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I giorni del corona

 

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Mattia Presti, Bozzetto per gli affreschi sulla peste di Napoli, 1657, Museo di Capodimonte, Napoli

dialoghi intorno al virus

14 aprile

di Sebastiano Burgaretta

Nei giorni della forzata clausura imposta dalla contagiosa diffusione del coronavirus ho aperto un quotidiano dialogo con me stesso e con la realtà esterna sulla base delle proprie, intime riflessioni, da un lato, e degli stimoli provenienti dal mondo esterno, dall’altro. Ho così delineato un tracciato umano e culturale della realtà con la quale tutti in questo periodo stiamo confrontandoci. Ne è venuta fuori una sorta di diario in versi, che, ora con la gravitas consona all’emergenza sanitaria, che è anche esistenziale, economica e sociale, del momento, ora con la leggerezza di una terapeutica autoironia, nulla tace al vaglio di quello che si presenta come un work in progress, ancora, dati i tempi lunghi dell’emergenza in corso, suscettibile di aggiustamenti e integrazioni. Ne pubblico qui alcuni stralci.

                                                                          

                                                                                                 Dipinte in queste rive
                                                                                                 Son dell’umana gente
                                                                                                 Le magnifiche sorti e progressive
                                                                                               (G. Leopardi, La ginestra, vv. 49-51)


A la fini ni calàssunu li pinni,

se fini ci sarà ppi unni unni.

Zzocch’è-ssou si ripiggghja la natura,

ca nun canusci finàiti e cunfini.

E nun è-mmancu a furia i ‘na muntagna,

né Etna né sterminator Vesevo,

ccu scusciu a gnutticàrini e-ffocu.

Nu scazzùmmulu vola scàusu e nuru,

ca si infingi ri re ppi sgricciunata,

nfilannu all’uruvisca a-ttutti bbanni,

mutu mutu çiusciannu a caravolu.

E-nnui, ca ni sintìimu ‘n cazzu e-mmenzu,

ccô culu ‘n terra ni tuccàu mpicati.

*

Flebile la luce dei giorni,

accesa per un dono di natura.

Ora sappiamo quanto poco

basta a spegnerla del tutto.

L’avevamo dimenticato nel tempo

andato dell’imbelle sarabanda.

*

Declina disperata a conclusione,

prova d’orchestra al modo di Fellini

a me pare in grande somiglianza,

la grande abbuffata nei decenni

tutta consumata a prezzo zero.

Se ne profila il conto all’orizzonte

con un tasso alto assai d’interesse.

*

Non uno sguardo viatico di luce,

non una mano a stringere la mano.

Soli i figli dell’uomo nel trapasso,

soli i viventi a gemere l’assenza.

Il passo in solitudine dei morti,

il pianto in solitudine dei vivi.

Dopo il buio discreto della sera

anche la luce d’un giorno velato,

nel silenzio sospeso dell’ignoto,

scioglie una continua litania

di mezzi militari tutti uguali

in cui a parlare è l’anonimato.

*

Tu scrivi a chi non puoi visitare,

pur d’essere presente alla sua vita,

tu scrivi, renitente alla deriva,

a chi due volte è chiuso tra le mura.

Son come raddoppiati quei cancelli,

quasi che cinque fossero già pochi.

Non voce amica là ad ascoltare,

né occhio di madre a contemplare

la pena in solitudine dei figli.

Tu scrivi e rimani in audienza,

il cuore dilatando nell’attesa.

*

Il computo fai degli amici,

chi prima e chi dopo contattare,

cominciando da quelli che sai soli.

Pesa la solitudine assai più

ora che le giornate son più lunghe

non certo per il marzo equinoziale.

Domandi, ascolti e poi domandi

e poi di nuovo ancora ad ascoltare

quanto d’incerto palpita in tutti.

Comparti quindi tu quello che puoi,

nudato nell’anima e nel canto

che vibra ancora in te resiliente.

*

L’antico tuo mezzo di ristoro,

l’autoironia tua vivificante

attiva ti soccorre e salutare,

ora che sei chiamato a ridestare

giovani energie traballanti

nel vento impetuoso del malore.

Tutto di te è dato all’altrui riso,

istrione consapevole tu fatto

e da te stesso messo alla berlina,

per ricomporre sostegno all’armonia,

che crepa e si sfilaccia in alcuni

in mano alla continua gragnuola

di false notizie e tiritere

aggiunte al bollettino quotidiano

di morti e di dubbii morenti.

*

Nnê strati si pò-ccùrriri a la nura.

Comu n’arriddhuçemmu nui mischini!

Ci ha statu unu a Roma supra ‘m ponti,

ca nuru ìa ennu pp’addhaveru

e-ppi-gghjunta ri iornu suttô suli.

Sì, u senziu scirrari pò-mmacari

a occarunu ca l’avi legghju ri natura,

ma, çettu, nun è cosa abituali

passari ammenzê strati senzê nuddhu,

nuddhu, nuddhu propria veramenti.

Se poi çiovi ri sècutu ttri-gghjorna,

li strati addhivèntunu assummusi

e-mmèttunu ntô scantu a ccu ci ‘ncappa.

*

Un metro, un metro e mezzo o due metri,

sconfina la fiducia in diffidenza.

La figlia teme d’accostarsi a padre,

non si sa mai in chi si sia intoppati

nel far la lunga coda al mercatino.

E l’ansia si fa strada un po’ in tutti.

Distanti pur dentro una medesima

stanza di quotidiana convivenza.

Niente abbracci e men che meno baci,

soltanto sguardi, proibito il resto.

*

A cibo e medicine siam ridotti.

E non è questo forse l’essenziale,

che d’altro c’è bisogno in assoluto?

Quasi tutto superfluo il resto

disvelando si va al nostro inconscio.

Quante necessità che sono indotte

appaiono nella loro nudità!

I giorni di questa forzata clausura

si offrono maestri al comprendonio

duro di solito nelle nostre teste.

Come sempre, alla libera coscienza

il discrimen tra vita e schiavitù.

*

L’immagine del vecchio claudicante,

icona medievale ai giorni nostri,

stupore balenante in quella piazza

deserta sotto una battente pioggia

nel seno d’un blu crepuscolare,

a rompere il silenzio siderale

d’un Cristo crocifisso che grondava

ancora acqua lungo il suo costato,

perché l’uomo lo unisse al sangue

dei tanti mille morti del corona.

*

Non poterti incontrare coi parenti

o gli amici che ti danno respiro

così tutto d’un colpo inaspettato

non è facile da interiorizzare,

ai fini d’un personale equilibrio

di vita che sia a nostra misura.

Ma il fatto sta nella misura nostra,

che cedere non vuole all’assoluto.

Nel relativo spesso c’è sollievo.

Visitare ogni giorno su in terrazzo

i vasi d’ippeastro con le punte

che cercano la luce nel vigore

potente naturale dei colori,

coi quali volto nuovo avrà la vita

ritornata in questa primavera,

sia vera primavera finalmente.

*

                                                                                                                                                                  Combatti bene con le tue restrizioni

col dare fondo alle tue risorse.

Scrivi, leggi e ascolti musica,

quella mediorientale preferita,

che ti concilia bellezza e neuroni.

Preghi e reimplori tenerezza

agli amici che tieni custoditi

con tanto amore sulla scrivania.

Puntuale torna a te l’ombra di Banquo,

che annichila il tutto in un istante.

Vanno cadendo i figli d’Adamo

come birilli uno dopo l’altro.

Ma birilli non sono in verità,

né i numeri che sono diventati.

Carni vattiata e scheggia divina

è in ognuno che ora ci precede

nel cammino che va verso l’ignoto;

scheggia del tutto cui apparteniamo,

volenti o nolenti, in realtà.

Da qui la pena che ti si rinnova,

a pesar de lo que estés haciendo

en algo ofreciendo para sustentar.

*

Ha fame ora la gente nel paese,

il crollo economico è fatale

anticipo di un crollo sociale.

Temperie nuova questa e immane,

cui mai nessuno s’era preparato.

Disorientati tutti in ogni dove.

L’istinto primo di sopravvivenza

spinge malamente alla chiusura

di porte e frontiere in Europa,

è l’istinto di morte che tentenna

per la paura, che si ha, di vivere

aprendo tutto alla condivisione.

L’immagine abusata della barca,

in cui si è tutti sotto la tempesta,

stenta ancora a convincere chi crede

d’essere al sicuro per sé solo.

Quando a picco cola tra i flutti,

il legno al fondo porta con sé tutti.

*

E sulla santabarbara ch’è oggi

l’Italia della morte e del bisogno,

c’è chi soffia, per raccattare voti

e prega oscenamente alla tivù

con la show girl fatta giornalista,

in spregio alla pazienza della gente,

come se in alto s’avesse piacere

a tenere la gente chiusa in casa,

quasi cessata fosse l’emergenza.

Ansiogena la stampa che li serve,

alimentando il fuoco del disagio.

Quanti nodi irrisolti del passato

tornano fantasmi ingigantiti!

*

Aperte sempre le tabaccherie.

Il metadone per i tabagisti

non può, certo, mancare ogni giorno,

razione necessaria alla vita.

Le dipendenze vanno assecondate,

per limitare i danni alle persone,

Mitridate ne fu il caposcuola.

Non sia mai fossero aperte pure

le librerie superstiti qua e là.

Dionescampi da simile flagello,

sarebbe un guaio un’altra dipendenza,

calamità pubblica evidente,

quella dai libri sciocca e letale.

*

E tu pure prepari u lavureddhu

ppi lu sapurcu ri lu santu iovi.

Non più il bonsai d’ulivo benedetto

dei tanti quarant’anni già passati.

Un giardino piccolo d’Adone,

nel rituale domestico quest’anno,

sarà sul davanzale con un lume,

segno inequivocabile di vita.

Pasqua, quest’anno, di resurrezione

che è pasqua, giocoforza, di attesa,

in quanto a nessuno più che a lui,

il vecchio claudicante ha cantato,

importa realmente di noi tutti.

*

Latitante l’Europa e renitente

memoria corta registra su di sé,

diffondendo dal Nord altri veleni,

e galleggiano le democrature.

Il megafono Ursula dei ricchi

paesi che son privi di memoria,

ripete, smentendosi, la replica

di colei che la striglia da Berlino.

U saziu nul-lu criri a lu rijunu,

dicevano sapienti i nostri padri.

Il povero sì ch’è riconoscente.

Benedetto piuttosto Edi Rama

che ridona dignità all’Europa.

Candela accesa per tutti l’Albania,

che serba e coltiva la memoria,

vera virtù capace di dar vita.

*

Finita da un bel po’ la grande ola

di inni patriottici e di canti

del vasto repertorio nazionale,

che a Napoli facevan l’esorcismo

al contagio montante dei primordi,

un pugno di balordi a Pozzuoli,

cinquanta criminali in realtà,

balla e canta all’ombra dei palazzi

in barba a leggi e a moribondi.

Esibizioni, applausi finali,

grida di protesta alla luna:

fateci sfogare, il grido è alto,

sennò qua noi la gente uccidiamo.

Non dirlo, avrei detto a mia nonna,

se fosse ancora viva qui con me,

che sono del quartier dei Marocchini.

Non c’entrano i figli del Marocco,

son figli di Partenope la vecchia,

putenti questi son puteolani,

di creta sulfurea concretati.

*

Non mancano né sciocchi né sciacalli,

quando il campo è libero e impune,

o almeno si pensa ch’esso sia così.

La rete è il reticolo perfetto

per tele da tessere all’incanto.

Tutto vi passa dentro a buon mercato.

Una comune, in primis, influenza,

su cui si va tanto esagerando,

manovre di politici incapaci.

Non aprite per nessun motivo a chi

sta andando in giro porta a porta,

a vendere, si dice, mascherine,

ché ladri armati sono invece essi.

Non aprite la porta a quelli che

dicono di disinfettar le case,

i condomini e le banconote,

nemmeno a chi vuol somministrare

il tampone per il coronavirus.

I vecchi proteggete da chi si offre

di prendergli alla posta la pensione.

Presunti volontari, al mio paese,

che si presentano per la Croce Rossa,

telefonano a casa di anziani,

cercando traversine per le culle.

Al centro commerciale tal dei tali

prodotti gratis solo ai primi dieci

clienti che si presentino da soli.

Anche un Eracleonte di Gela,

storico antico si sono inventati,

che scrisse pari pari del corona,

a buggerare il veneto bacucco.

Insomma grasse bufale per tutti.

Limite non hanno i buontemponi,

nemmeno i delinquenti una misura.

*

Continua il silenzio inaudito

degli ambulanti che vendono per strada.

Mi mancano gli arabi melismi

e la loro cadenza musicale

con la sequela e l’innesto proprio,

l’un nell’altro con armonia perfetta,

che a Trapani le marce il venerdì

m’impressero per sempre nella testa,

con maggior chiovi che d’altrui sermone;

virili nenie recondite di vita

che i secoli trapassano al sicuro.

*

Sarà lunga, comunica il governo,

la notte che ci sta avvolgendo tutti,

tunnel, chiamato ancora, senza luce,

abisso il cui fondo resta ignoto.

Ha sa passà ‘a nuttata, Eduardo,

ma chista nuosta è chiù scurnusa assaje.

A giorni alterni dà il comunicato

quel povero Cireneo della via

in sorte alla politica legata.

Il viso sempre più si fa tirato,

eppure per rispetto non trascura

capelli e pochette al modo suo.

Non è neanche da immaginare

se invece di pochette fosse Papeete.

*

Poveri cani anch’essi coartati,

per nemesi beffarda questa volta,

dal male catubbo dei lor padroni.

Cinque, sei o sette volte al dì

portati in giro li vedi a far pipì.

La madre, il padre e la figlia,

pure il nonno, che non s’era mai visto,

ora con doppio turno quotidiano,

a reggere il provvido guinzaglio

di quell’unico quadrupede fedele

e paziente nel farsi trascinare.

Mai tanti cani a spasso nel paese,

dice una signora alla finestra,

smaltendo sotto un velo ironia

la pena che quelle bestie le danno,

le stesse che soltanto un mese prima

rischiavano di farla dentro casa

per la morosità dei padroncini.

*

L’isola chiusa e rigide ordinanze

titillano gli istinti agli sceriffi

nel brodo di coltura siciliano.

Da Messina a Palermo e a Pachino

la voce è soltanto una sola,

e assai spesso tramutata in urlo.

Quella del mio sindaco è su nastro,

restate in casa va gridando in giro,

e l’altro: che cazzo fate voi qua!?

rivolto a dei giovani a passeggio,

a calci in culo vi rimando a casa!

Pure dai droni il grande fratello

minaccia e parla come il padreterno

che dal cielo irrompeva con De Sica:

questa sera, dall’alto rimbombava,

comincia il Giudizio universale.

Ma io avverto odor di vaselina

per un giudizio ch’è particolare.

*

Com’è strano, carissimo Antonino,

vivere ciò che tu hai profetato,

chiedi ancora, a Le Palme, o madre mia,

l’ulivo benedetto, tu cantavi.

Non palme, non croci, né processioni.

Hoy en dίa el Domingo aquί de ramos

i rami ha perso e la sua luce.

Non ha rami d’ulivo, non ha voci

la gloria sia pure d’un somaro.

La piazza è vuota e vuota anche la chiesa,

lo streaming e il virtuale danno il là,

sterilizzando riti e comunione,

a questa settimana di dolore.

La grande settimana degli antichi,

megali evdomàda degli orientali,

s’è ristretta e fatta piccolina,

a misura dei cuori rattrappiti

di noi che patiamo questi giorni.

*

Tace la città, ch’è intorpidita,

silente sembrerebbe abituata.

Questo silenzio nuovo mai sentito,

consonante con quello tuo interno,

sgomento aggiunge allo stupore,

al quale sei pure abituato.

Da che dipende quello che è fuori,

ti sorprendi a domandarti ora,

è figlio d’obbedienza spirituale

o semplice prodotto della legge?

*

Quanta vuota retorica spalmata,

corredo stomachevole di rito,

in tutte le tivù interessate

a non esser da meno dentro il coro.

Le signore del trash televisivo

gareggiano nel dar consolazione.

Onoriamo gli eroi degli ospedali,

infermieri, dottori e portantini.

Destinatari d’eroica patente,

dai politici ora rilasciata,

sono gli stessi che a gran voce ieri

erano da noi tutti sbertucciati,

perché venduti al dio denaro.

E ancora adesso, nel marasma d’oggi,

resiste tenace quella moda,

s’è vero che ci sono avvocati

i quali invogliano a denunciare

la mala sanità di questi giorni;

gratuito patrocinio assicurato

a quelli che volessero far causa,

anche questo abbiamo da smaltire.

*

Da quando in questo mese di clausura

impieghi le tue mani in pulizie,

per dare alla tua casa lo splendore

che tutti i venerdì era Maria

a curare con grande dedizione,

gusti la gioia antica del connubio

tra mente e braccia come nel passato.

Recupero vitale al tuo cuore,

u fesi ri tô pattri bbinirittu

e a menti tova aggualata ‘n terra.

Al Séder di Pésach va il nitore

dei tempi belli della scialbatura.

*

U lavureddhu e un cero acceso

l’intera notte sul tuo balcone,

a vegliare da soli nell’assenza.

*

Negata è a te, amara sera,

la tenerezza dell’Arimateo

che accoglie nelle mani il Crocifisso.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020

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Sebastiano Burgaretta, poeta e studioso di tradizioni popolari, ha collaborato con Antonino Uccello e, come cultore della materia, con la cattedra di Storia delle Tradizioni Popolari dell’Università di Catania. Ha curato varie mostre di argomento etnoantropologico in collaborazione col Museo delle Genti dell’Etna, con la Villa-museo di Nunzio Bruno, con la Casa-museo “A. Uccello”, col Museo teatrale alla Scala di Milano. Ha pubblicato centinaia di saggi e articoli su quotidiani, riviste e raccolte varie. Tra i suoi volumi di saggistica: Api e miele in Sicilia (1982); Avola festaiola (1988); Mattia Di Martino nelle lettere inedite al Pitrè (1992); Festa (1996); Sapienza del fare (1996); Retablo siciliano (1997); Cultura materiale e tradizioni popolari nel Siracusano (2002); Sicilia intima (2007); La memoria e la parola (2008); Non è cosa malcreata (2009); Avola. Note di cultura popolare (2012).

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