il suo apparentamento alla metafisica più che un fatto ontologico è stato un fatto culturale, una chiave per aprirsi un accesso nel mondo delle religioni che non prescindono dal metafisico e aborriscono l’incarnazione. Abbiamo visto per secoli il cristianesimo davanti a questo dubbio amletico, tra l’essere e il non essere, tra metafisica e incarnazione, non senza il ricorso a mediazioni dialettiche di compromesso inscritte nelle risoluzioni metafisiche della teologia cristiana. E con la discriminante assoluta della Caritas considerata un mero tema teologico tra tanti invece che il nome ontologico di Dio [12]. Qui sembra valere, per ulteriore paradosso, la critica aperta di Heidegger alla metafisica tout court, al pensiero oggettivante che si è dimenticato dell’essere a favore degli enti. Alla metafisica che egli vide prevalente nella tradizione cristiana e che pessimisticamente gli fece pensare ad una “insuperabilità” della metafisica, almeno fino all’autonoma decisione dell’essere di esprimersi in maniera alternativa, come sibillinamente accennò nell’ultima intervista allo Spiegel con la celebre frase: «Solo un Dio ci può salvare». Strano che prima ne avesse riconosciuto l’ipostasi nella religione nazista e non nell’evento cristiano in quanto demolitore, con la kenosis divina, dello scoglio dell’insuperabilità metafisica.

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Botticelli, Natività, sec. XV

Di fatto questa insuperabilità sembra costituire una sorta di “peccato originale” che preclude l’accesso al divino. Che ne preclude l’accesso soprattutto alle religioni in genere fortemente organizzate in senso gerarchico, verticalistico, verticistico e in prospettiva autoritaria. Ne è un esempio l’impostazione costantiniana del cristianesimo ad opera di Eusebio di Cesarea su parametri platonico-plotiniani che denotavano l’ascendenza divina del potere imperiale [13]. Impostazione dalla quale il cristianesimo non è ancora completamente uscito, non avendo ancora, non dico rintracciato, ma legittimato la vitalità della sua vera fonte.

Non è mia intenzione, qui, proporre una teologia alternativa dell’incarnazione. Il discorso fatto interessa semmai il dialogo interreligioso, quando si assiste all’ulteriore paradosso che vede da un lato il ritorno della religione nella nostra epoca legato alla dissoluzione della metafisica «e cioè dal discredito di ogni dottrina che pretenda di valere assolutamente e definitivamente come descrizione vera delle strutture dell’essere» e dall’altra la rinascita dei fondamentalismi tesi «a raggiungere una verità ultima, certamente oggetto di fede e non di dimostrazione razionale, ma comunque tendenzialmente escludente proprio quel pluralismo delle visioni del mondo» che sembra essere la condizione della possibilità della rinascita del religioso nel nostro tempo [14].

Ed è a questo punto che il Cristianesimo deve tirarsi fuori dal dibattito, assumendo ruolo catalizzante e continuando ad essere la pietra di scandalo delle religioni per via della sua “sospetta” impronta laica. Un sospetto ben fondato nella sua Scrittura. L’aggettivo “laico” nel cristianesimo ha valore inclusivo: è in favore del laos, del popolo. D’altra parte il Bambino è nato fuori dai circuiti clericali del tempio di Gerusalemme e della corte regale giudaica: è nato in una grotta di un caravanserraglio e i suoi primi adoratori sono stati gli “impuri” pastori. C’è una sagoma simbolica nel racconto del Bambino che è universale perché non tocca gangli religiosi e confessionali ma semplicemente la sensibilità umana. Una spiegazione della celebrazione laica e universale del Natale? Può darsi, se si porta il discorso alle sue estreme conseguenze, al sospetto metafisico del mondo laico.

Un invito alle religioni a riflettere sulla loro consistenza troppo metafisica e a considerare un riposizionamento in favore dell’uomo in quanto interlocutore di Dio? Potrebbe essere un auspicio di solidarietà antropologica per le religioni in aiuto all’umanità per lo smantellamento di tutte le strutture di potere oppressivo che si reggono sui presupposti della “insuperabilità” metafisica, perenne “peccato originale” che il Bambino ha preteso di eliminare con semplicità disarmante.

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Caravaggio, Natività con i santi Lorenzo e Francesco (1600)

Un monito per le Chiese cristiane a recuperare il tesoro della fede nell’Incarnazione e la vocazione alla laicità come uniche possibilità per non consegnare il cristianesimo all’oggettistica del mercato globale o alle mensole museali? Forse è questo che papa Francesco intende con l’espressione “Chiesa in uscita”? Uscita dai sofismi metafisici, dalle teologie disincarnate, dalle strutture di potere, dai dogmi improponibili, dalle precettazioni arroganti, dalle consuetudini anacronistiche e superstiziose, dal devozionismo untuoso, dalla morale farisaica, dall’influenza secolaristica … ?

Mi piace rispondere riportando, per concludere cum animi levitate questo discorso inconcluso, l’interpretazione faceta di don Antonio Mazzi che a novant’anni può permettersi di dire quello che vuole, non avendo mai dato prova, per altro, di silenzio complice o reticente. Per lui, dopo aver parlato col Papa, Chiesa in uscita significherebbe la chiusura del Vaticano, dopo aver dato in affitto ai Giapponesi i Musei Vaticani e aver mandato i cardinali in Africa in missione evangelizzatrice [15]. Potrebbe essere un’idea!

Mentre in tutto il mondo si continua a celebrare il Natale come un desiderio inconscio e inconfessato che quell’icona del Bambino trovi ancora e ovunque la sua incarnazione.

 Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] Col 2,9.
[2] Lettera eniclica di Giovanni Paolo II sulla permanente validità del mandato missionario della Chiesa nel mondo contemporaneo. Promulgata il 7 dicembre 1990, n.5.
[3] Era il gennaio del 2011, quando papa Benedetto XVI, all’Angelus, prese posizione contro gli attentati alle chiese copte di Alessandria, scatenando la reazione del Grande imam, che parlò di interferenze da parte della chiesa di Roma negli affari interni dell’Egitto.
[4] Affermazione paolina in 2Cor 12,10: «Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte».
[5] Gv 1,18
[6] Cfr. Gv 1,14
[7] Gv 1,11
[8] Cfr. in Id., Opere, Sansoni, Firenze 1972: 441.
[9] Cfr.T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1964.
[10] G. Vattimo, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002: 9.
[11] Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980.
[12] Deus Caritas est! 1 Gv 4,8
[13] Cfr. il mio saggio Arte normanna in Sicilia: proiezione simbolica di modelli teologico-politici, in, S. Vacca (a cura di), La legazia apostolica. Chiesa, potere e società in Sicilia in età medievale e moderna, Sciascia ed., Caltanissetta- Roma 2000: 98-99.
[14] Cfr. G. Vattimo, cit.: 22.
[15] C. Verdi, L’affondo di don Mazzi: “Se fossi Papa chiuderei il Vaticano” , in «Il Giornale», 3 dicembre 2019: http://www.ilgiornale.it/news/cronache/laffondo-don-mazzi-se-fossi-papa-chiuderei-vaticano-1793844.html
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003)Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas MertonUn umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).

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