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Guerra e pace in Medio Oriente

palestina

di Dino Levi

Molto si sperava dalla visita di Obama in Medio-Oriente. Il secondo mandato presidenziale sembrava infatti in grado di dare al capo del più potente alleato di Israele una sufficiente autonomia dal voto degli ebrei americani reazionari dell’AIPAD ed una capacità, finalmente, di far pesare tutto il condizionamento che la fornitura di armamenti e aiuti finanziari può, volendo, significare.

Certo, Obama non ha mancato di insistere su”due stati per due popoli”, ma non abbiamo sentito né ultimatum ad ulteriori insediamenti nei territori occupati, né calendari vincolanti per colloqui di pace.

Del resto, da sempre la dirigenza israeliana ci ha abituati alla politica del fatto compiuto ed è vano ricercare nei suoi protagonisti il rispetto delle regole del diritto internazionale.

E’ altrettanto vero che forme violente di resistenza da parte di settori della dirigenza palestinese sembrano giustificare una politica israeliana basata sulla paura del nemico e su un approccio solo militare verso i vicini.

Mentre in Europa o in America è ormai difficile trovare qualcuno che neghi il diritto ad esistere di Israele, questa presa d’atto non è moneta corrente in Medio-Oriente.

Anche le primavere arabe sembrano purtroppo sfiorire sotto una cappa islamista e questo non giova alla sicurezza di Israele.

In 65 anni, poi, i paesi arabi non sono stati in grado o non hanno voluto reinserire i profughi palestinesi o, forse, anche essi non si sono voluti reinserire.

Credo che le foibe non siano state né meglio né peggio delle Deir-Yassin, ma migliaia di profughi istriani, nell’Italia povera e prevalentemente agricola del dopoguerra, sono stati accolti ed integrati: forse la solidarietà cristiana di un paese povero è stata più efficace della “umma” islamica in paesi ricchi?

Fin qui quello che vediamo e sappiamo.

Ma è tutto?

Cose molto strane succedono da quelle parti.

Contatti informali non solo diplomatici sono sempre esistiti tra le parti in lotta anche nei momenti di maggiore tensione e probabilmente la dirigenza israeliana è consapevole di almeno due dati :

-         negare uno stato ai palestinesi significa negare l’esistenza di uno “stato ebraico” già nel medio periodo, anche per semplici dinamiche di sviluppo demografico.

-         nel terzo millennio l’espansione territoriale è il contrario di un fattore di sicurezza.

Credo allora che sia importante che non smettiamo di contrastare e contestare l’occupazione dei territori post-67 e la continua e pervicace politica israeliana del fatto compiuto, invocando invece il ritorno ad una seria trattativa ufficiale sulla base di “territori in cambio di pace”: credo che in questo, come cittadini europei, tutti, e quindi anche gli ebrei europei (invito il lettore a navigare nei siti di ECO e di JCall:http://rete-eco.it/; www.jcall.eu/), abbiamo una responsabilità e un ruolo.

La politica estera europea, al momento, non esiste, forse non vuole esistere visto che è affidata al più insignificante commissario e al meno europeista dei paesi dell’unione.

La battaglia da fare è quindi anche parte di un più ampio impegno verso un’Europa più credibile nel teatro geo-politico mondiale, che abbia non solo i piedi, ma anche la testa rivolta verso il Mediterraneo.

Dialoghi Mediterranei, n.1, aprile 2013
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