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I carabineros e i canti. Cronaca di una protesta in Cile

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Fonda e pietre nella lotta contro i carabineros (ph.Cristina  Siddiolo)

di Cristina Siddiolo

“Il Cile si è svegliato” è stato uno degli slogan maggiormente letti e ascoltati nei giorni immediatamente successivi all’esplosione della protesta, iniziata venerdì 18 ottobre. E in effetti, arrivando in Cile il 15 novembre, una delle prime frasi che Emilio – un caro amico cileno, guida instancabile e fonte di preziose informazioni – ha espresso in relazione alla rivolta è stata: «stavamo dormendo, ma adesso ci siamo svegliati». La metafora del risveglio mi colpisce nell’immediato come un pizzicotto che riattiva un muscolo intorpidito. Mi domando subito che tipo di sonno o di sogno abbia caratterizzato l’esperienza cilena, pur avendo già un bagaglio personale di informazioni intorno alla protesta e alla storia del Paese. Una prima risposta arriva nell’immediato, ancor prima di pronunciare la domanda.

Emilio mi racconta dell’isolamento quale prodotto sistemico della società capitalista e neoliberista. E lo fa attraverso dei semplici esempi, tutti accomunati dal senso di solitudine e dall’assenza di relazione e di solidarietà. Nella retorica della protesta le metafore giocano un ruolo importante poiché sono in grado di veicolare verità complesse in modo trasversale. Chiaramente la trasversalità di cui parliamo non è assoluta poiché la trasposizione di significato è resa possibile da una condivisione delle categorie cognitive della cultura. Tuttavia, il loro uso negli specifici contesti è in grado di esercitare un’influenza sulla lingua e sulla cultura la cui portata non sempre è quantificabile. La si percepisce, come una forza che parla un linguaggio totalmente altro.

Prima della protesta gli autobus e le piazze erano luoghi affollati di solitudini, non ci si guardava negli occhi, non ci si salutava e si sconosceva il nome dell’Altro. L’Altro come categoria non era una realtà accessibile, poiché per accedere è necessaria una relazione, l’apertura di un canale comunicativo. L’Altro era confinato in se stesso, senza conoscere né l’origine né la natura dei suoi stessi confini. Mi diverte utilizzare un certo tipo di linguaggio e tuttavia ne sento l’esigenza. Anche io, in quanto studiosa di antropologia e viaggiatrice, veicolo informazioni e suggestioni. E lo faccio conferendo alla scrittura una sua peculiare forma, cosciente della parzialità del momento.

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Proteste a Plaza de la dignidad (ph. Siddiolo)

Sono infatti rientrata da poco dal Cile e molte esperienze sono ancora in fase di metabolizzazione. Prendo atto di questo e mi lascio guidare da un flusso di coscienza che, a partire dalle metafore, mi condurrà, in una logica ricca di slittamenti, ad uno spazio più sistematico del pensiero ma non per questo assoluto e definitivo. Come lo sciamano, l’antropologo è abituato a “viaggiare tra i mondi”, tra le culture e le innumerevoli sub-culture. Siamo dei viaggiatori, ci muoviamo attraverso continui attraversamenti in aree di confine fra il noto e l’ignoto, nella consapevolezza che ogni viaggio è potenzialmente un “rito di passaggio” verso una nuova comprensione, una epifanica scoperta. Rimango fedele ad un impostazione di ricerca che è ben espressa dall’antropologo Stefano Montes in un suo interessante articolo sul senso del vivere:

«Non si tratta dunque di fare le giuste domande, concretamente poste, oppure di andare in luoghi lontani al fine di subirne uno straniamento rivelatore; bisognerebbe invece, per cominciare, reimpostare i fini della ricerca smussando alcune opposizioni che ostacolano un pensiero applicato al vivere quotidiano: rinunciare all’‘esotismo’ della ricerca sul campo (la vita è un campo ovunque si viva e si vada, nei suoi ambiti più ordinari o straordinari); fare a meno di un simulacro di osservazione-partecipante improntata allo studio dell’altro come se il soggetto osservatore-partecipante fosse una neutrale cinepresa priva di soggettività (chi osserva è un soggetto, tra simili, che ritaglia il mondo da una prospettiva specifica non totalizzante); spostare l’accento dalla nozione di cultura all’altrettanto complessa nozione di vita (se la riflessione sulla cultura è pur sempre importante in quanto consente di mettere a fuoco sulle qualità di ‘insieme’ di gruppi e comunità, l’accento sulla vita consente inoltre di ripartire dall’intreccio di cognizione, emozione e soma che caratterizza l’individuo). Sono piccoli passi, ma di grande importanza se si guarda alla storia dell’antropologia e alle sue diverse strategie di ricerca utilizzate nel tempo» (Montes, 2017).

Arrivo a Santiago del Cile nei giorni caldi della protesta per caso, e il caso si trasforma in occasione. Avevo un programma, sebbene ridotto all’essenziale: rivedere Geraldine, conoscere Alma, la sua bambina, e ritrovare un po’ di natura selvaggia in un territorio (il Sudamerica) che geograficamente detiene una percentuale altissima di riserve naturali e che storicamente ha privilegiato una relazione affettiva con la terra simbolicamente rappresentata dalla Pachamama, la Madre terra, la divinità venerata dagli Inca e da altri popoli abitanti l’altopiano andino. quali gli Aymara e i Quechua. Arrivo con un programma flessibile poiché conosco il potere dell’imprevisto quale elemento che modifica il potenziale di situazione (shi), antico concetto della filosofia cinese designato nell’Arte della guerra. Il buon generale, afferma Sunzi, sfrutta il potenziale di situazione per vincere la battaglia, questa è la strategia più efficace. La situazione si rivela dunque non più solo un quadro, cioè un contesto, ma un potenziale attivo che il bravo stratega è in grado di valutare. L’efficacia, ci insegna l’antica filosofia cinese, procede proprio dalla situazione.

Il presente contributo è dunque il frutto di un potenziale di situazione che ho deciso di trasformare in ricerca. Il mio potenziale di situazione, nello specifico, era costituito dal potere vivere il “campo della protesta” e dal condividere il viaggio con una straordinaria amica e abile ricercatrice, Clelia Bartoli. Clelia parte con lo specifico obiettivo di sviluppare un metodo di lavoro destinato a implementare un progetto di immaginazione politica che in Cile sembra destinato a trovare una particolare e sorprendente convergenza, quantomeno sul piano della visione. Inoltre sono in compagnia di Geraldine, linguista e ricercatrice presso l’Università Cattolica del Cile con un progetto di ricerca sull’aymara, ed Emilio un giovane attivista cileno. Gli ingredienti sembrano esserci tutti per convertire un viaggio di piacere anche in una vera e propria ricerca sul campo.

“Sono in Cile”, mi dico mentalmente, “sono nel cuore di una rivolta sociale che non ha precedenti nella storia del Paese”. In più, cosa tutt’altro che banale, Geraldine abita vicino Plaza Italia, lungo una delle strade più devastate della città, ed io a Recoleta, sul fiume Mapocho, lungo una delle arterie più implicate nei giorni della protesta. Ma andiamo con ordine. Cosa è accaduto esattamente? Come scoppia una protesta di queste dimensioni e durata?

Dopo giorni di contestazioni definite “evasiones masivas”, in cui gli studenti oltrepassavano i tornelli delle stazioni della metropolitana per non pagare il biglietto contro la decisione del governo di innalzarne il prezzo (da 800 a 830 pesos), esplodono gli scontri fra manifestanti e carabineros. È venerdì 18 ottobre, la miccia si è accesa: agli scontri e ai saccheggi il presidente Piñera risponde imponendo lo stato di emergenza e il coprifuoco. Il giorno prima erano state prese d’assalto diverse stazioni della metropolitana di Santiago – la cui rete è la più estesa (140 km) e la più moderna del Sudamerica – le quali vengono tempestivamente chiuse. Quella stessa sera Sebastián Piñera decreta lo stato d’emergenza e affida ad un militare, il generale Javier Iturriaga, la responsabilità di garantire la sicurezza pubblica. Per la prima volta, a distanza di circa trent’anni dalla fine della dittatura del generale Augusto Pinochet (dal 1973 al 1990), i militari tornano a pattugliare le strade destando nei manifestanti una rabbia antica e irrisolta. Sono in molti a pensare che i giovani stiano combattendo non soltanto per se stessi ma anche per i loro padri e le loro madri, come se fossero una sorta di contenitore emotivo transgenerazionale.

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Santiago, marcipiedi sventrati e lancio di pietre (ph. Siddiolo)

«Siamo in guerra contro un nemico potente, implacabile, che non rispetta niente e nessuno ed è pronto a usare la violenza e la delinquenza senza alcun limite» afferma il presidente Piñera in un controverso discorso pubblico, duramente criticato, che ha avuto effetti paralizzanti e fomentanti insieme. La superficialità e l’incapacità della classe politica di rispondere con saggezza alla crisi sociale sono state cause di un incremento repentino ed incontrollato della violenza. La prima settimana si registra come la più sanguinosa: decine di morti e centinaia di feriti, molti dei quali colpiti da arma da fuoco. Più di 200 persone perdono un occhio. La crisi, a questo punto, è inarrestabile. Non serviranno le parole di scusa, il rimpasto del governo e il dietro front riguardo alla questione del rincaro del biglietto del tram durante le ore di punta. La miccia è stata accesa, la bomba è esplosa e la vetrina cilena del modello neoliberalista, impiantato ed esposto con orgoglio, è stata non soltanto infranta, ma letteralmente sfondata.

Alle gravissime violazioni dei diritti umani e ad una politica incapace di mettersi davvero in discussione, il popolo risponde con una marcia pacifica che passerà alla storia come La Marcha más grande de Cile. Si tratta della manifestazione più imponente della storia del Paese: più di un milione e duecentomila persone stimate solo a Santiago, in Plaza Italia, luogo simbolo della rivolta, oggi non a caso denominata dai manifestanti Plaza de la Dignidad [1]. Plaza Italia, formalmente conosciuta come Plaza Baquedano, a livello urbano è un importante punto di convergenza stradale, ferroviaria e sociale. Per la sua peculiare storia e per le sue caratteristiche topografiche rappresenta un naturale luogo di incontro di Santiago, dove grandi masse convergono in occasioni di eventi che celebrano a livello simbolico la nazione. Il simbolismo patriottico deriva storicamente dalla presenza del monumento dedicato al generale Baquedano, considerato dagli storici il principale architetto della vittoria cilena nella guerra del Pacifico.

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Plaza Italia (ph. Siddiolo)

Plaza Italia è stata storicamente il centro simbolico indiscusso dell’orgoglio nazionalista cileno. Tuttavia, a questo significato se ne sono sovrapposti degli altri, non meno importanti, certamente meno ostentati ma a tutti visibili. Essa è infatti un confine di caratteristiche sociali ed economiche, popolarmente riconosciuto come un luogo che divide la città di Santiago tra “ricchi e poveri”, fra l’area nord-orientale, conosciuta come il “quartiere superiore” o “settore orientale”, e la zona sud-occidentale. La piazza è stata già da tempo designata come sito di concentrazione o di partenza per lo sviluppo di manifestazioni di massa, come la mobilitazione studentesca del 2011 e le proteste contro la disuguaglianza sociale di questo caldo e tragico autunno. Tragico per il livello di violenza raggiunto sulle strade e nei luoghi delle istituzioni. Le immagini dei carabineros che sniffano cocaina sulla strada o le percosse immotivate a Valparaìso nei confronti di persone che camminano lungo i marciapiedi delle strade, solo per fare qualche esempio eclatante, hanno fatto il giro del mondo destando sgomento nell’opinione pubblica.

Oggi il Cile è una cassa di risonanza importante per il mondo intero, in un periodo storico in cui il neoliberismo è sotto accusa su più fronti e in diverse e lontane parti del mondo, in virtù della sua peculiare storia. Non tutti probabilmente sono a conoscenza del fatto che il Cile è stato un vero e proprio laboratorio sociale, un esperimento del modello di “neoliberismo autoritario” in cui un ruolo molto importante è stato ricoperto dai famigerati Chicago boys della scuola monetarista di Milton Friedman, Nobel per l’economia nel 1977. Cresciuti alla School of Economics di Chicago vennero impiantati all’Università Cattolica del Cile ancor prima dell’elezione di Allende. Dopo il golpe vennero chiamati da Pinochet come consulenti e ottennero incarichi strategici che permisero di plasmare la struttura economica del Paese secondo il modello neoliberista insegnato dal loro sedicente caposcuola.

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i Chiacago boys

Il Cile, da anni stremato dalla recessione economica e da lotte sociali, era un ottimo campo di sperimentazione per dimostrare al mondo come il neoliberismo fosse la ‘cura’ in grado di riportare il Paese verso una crescita economica, sociale e culturale. La dittatura avrebbe permesso ai sedicenti economisti di impiantare e sviluppare un programma ambizioso di drastiche privatizzazioni di aziende e beni dello Stato, di riforma del lavoro che rendeva perfettamente “flessibile” la forza-lavoro, di liberalizzazione dell’economia con una totale apertura all’estero, sia in termini di import/export che di libera circolazione dei capitali. I primi effetti di un siffatto e audace programma si manifestarono già nei primi anni ’80: una buona parte della popolazione cilena subì un processo di vistoso impoverimento sia sul piano economico che su quello culturale. Vennero gravemente investiti dalla crisi i lavoratori (con l’aumento della disoccupazione e con l’abbassamento dei salari), una parte rilevante del ceto medio, soprattutto intellettuale, e le minoranze etniche (i Mapuche) brutalmente espropriate della terra e ghettizzate.

Già allora, la mercatizzazione della società raggiunse livelli parossistici, tragicomici, demenziali i cui effetti sono ancora adesso visibili nella loro agghiacciante assurdità. Un esempio eclatante è dato dall’AFP, il contestatissimo sistema pensionistico cileno nato nel 1980 che è stato, dai tempi della dittatura, completamente privatizzato ed è oggi diretto da José Piñera, fratello dell’attuale presidente della nazione. L’AFP infatti valuta con grande ottimismo la longevità media della popolazione in ben 100 anni. Ciò significa che l’ammontare dei risparmi dei lavoratori cileni, accantonati nel corso della loro vita produttiva e pari al 12% del loro stipendio, senza nessun contributo aggiuntivo aziendale o statale, diviso per i mesi che separano dal compimento del centesimo anno, si riduce ad una cifra misera, mentre le società private che gestiscono questi fondi di finanziamento realizzano su di essi strepitosi profitti. Sono moltissime le persone che sono costrette a lavorare anche dopo il pensionamento ufficiale. Ne è un esempio eclatante, nel corso del mio soggiorno a Santiago, un taxista 73enne il quale non ha avuto alcuna remora nell’esprimere la propria insofferenza e la cifra esatta della propria pensione. Ricordo con estrema chiarezza il senso di disagio e di sconforto che mi attraversò. Quell’uomo, con tutti i suoi acciacchi, poteva tranquillamente essere mio padre.

Anche l’indebitamento per gli studi universitari risulta essere un esempio di cancro sociale del neoliberismo impiantato. Sono molti i genitori che richiedono un prestito bancario per potere permettere ai figli il lusso degli studi e sono tanti gli studenti-lavoratori cileni che si indebitano per quasi vent’anni al fine di poter raggiungere l’ambita meta della laurea. Ma i debiti per gli studi universitari non sono certo l’eccezione. In Cile ci si indebita anche per fare la spesa. Alla cassa del supermercato la domanda «¿con o sin cuotas?» (con o senza rate) non desta alcun sospetto ed è soltanto uno dei tanti inquietanti indizi che ricordano quanto l‘esperimento neoliberista cileno sia sfuggito al controllo e abbia oltrepassato il limite della decenza. Tuttavia questa struttura perdura e a contestare gli effetti della politica dei Chicago boys oggi sono soprattutto i giovani istruiti, nonché le potenti chicas chilenas.

La performance artistica «un violador en tu camino»[2] del movimento femminista cileno è un grido di rabbia e di accusa contro il patriarcato, contro lo “Stato oppressore” e ogni forma di violenza ingiustificata e impunita agita nei confronti delle donne. Il corpo delle donne viene, nella poetica dell’istallazione, esposto con alcuni simboli al ritmo dei passi cadenzati sulla terra. Gli occhi bendati (nella versione originale con una benda nera) e i gesti, rappresentativi delle parole pronunciate come un’unica voce, sono diventati rapidamente virali oltrepassando i confini nazionali. Ed è interessante scoprire, cercando notizie sull’origine del testo [3], che la canzone, scritta da Las Tesis – un gruppo di teatro femminista che ha sede a Valparaíso, città portuale sulla costa cilena – non nasce con finalità di protesta. È stato l’utilizzo che ne è stato fatto dalle donne cilene in piazza a decretarne la funzione simbolica a livello collettivo. Come il «significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» (Wittgenstein 1967: 33), così il senso di un discorso si evince dal particolare contesto in cui esso viene pronunciato. Il contesto, infatti, non è soltanto quell’elemento costitutivo del discorso che permette di accedere al significato e al senso del testo, ma è esso stesso testo di un discorso che piega e costringe, alle sue peculiari finalità, il significato e il senso del testo introdotto.

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Las Tesis

«Un violador en tu camino» ribalta la prospettiva su chi commette il crimine («lo stupratore eri tu, lo stupratore sei tu»), e pretende di farlo senza sorrisi, senza mitezza. Di fatto il canto altro non è che un ruggito, un grido altissimo e feroce che intende dare voce a tutte quelle donne che voce più non hanno, consapevoli, e non, del loro vile asservimento. È evidente che la cultura patriarcale ha dissuaso la donna dall’affermare la propria potenza femminile. La donna non è incoraggiata a considerare le sue asserzioni e la sua ira in modo positivo, ma le si è insegnato (nei secoli) che deve essere docile e mai minacciosa. Perché allora questo canto di protesta oltrepassa le frontiere del territorio nazionale per diventare patrimonio di tutte le donne coscienti della propria oppressione? Dal mio punto di vista il problema sta nel fatto che la “nostra” cultura patriarcale non ha prodotto immagini oggetto di venerazione di donne dagli occhi infuocati, armate fino ai denti e danzanti con collane costituite da teste mozzate (tutte rigorosamente maschili). La mia passione per lo yoga e per le filosofie dell’antica India mi ha portato a riconoscere quanto siano assenti certi corrispettivi simbolici delle figure femminili di Kali, Durga o delle temibili dakini [4] del buddismo tibetano.

Le donne cilene, come le coraggiose femministe degli anni ’60, incarnano una tipologia femminile indipendente e assertiva, temibile quando viene violato lo “spazio sacro” che le è proprio. E il primo spazio sacro della donna è certamente il suo corpo. Nessun sorriso dunque, no. “Un violador en tu camino” assume ancora più forza e si impregna di particolare significato se calato nel sistema giudiziario cileno. A fronte delle numerose denunce per abusi sessuali che annualmente si registrano, sono pochi i processi che si concludono con una sentenza giudiziaria, la quale, sovente, è ingiusta poiché tende a giustificare l’aggressione subita attraverso gli stili di vita e il comportamento sessuale della vittima. Inoltre coloro i quali dovrebbero vigilare sulla sicurezza delle donne – i pacos [5]– diventano, talora, gli stupratori stessi. “Dormi tranquilla bimba innocente e non preoccuparti del brigante che sul tuo sonno, dolce e sorridente, veglia il tuo amante carabiniere” [6] è una denuncia diretta e feroce nei confronti delle forze dell’ordine che, oggi come ieri, hanno abusato del loro potere in nome del potere stesso.

La stessa protesta ha registrato casi di abusi sessuali ai danni delle tante manifestanti cilene che hanno coraggiosamente denunciato, manifestando pubblicamente il loro disprezzo e il loro dolore. Le violazioni dei diritti umani sono state attestate da diverse agenzie internazionali indipendenti come Amnesty International e Human Rights Watch, ed ulteriori indagini sono in corso da parte della magistratura locale e da una commissione di monitoraggio delle Nazioni Unite. In particolare, la benda nera sugli occhi delle chicas chilene si carica di particolare significato poiché, oltre a sottolineare le parole del testo della canzone, in cui si afferma che il castigo delle donne è sia la violenza che non si vede (subdola, secolare, interiorizzata e quindi invisibile) sia quella che si vede (frutto di una sottomissione o di un risveglio della coscienza), richiama subito in mente le centinaia di persone che hanno perso un occhio a causa dei proiettili sparati a raffica dai carabineros ad altezza uomo nel corso della prima settimana della rivolta.

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Manifesti per le vie di Santiago (ph. Siddiolo)

Il numero dei feriti, dei torturati e dei morti viene esposto tramite manifesti sui muri della città di Santiago insieme all’odio e alla rabbia nei confronti del presidente Piñera e dei suoi paco. Frasi come «pacos asesinos», «odio los paco», «la paca non es compañera», «A.C.A.B.», «carabineros terroristas» sono ricorrenti camminando per le vie della città. I muri ne sono invasi come voci che si rincorrono, che sollecitano, che incitano. In effetti questa viscerale rabbia nei confronti della polizia cilena, e dei militari in generale, non è soltanto dovuta alle numerose violazioni dei diritti umani attestate nel corso della protesta, ma anche, e soprattutto, ad una dittatura (quella di Pinochet) che ha fatto dell’esercito e degli agenti delle forze pubbliche, una casta di privilegiati. Da allora, nonostante i governi di sinistra che si sono succeduti alla dittatura militare, nulla è cambiato. La polizia, oggi come allora, vive come un èlite privilegiata rispetto al resto della popolazione. Isabel, una giovane storica che lavora presso il Museo della Memoria e dei Diritti Umani, così spiega le profonde radici di questo odio diffuso nel sentire comune:

 «come ai tempi della dittatura, la polizia ancora oggi vive una realtà distinta dal resto della popolazione: hanno diritto ad abitazioni in quartieri separati, hanno un sistema educativo, sanitario e pensionistico esclusivo e agevolato. Addirittura sono giudicati da uno specifico tribunale che tende a preservarne l’immunità. Vivono in un mondo a parte fatto di numerosi privilegi».

Questa segregazione dorata della “casta dei paco” è funzionale al sistema poiché l’isolamento crea una distanza che genera una deumanizzazione [7] dell’Altro, percepito come minaccia e nemico. Gli agenti delle forze dell’ordine, per il solo fatto di indossare la divisa e i segni distintivi della prevaricazione fisica (manganello, armi da fuoco, gas lacrimogeni, ecc.), avendo molto da perdere in caso di drastici cambiamenti, percependosi come il ricettacolo di una rabbia generalizzata e sovversiva, sono indotti a vedere i propri concittadini come un vero e proprio esercito nemico e ad agire con poca empatia e senza alcuna remora. Se poi i leader politici incitano alla repressione coatta e promettono di proteggerne i misfatti, allora le derive dittatoriali sono evidenti seppur mistificate dal formale ordinamento di governo che in Cile è la repubblica presidenziale.

Per prevenire la violenza di Stato diventa allora imprescindibile una politica più inclusiva che implementi la conoscenza e il dialogo tra le forze militari e la popolazione civile. L’avvio di un processo di democratizzazione delle forze dell’ordine sarebbe il segno di un cambiamento di rotta importante verso una più ampia democratizzazione delle istituzioni pubbliche. I manifestanti chiedono una società più equa a partire da un cambiamento della Costituzione, richiesta che rappresenta il cuore delle rivendicazioni. Il Cile è infatti il Paese più ricco e più disuguale del Sudamerica. Storicamente l’origine delle grandi disuguaglianze – spiega un rapporto pubblicato nel 2017 dal PNUD [8], il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo del Cile – fu l’assegnazione delle terre realizzata durante l’epoca coloniale spagnola, che favorì i discendenti degli europei e segnò l’inizio della classe alta cilena. L’espropiazione delle terre proseguì anche dopo la cacciata degli spagnoli, soprattutto ai danni dei Mapuche, il popolo amerindo originario del Cile centrale e meridionale.

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Camilo Catrillano, il contadino mapuche simbolo delle vittime di Stato (ph. Siddiolo)

I Mapuche, che erano stati determinanti nel conseguimento dell’indipendenza cilena, furono traditi: le loro terre vennero vendute dalla classe dirigente cilena alle multinazionali in cambio di appoggi e favori. Furono derubati “legalmente” senza essere mai stati chiamati in causa, come se non fossero mai esistiti. Tuttavia, l’invisibilità istituzionale non fu proporzionale a quella socio-culturale. Daniela, antropologa cilena che ho avuto il piacere di incontrare a Santiago del Cile, ricercatrice esperta di cultura mapuche, ha spiegato che questo popolo amerindo è oggi un simbolo di resistenza ad ogni dominio ingiusto, avendo resistito per più di 250 anni contro la dominazione spagnola che non riuscì a sottometterli. A differenza di altre popolazioni indigene, sono sopravvissuti agli Inca, agli spagnoli e alla spietata classe dirigente cilena. Per la loro resilienza [9] i Mapuche sono diventati un punto di riferimento molto importante per i protestanti. Le bandiere mapuche sventolano accanto a quelle cilene e gli stessi Mapuche prendono parte in maniera attiva alle proteste divenendo così un simbolo di riappropriazione della memoria storica. Infatti, molte furono le violazioni, materiali e immateriali, che vennero perpetrate ai danni dei mapuche e degli altri popoli indigeni. Tanto più che giuridicamente non si riconoscono, ancora oggi, le culture indigene come patrimonio essenziale del Paese. Eppure, racconta Daniela, non è possibile tracciare un confine chiaro tra chi è e chi non è mapuche, la popolazione cilena è meticcia e certamente quasi ogni abitante ha almeno un avo indios. Nascondere, occultare e demistificare, si sa, sono da sempre le potenti armi del potere dominante. Oggi come ieri, il popolo cileno sente di essere vittima dello stesso tradimento, delle stesse menzogne, delle stesse espropiazioni. Non è un caso che il simbolo delle vittime dello Stato sia Camilo Catrillanca, un contadino mapuche ucciso immotivatamente dai carabineros mentre lavorava la terra, esattamente un anno prima della protesta.  Le immagini di questo giovane uomo oggi invadono le vie della città e la sua storia è stata la prima che mi è stata raccontata da Emilio, il quale ha sentito l’esigenza, fin dal primo giorno a Santiago, di introdurmi al mondo della contestazione.

Ed io da là sono partita e là sono ritornata alla fine di questo viaggio, consapevole delle due anime della protesta: quella catartica e liberatoria, la festa [10], e quella più violenta e distruttiva, la lotta. I simboli della vita e della morte si inseguono, si avvicinano e si sovrappongono. A volte sono visibili a poche centinaia di metri: da una parte della strada si canta e si balla al ritmo della musica e dall’altra si combatte con le pietre e con i fucili. Sullo sfondo l’odore tossico e insopportabile dei gas lacrimogeni. Rimango affascinata e stordita, e cammino, cammino inseguita dagli innumerevoli manifesti affissi sulle mura degli edifici. “No era depresiòn, era capitalismo”, “el neoliberalismo nasce y muore en Chile”… Tutte queste frasi, e tante altre, dicono di una presa di coscienza collettiva che necessita di ascolto, di dialogo e di una politica più inclusiva che promuova e deliberi leggi (a partire dalla Costituzione) volte a determinare una più equa distribuzione delle ricchezze.

lespulsioneSe la legge è il frutto di una pratica discrezionale e politica volta al raggiungimento di scopi utili a una piccola élite, essa può ben portare a quello che è stato definito “razzismo istituzionale”, ovvero quel complesso di leggi, costumi e pratiche vigenti che sistematicamente riflettono e producono le disuguaglianze nella società (rapporto MacPherson, 1999). Ciò significa che il criterio di identificazione delle istituzioni discriminatorie riguarda gli effetti prodotti, non l’intenzione dell’ente o dei suoi funzionari (Bartoli, 2012). Tuttavia, riconoscere e comprendere le cause della sua formazione è un dovere per coloro che intendono non solo parlarne ma anche contribuire a ristrutturarle e a risanarle. Il problema, per Byung-Chul Han, va ricercato nella politica neoliberista che ha espulso la categoria dell’Altro (dell’Altro come mistero, come seduzione, come eros, come desiderio, come dolore, come inferno), costruendo una società dell’Uguale profondamente iniqua e ingiusta sul piano globale, mettendo inevitabilmente in moto un processo altamente autodistruttivo e disgregante del corpo sociale. Sfruttamento ed esclusione sono elementi costitutivi del neoliberismo ed erano già stati compresi persino dal suo inventore Alexander Rustow il quale, non a caso, aveva già affermato l’importanza di integrare alla legge neoliberista del mercato una “politica vitale”, capace di creare solidarietà e senso civico. «In mancanza della correzione del neoliberismo prodotta dalla “politica vitale”, sorge una massa resa insicura e guidata dall’angoscia, che facilmente si fa monopolizzare dalle forze nazionaliste e razziste» [11].

A livello sistemico il neoliberismo, nelle sue forme più estreme e meno controllate, è alla base delle enormi disuguaglianze che sono in crescita esponenziale non soltanto in Cile ma anche in tutto il prospero Occidente. È aumentato il benessere generale e si è ridotta la povertà, ma il divario fra le disuguaglianze è aumentato. Questa ineguaglianza è all’origine delle diaspore e dei milioni di morti nel mondo, nonché della rabbia e della sete di giustizia che ha portato all’esplosione delle proteste in Cile. Bisogna ritornare allora alla vulnerabilità, distruggere definitivamente l’immagine di un io-soggetto sovrano, e ri-concepire una nuova visione fondata sull’interdipendenza (dei generi, delle istituzioni, delle funzioni) all’insegna del rispetto per la vita.

Come afferma Judith Butler, in un discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Adorno, consegnatole a Francoforte nel settembre del 2012:

«L’argomento che sostengo con maggior forza è semplicemente il seguente: non esiste alcuna creatura umana che può sopravvivere o perdurare senza dipendere da un ambiente che la sostiene, da forme sociali di relazionalità e da forme economiche che presuppongono e strutturano l’interdipendenza» (Butler, 2013: 45).

La riflessione della filosofa statunitense parte da alcuni interrogativi. Che cos’è una “vita buona”? E una “vita cattiva”? Come dare forma a una vita buona quando si vive  nella vulnerabilità di una vita cattiva? In che modo la rivendicazione del diritto a una vita buona può mettere in discussione le forme di potere contemporaneo che organizzano le vite umane? Sulla scia di questi interrogativi Judith Butler costruisce un’articolata riflessione che inscrive la questione morale (posta da Adorno) entro una dimensione biopolitica (seguendo Foucault) [12] e ne ancora saldamente l’intreccio al mondo contemporaneo e alle sue possibilità di cambiamento.

«Detto in altri termini, siamo, in quanto corpi, vulnerabili di fronte agli altri e alle istituzioni, e questa vulnerabilità costituisce un aspetto della modalità sociale attraverso cui i corpi sopravvivono. La questione della mia o vostra vulnerabilità ci rende parte di un problema politico più ampio al cui centro si trovano l’uguaglianza e la disuguaglianza, poiché la vulnerabilità può essere proiettatta e negata (categorie psicologiche), ma anche sfruttata e manipolata (categorie sociali ed economiche) nel processo di produzione e naturalizzazione delle forme della disuguaglianza sociale. Questo è ciò che intendiamo per distribuzione ineguale della vulnerabilità» (Butler, 2013: 46-47).

Judith Butler denuncia il modo in cui le forme del potere contemporaneo organizzano le vite umane, assegnando loro un valore variabile e istituzionalizzando le disuguaglianze. Il suo messaggio, a cui mi affido per concludere questo articolo, è efficace e può essere così riassunto: occorre ripartire da una politica del corpo che faccia dell’interdipendenza – ovvero del riconoscimento dell’intreccio delle relazioni sociali ed economiche entro cui ogni corpo è avvinto – il presupposto stesso di ogni forma di resistenza.

Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Note
[1] La proposta di modifica del nome viene avviata dai manifestanti a seguito di uno striscione sposto l’8 novembre attraverso una campagna di raccolta firme che è stata elaborata nel comune di Providencia. Già l’11 novembre gli utenti di Google avevano modificato il nome del luogo su Google Maps, tuttavia, il nome ufficiale venne ripristinato il giorno successivo.
[2] Il patriarcato è un giudice/ che ci giudica per essere nate/e il nostro castigo/ è la violenza che non vedi./ Il patriarcato è un giudice/ che ci giudica per essere nate/ e il nostro castigo/ è la violenza che ora vedi./ È femminicidio/ l’impunità per il mio assassino/ è la scomparsa/ è lo stupro./ E la colpa non è mia, né di dov’ero né per come ero vestita./E la colpa non è mia, né di dov’ero né per come ero vestita./E la colpa non è mia, né di dov’ero né per come ero vestita./ E la colpa non è mia, né di dov’ero né per come ero vestita./ Lo stupratore eri tu./Lo stupratore sei tu. / Sono i caramba,/ i giudici,/  lo Stato,/  il presidente./Lo Stato oppressore è un maschio stupratore./Lo Stato oppressore è un maschio stupratore./Lo stupratore eri tu./ Lo stupratore sei tu./ Dormi tranquilla, bimba innocente/ e non preoccuparti del brigante/ veglia il tuo amante carabiniere./ Lo stupratore sei tu./ Lo stupratore sei tu./ Lo stupratore sei tu./ Lo stupratore sei tu.
[3] Il canto si ispira ad un testo dell’antropologa femminista argentino-brasiliana Rita Segado.
[4] Le dakini, nel buddhismo tibetano, sono manifestazioni di aspetti puri della mente in forma femminile che evocano il movimento dell’energia nello spazio.
[5] Gergo con il quale vengono generalmente chiamate le forze dell’ordine cilene.
[6] Citazione dell’inno ufficiale dei carabineros intitolato “Orden y patria”.
[7] La deumanizzazione è il processo cognitivo che conduce a percepire come non-persone i membri del gruppo considerato il “nemico” o “l’altro”. Essa è favorita dall’etichettamento, cioè da rappresentazioni stereotipate del gruppo stigmatizzato, diffuse da autorità, media e comune sentire (Bartoli, 2012: 112-113 ed. orig.).
[8] https://www.cl.undp.org/content/chile/es/home/library/poverty/desiguales–origenes–cambios-y-desafios-de-la-brecha-social-en-.html
[9] La resilienza è qui intesa come la capacità di un soggetto (o un oggetto) di resistere ad un evento traumatico senza danni o perdite, oppure di superare tale evento, riformandosi o rigenerandosi.
[10] Tra le diverse forme di protesta vi sono le “caceroladas” (letteralmente le pentolate): bimbi, adulti e anziani si riuniscono battendo a ritmo delle pentole nell’intento di chiamare a raccolta e svegliare le coscienze dormienti. Si tratta di assemblee di quartiere festose e pacifiche, in cui si fa musica, si discute e si condivide.
[11] Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, nottetempo, Milano, 201: 22
[12] Il concetto di biopolitica venne teorizzatoo da Michel Foucault che lo definì un insieme di operazioni, tecniche, logiche di governo e regolazione politica delle vite.
Riferimenti bibliografici
Bartoli, C. 2012, Razzisti per Legge. L’Italia che discrimina, Laterza, Roma-Bari
Byung-Chul Han, 2017, L’espulsione dell’Altro, Nottetempo, Milano (ed. or. 2016)
Butler, J. 2013, A chi spetta una vita buona?, Nottetempo, Milano
Giubilaro, C. 2016, Corpi, spazi, movimenti. Per una geografia critica della dislocazione, Edizioni Unicopoli, Milano
Jullien, F. 2016, Essere o vivere, Feltrinelli, Milano (ed. or. 2015)
Montes, S. 2015, Per un’etnografia dialogica e improvvisata, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 13
Montes, S. 2017, Il senso del vivere, ovvero la vita come oggetto di studio antropologico, in “Dialoghi Mediterranei”, n.27
Montes, S. 2019, L’antropologo come pellegrino e la costruzione della biografia simbolica, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 40
Montes, S. 2019, Sull’indugiare, il viaggiare e il limite del senso, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 38
Rosaldo, R. 2002, Cultura e verità. Ricostruire l’analisi sociale, Meltemi, Roma (ed. or. 1989).
Van Gennep, A. 2009, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino (ed. or. 1901).
Sitografia
LaRepubblica:https://www.repubblica.it/esteri/2019/10/26/news/proteste_cile_manifestazione_santiago-239495704/
 Il Foglio: https://www.ilfoglio.it/esteri/2019/11/08/gallery/ridateci-30-anni-non-30-pesos-cosa-chiede-il-cile-285668/?underPaywall=true
 Il Manifesto: https://ilmanifesto.it/la-dittatura-dei-chicago-boys/
Il Post: https://www.ilpost.it/2019/10/22/proteste-cile-spiegate/
ISPI:https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/cile-cosi-le-disuguaglianze-infrangono-la-vetrina-liberale-24218?gclid=CjwKCAiAob3vBRAUEiwAIbs5TjSkzOdwTVXNW_
VKvJLGDGGeB4lR2dbDZPig1Kyam72yuFahAjyhtBoCDEkQAvD_BwE
Rai news: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Cile-sale-a-11-il-numero-dei-morti-Dati-alle-fiamme-gli-uffici-dell-anagrafe-vicino-Santiago-d6a426b3-4c6f-4dc4-9150-01769b295483.html

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Cristina Siddiolo, laureata presso l’Università degli Studi di Palermo, è antropologa, formatrice, educatrice e insegnante di yoga. Da dieci anni lavora con minori stranieri non accompagnati presso il gruppo appartamento “La Vela Grande” fondato dall’associazione Apriti Cuore onlus, diretto dal 2018 dall’Istituto Don Calabria.

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