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Humanitas e indiscrezione

Terenzio

Terenzio

di Maurizio Bettini

La storia della humanitas romana si lega in particolare a un verso del commediografo Terenzio più volte ricordato dagli autori latini che – come Cicerone e Seneca – hanno insistito sul valore di questa virtù [1]:

homo sum, humani nihil a me alienum puto.

«Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo»

Si tratta di un verso celeberrimo, che ha assunto nel tempo il valore di una vera e propria gnóme, una sentenza piena di saggezza. Come abbiamo visto, per Seneca il verso di Terenzio costituiva addirittura la massima che deve guidare chiunque intenda comportarsi secondo le leggi della “umanità”: «E quando mai riuscirò a esporre tutto ciò che si deve fare per gli altri e ciò che si deve evitare?» si chiedeva il filosofo. Dopo di che, quasi ad offrire la sintesi di tutto il ragionamento che aveva svolto fino a quel punto, concludeva:

«sempre sia nel nostro cuore e sulle nostre labbra quel verso famoso: ‘Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo’. Questo dobbiamo pensare: siamo nati nel vincolo di obblighi reciproci».

Ma in che cosa consiste l’occasione in cui queste celebri parole vengono recitate in Terenzio? Vale la pena di porsi questa domanda perché a volte le parole dei poeti, quando assumono il valore di sentenze o di proverbi, si distaccano a tal punto dal contesto che le ha generate da perdere (paradossalmente) di significato, invece di guadagnarne.

Nello Hautontimoróumenos (il Punitore di se stesso) il vecchio Menedemo lavora accanitamente il proprio campo, dalla mattina presto alla sera tardi [2]. Non riesce a perdonarsi di aver impedito le nozze di suo figlio, Clinia, con la ragazza di cui è innamorato. In conseguenza del rifiuto paterno il figlio se ne è andato in Asia a combattere come mercenario, ed è di questo che Menedemo intende punirsi sottoponendosi a una fatica incessante. Il suo vicino Cremete, un altro vecchio, vorrebbe conoscere il motivo di questo comportamento, soprattutto vorrebbe aiutare Menedemo. Abitiamo vicino, gli dice, e questo è già qualcosa che rassomiglia molto all’amicizia e alla confidenza. Ma Menedemo lo liquida seccamente [3]: «Cremete, hai così tanto tempo libero da poterti occupare dei fatti altrui, che non ti riguardano per nulla?». Menedemo accusa dunque l’altro di essere indiscreto, e sostanzialmente lo invita a occuparsi degli affari suoi.

1A questo punto Cremete replica al vecchio scontroso con il verso che già conosciamo: homo sum, humani nil a me alienum puto «Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo». Come si vede, piuttosto che un elogio dell’essere uomo, o della umanità, come di solito viene interpretato, questo verso costituisce un elogio della indiscrezione fra uomini. Cremete rivendica per sé la possibilità di “eccedere” nella comunicazione interumana sulla base del principio che gli uomini possono, anzi debbono, occuparsi di tutto ciò che è umano. Ciò che definiamo “indiscrezione” infatti corrisponde per l’appunto a un “eccesso” di comunicazione con gli altri: tanto quanto il “malinteso” consiste inversamente in un difetto della medesima comunicazione [4]. Questo verso paradigmatico, che tante volte, nel corso della nostra storia culturale, ha fondato la caratterizzazione stessa di ciò che è “umano”, nasce dunque come invito non solo alla comunicazione fra gli uomini, ma piuttosto al suo eccesso, alla indiscrezione: al superamento delle barriere in nome della comune “umanità”.

Questo dialogo fra Cremete e Menedemo ci mette di fronte a un tema che è fondamentale, ancora oggi, nella definizione dei rapporti fra gli uomini. Qual è la misura, il metodo secondo cui occorre procedere quando si viene posti di fronte a qualcuno la cui ‘stranezza’, per motivi diversi, ci colpisce o ci inquieta? Dobbiamo interloquire, intervenire, stabilendo un contatto diretto, oppure è meglio lasciare l’altro rinchiuso nella propria alterità? Come si è visto, per ‘impicciarsi’ degli affari di Cremete, il vecchio Menedemo fa prima appello a una comune appartenenza, diciamo, locale, ossia il rapporto di vicinato. Dunque possiamo interessarci agli altri, ai loro costumi, alle loro abitudini, solo se ci sono “vicini”, se sono nostri, come direbbe Cicerone? Terenzio ci dice di no, perché di fronte all’ostinato rifiuto dell’interlocutore, Cremete invoca la caratteristica genericamente umana che li lega, rivendicando il proprio diritto ad occuparsi della sofferenza altrui (homo sum). Sei uomo, io sono uomo, e per questo voglio sapere.

2Ancora una volta torna in mente l’esortazione che Ilioneo rivolge a Didone quando ancora teme che lui e i suoi compagni vengano respinti dalle coste di Cartagine: propius res aspice nostras «guardaci più da vicino, considera chi siamo». Le parole del naufrago esprimono la preghiera a osservare “più da vicino” l’altro, a conoscerlo meglio per superare la barriera delle apparenze o dei pregiudizi, la barriera dell’ignoranza. Una esortazione a essere “indiscreti”, insomma, verso chi non si conosce. Ecco perché il celebre verso di Terenzio potrebbe tornare ad essere cruciale oggi, che il nostro Paese e il mondo occidentale in genere, sono sempre più popolati (“invasi”, secondo alcuni) da stranieri, da sconosciuti o da gente il cui aspetto o il cui comportamento ci colpisce o ci inquieta. Il primo principio della “umanità” torna ad essere la volontà di conoscere, prima di tutto, coloro che giungono sulle nostre coste o che valicano i nostri confini.

Penso che il parallelo più interessante che possiamo invocare per questa scena di Terenzio (l’homo sum con relativo elogio dell’indiscrezione) non ci venga dalla letteratura greca o latina, come potremmo aspettarci, ma da un pullman che, in Irpinia, viaggia tra Grottaminarda e Villamaina. Capisco che, dal punto di vista filologico, proporre un simile parallelo potrà sembrare decisamente irrituale; ma come dicevo all’inizio, i tempi sono molto cambiati da quando le letterature classiche potevano, o dovevano, essere considerate solo un elegante patrimonio di figure poetiche o letterarie. Dunque siamo su un pullman che attraversa l’Irpinia.

3

Sul pullman tra Gottaminarda e Villamaina

A raccontare la scena è un signore che si chiama Roberto Buglione De Filippis, e che ha anzi provveduto a farla conoscere mettendone in rete il resoconto [5]. «Mi siedo e dopo di me entra Omar – spiega Buglione – un giovane rifugiato che vive allo Sprar di Lacedonia. Sul pullman c’è un gruppo di signore tra i 75 e gli 80 anni. Guardano Omar e una volta seduto, gli cominciano a fare domande». «Giovanotto come ti chiami?» Omar si presenta, spiega che sta andando a trovare un gruppo di amici a Frigento. Spiega anche che viene dal Gambia, che scappa da una situazione difficile e che sta da anni in Italia. Il dialogo cresce, le signore dicono a Omar che anche i loro figli e mariti sono dovuti emigrare, chi in Inghilterra chi in Germania, «qua è sempre esistito Sud e Nord, che te pienz’? (…) Si scappa anche da qui –continuano – ma sembra che questo fatto tutti se lo siano scordato …». Fra una chiacchiera e l’altra il pullman arriva a Sturno, le signore scendono e salutano affettuosamente Omar.

Questa storia, accompagnata da una foto presa all’interno del pullman, ha fatto il giro dei social, lasciando incredulo colui che l’aveva messa in rete. Non si aspettava di suscitare tanto interesse. Che cosa hanno mai fatto di così singolare queste signore irpine? Incontrando lo straniero, l’altro, il diverso, non si sono voltate dall’altra parte, non sono scese dal pullman o (peggio ancora) non hanno chiesto all’autista di far scendere l’intruso. Al contrario hanno “ficcanasato”, come dice il commento della giornalista, chiedendogli chi era, da dove veniva, raccontando a loro volta di loro stesse e dei loro familiari. Ficcanaso. Homo sum.

Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio 2019
Note
[1] Terenzio, Hautontimoroumenos, 77; Cicerone, Dei doveri, 1: 30; Seneca, Lettere a Lucilio, 95: 50-53;
[2] vv. 53 sgg.
[3] vv. 75 sgg.
[4] Lévi-Strauss,  La gesta di Asdiwal, in Antropologia strutturale due, trad. it. Milano Il Saggiatore 1978: 187 sgg. (partic. 231-232); M. Bettini – L. Ricottilli, Homo sum. Humani nil a me alienum puto. Elogio dell’indiscrezione, Atti del I Convegno dell’Associazione di studi interdisciplinari “Antropologia e mondo antico”, Siena 7-9 Dicembre 1987, in  “Lares” 55, 1989: 361 sgg.
[5] V. Ruggiu, “Giovanotto come ti chiami?”. Così le nonnine dell’Irpinia danno lezione di solidarietà, in “La Repubblica”, 6 luglio 2018
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Maurizio Bettini, classicista e scrittore, insegna Filologia classica all’Università di Siena, dove dirige il Centro Antropologia e Mondo Antico. Autore di numerose pubblicazioni, tra gli ultimi suoi saggi si segnalano: C’era una volta il mito (2007); Voci. Antropologia sonora del mondo antico (2008); Alle porte dei sogni (2009); Affari di famiglia. La parentela nella letteratura e nella cultura antica (2009); Per vedere se (2011); Contro le radici (2011); Vertere (2012); Elogio del politeismo (2014); Dèi e uomini nella città (2015); Il grande racconto dei miti classici (2015); Radici. Tradizioni, identità, memoria  (2016); Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi (2018); Il presepio (2018).
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