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Gli italiani in Australia: i pionieri, i flussi, il multiculturalismo

Dal porto di Reggio Calabria le partenze per l'Australia con il piroscafo Australia

Dal porto di Reggio Calabria le partenze per l’Australia con il piroscafo Australia

di Franco Pittau e Silvano Ridolfi [*]

La scoperta e la colonizzazione

L’Oceania, il nuovissimo e misterioso continente scoperto dagli europei prima dell’Antartide, include diverse isole: la Melanesia, la Micronesia e infine, più rilevanti con riferimento agli emigrati italiani (eppure in misura diversa), l’Australia e Nuova Zelanda. Bisogna premettere che secondo la cultura illuministica, diffusasi dalla Francia in tutta Europa dalla metà del secolo XVIII, l’uomo evoluto (l’europeo, naturalmente) era tenuto a civilizzare le popolazioni ritenute incivili. Questa ideologia incrementò le esplorazioni geografiche e aprì la via alle occupazioni coloniali.

L’Australia e la Nuova Zelanda, che inizialmente non attirarono l’interesse degli europei, furono da essi scoperte solo alla fine del XVIII secolo. Gli olandesi non mostrarono interesse a questi territori, mentre gli inglesi decisero di stabilirvi una colonia penale [1].

Joseph Cook

James Cook, ritratto di Nathaniel Dance-Holland, 1775

Il capitano James Cook (1728-1779), era un esperto navigatore, un bravo cartografo e coraggioso esploratore. Egli operava per conto della corona inglese, toccò l’Australia (il primo tra gli europei) nel corso di due dei suoi tre viaggi nell’Oceano Pacifico, effettuati in due periodi (1768-1771 e 1776-1779). Nel primo viaggio, dopo aver circumnavigato la Nuova Zelanda, nel 1770 arrivò nella costa orientale dell’Australia e dalla nave osservò gli indigeni, che gli sembrarono molto scuri. Nel 1779 il capitano andò incontro alla morte a seguito di una lite scoppiata con gli indigeni alle Hawaii. Cook si rese conto che non si trattava del continente australe cercato dagli spagnoli e che l’Australia e la Nuova Zelanda (isole che circumnavigarono per intero) non erano unite. Nell’immensa isola australiana il capitano trovò una popolazione aborigena composta da circa 300 mila persone, priva di una lingua comune e di un alfabeto, sostanzialmente nomade e perciò non dedita allo sfruttamento del suolo, considerato sacro e inviolabile [2].

Nel 1778 fu sbarcato in Australia il primo contingente di 750 detenuti A trasportarlo fu il capitano Arthur Phillip Cove (1738-1814). Questa decisione fu presa per rimediare al sovraffollamento delle prigioni inglesi. Al capitano fu affidato il comando di undici navi per trasportare dei detenuti, con l’incarico di fondare una colonia penale e dare inizio a un insediamento. Sbarcato a Botany Bay (località così denominata per la varietà delle specie) nel Nuovo Galles del Sud, trovando il luogo inospitale, Cove trasferì l’insediamento a Port Jackson, che attualmente si trova nelle vicinanze di Sydney. In seguito arrivarono anche i civili, mentre capitan Cove rimpatriò nel 1992 per motivi di salute: a lui è dovuta la denominazione dell’isola come Terra Australis incognita, poi denominata Australia [3].

Luigi Maria D'Albertis, ritratto di Cambon, 1929

Luigi Maria D’Albertis, ritratto di Cambon, 1929

A differenza di quanto avvenuto in altri continenti, in Oceania non ebbero alcun protagonismo i navigatori italiani e si segnalò solo un esploratore scientifico: Luigi Maria d’Albertis (Voltri 1841-Sassari 1901), sulla cui vita avventurosa torna conto riportare alcuni cenni. Di famiglia benestante, garibaldino nella “Spedizione dei Mille”, diventò  (da autodidatta) un esperto di scienze naturali, partì per la missione con il celebre botanico Odoardo Beccari (1843-1920) e, tra il 1871 e il 1873, compì in questa terra una serie di spedizioni, che dovette interrompere per ragioni di salute. La Nuova Zelanda, al tempo un’area inesplorata, non sollecita gli interessi economici per il clima malsano e l’ostilità delle tribù guerriere indigene ai nuovi arrivati. La sua preparazione da autodidatta, completata con l’esperienza sul campo, gli consentì di essere riconosciuto come esperto nell’ambito della zoologia, della botanica e della antropologia. Esaminò più di 500 specie di uccelli, di cui una cinquantina prima sconosciute. Originale fu il suo apporto anche per quanto riguarda gli insetti, i serpenti e le piante. Nel 1876 si recò per un’altra spedizione sul fiume Fly con un compagno, con il quale finì per litigare.

La sua ultima esplorazione avvenne nel 1877, ancora una volta lungo il fiume Fly, con un equipaggio formato da aborigeni e da ex galeotti cinesi: in quella spedizione, per prevenire le possibili aggressioni, il fantasioso Luigi Maria si accreditò, con alcuni artifici, come un potente stregone. L’esplorazione ebbe un buon esito, ma non per la salute fisica del suo organizzatore. Nel 1880 d’Albertis pubblicò, in lingua inglese (e poi anche in italiano e in francese), il diario dei suoi viaggi con il titolo Alla Nuova Guinea, quello che ho visto e quello che ho fatto. Questo eccentrico personaggio, indubbiamente capace ma anche stravagante, si ritirò in Sardegna, dove finì la sua vita con sei cani e una volpe.

giovani-italiani-in-australia-un-esercito-in-continua-crescita_opengraphLa Nuova Zelanda è meno vasta e meno popolata (5 milioni di abitanti) dell’Australia (più popolata, avendo 26 milioni di abitanti, ma con una densità inferiore). Entrambi i Paesi, dall’elevato reddito pro capite, hanno avuto sempre rapporti stretti a livello economico, culturale, politico e militare, perché la loro storia è imperniata sul comune riferimento nella Gran Bretagna e sulla comune appartenenza al Commonwealth. È opportuno ricordare che la Costituzione australiana del 1901 includeva disposizioni per consentire alla Nuova Zelanda di unirsi all’Australia come settimo Stato, anche dopo che il governo della Nuova Zelanda aveva già deciso di non aderirvi. Non mancano, comunque, le “divergenze fraterne” tra i due Paesi, non solo in ambito commerciale ma anche in quello migratorio, essendo la Nuova Zelanda contrariata per le espulsioni dall’Australia di un certo numero di suoi cittadini di etnia Maori.

Questo studio, dedicato in prevalenza all’Australia, non mancherà di dedicare un paragrafo anche all’emigrazione italiana nella Nuova Zelanda, numericamente molto meno consistente ma non priva d’interesse.

Emigrati italiani in Australia (dal Portale Australia)

Emigrati italiani in Australia (dal Portale Australia)

Australia e Nuova Zelanda, mete dell’emigrazione italiana 

Dal 1814 in poi l’Australia, oltre ai detenuti, che continuarono a esservi deportati, accolse dei coloni, in arrivo per loro libera decisione. Un flusso simile riguardò anche la Nuova Zelanda. Per lo più ad arrivare erano degli agricoltori interessati a organizzare grandi allevamenti di bestiame e a coltivare una parte dei campi, respingendo verso l’interno le tribù indigene.

Sugli emigrati italiani l’Australia esercitò un’attrazione significativa sola dopo la Seconda guerra mondiale. I numerosi italiani arrivati in questo lontano Paese furono impegnati in un difficile percorso di integrazione, reso più agevole, dagli anni ‘70 dal varo a livello nazionale di una politica multiculturale. La Nuova Zelanda, invece, nel dopoguerra accolse i flussi limitati di italiani provenienti da alcuni contesti territoriali, alimentati dalle catene migratorie familiari e amicali. Gli italo-australiani e gli italo-neozelandesi, le cui collettività sono scarsamente alimentate dai nuovi arrivi dalla penisola, stanno conoscendo un processo di completa di identificazione con il Paese di accoglienza, apertosi ormai a un orientamento multiculturale. Gli attuali flussi verso l’Australia, coinvolgono in prevalenza giovani italiani interessati a un periodo di vacanze lavoro, una formula di soggiorno interessante per diversi aspetti (esperienza lavorativa e crescita linguistica e culturale), ma preoccupante per lo sfruttamento che può essere praticato.

Le collettività italiane nei due Paesi sono ormai segnate da una storia relativamente lunga e da un buon livello d’integrazione. Le loro vicende meritano di essere raccontate, perché aiutano a capire le implicazioni di un trasferimento in un continente così lontano e così diverso, e anche a individuare quale legame possa sussistere con l’Italia a distanza di tempo, pur mancando per i più il vincolo della cittadinanza. Si sbaglia chi considera l’emigrazione un residuo del passato, non solo perché numerosi giovani (per un soggiorno temporaneo) e un certo numero di adulti (per un inserimento stabile) continua a emigrare in Australia, ma anche perché è insediata sul posto una consistente collettività di italiani e di loro discendenti, e una parte di essa ha la cittadinanza italiana. Questi sono aspetti che meritano un approfondimento, specialmente in un mondo globalizzato che ha reso più agevole il superamento della distanza geografica.

Questo continente, che si impone all’attenzione per le sue immense ricchezze e il suo fascino misterioso, ha raggiunto un elevato livello di sviluppo anche grazie all’apporto degli immigrati, tra i quali nel dopoguerra gli italiani hanno avuto un ruolo preminente. Quest’area dell’oceano Pacifico, solo geograficamente a noi lontana, sta diventando sempre più centrale nell’economia e nella politica mondiale. Non dovrebbe sfuggire l’importanza per l’Italia di avere sul posto una consistente collettività di origine italiana. La storia della presenza italiana sul posto s’intreccia con l’individuazione delle prospettive da perseguire attualmente e nel futuro.

In questo continente la storia degli immigrati italiani si differenzia da quella da essi conosciuta in America Latina, dove il contesto linguistico e culturale era più affine; differisce anche dalla storia degli italiani nel Nord America (dove prevalse l’inserimento nell’industria). Qui la collettività riuscì a svilupparsi in pieno solo dopo il passaggio dalla “britannicità” (intesa in senso monodimensionale) al “multiculturalismo” che favorì l’identificazione con la nuova società. Ci si può chiedere quali margini questo processo di inserimento possa lasciare al mantenimento della “italianità”, che sta all’origine della partenza degli emigrati e, mediatamente, dei loro discendenti.

A questi interrogativi, connessi con l’attualità e con il futuro, si cercherà di rispondere, salvo restando che le vicende storiche dell’esodo degli italiani sono già un valore in sé per gli insegnamenti che se ne possono trarre. Questi spunti meritano di essere ulteriormente approfonditi. È ampia la bibliografia in materia (ne verrà riportata una selezione) e anche da parte australiana è stata a dedicata una grande attenzione alla collettività italiana, con l’apporto di diversi autori italo-australiani.

Emigrati italiani in Australia Partenze (dal Portale Australia)

Emigrati italiani in Australia, Partenze (dal Portale Australia)

L’immigrazione italiana fino alla Seconda guerra mondiale 

I galeotti, trasportati dall’Inghilterra a Botany Bay nel 1878, furono sottoposti a una rigida disciplina e dotati solo degli strumenti di lavoro indispensabili per la colonizzazione. I tribunali inglesi, nelle loro condanne, erano soliti emettere sentenze di deportazione e per diversi decenni essere condannato era l’equivalente di essere damnatus ad Australiam. Come facilmente immaginabile, questa colonia di detenuti era caratterizzata dall’alcolismo, dal libertinaggio, dalla violenza, e anche dall’avversione a un lavoro disciplinato. Sul posto arrivarono, però, anche i coloni liberi dall’Inghilterra, dalla Scozia e dall’Irlanda, che ottennero la concessione di appezzamenti di terreno per la coltivazione agricola e l’allevamento del bestiame e anche per lo sfruttamento di giacimenti minerari. Ben presto furono realizzate le opere di urbanizzazione e furono incrementati gli insediamenti sulle coste verdeggianti. Lo sforzo dei coloni era sostenuto da un grande apprezzamento da parte della corona inglese, che grazie a loro poteva contare su un’abbondante fornitura di granaglie, bestiame e minerali.

Lo sviluppo demografico era sostenuto dai flussi di immigrati in arrivo dalla Gran Bretagna e dall’Europa del Nord e anche dall’America del Nord: una emigrazione esclusivamente bianca e nordica, fatta eccezione per un gruppo di cinesi addetti ai giacimenti auriferi (già allora si cominciò a parlare di “pericolo giallo”). Al censimento del 1861 la popolazione australiana raggiungeva appena 1.168.149 unità. Nel frattempo andò aumentando la ricchezza, che influì sull’incremento dei consumi e consentì alle strutture pubbliche di farsi maggiormente carico del sistema formativo con il potenziamento delle scuole (a gestione sia anglicana che cattolica). I miglioramenti intervenuti non alleviarono, invece, le condizioni dei lavoratori dipendenti dai “bianchi”, specialmente nelle piantagioni di canna da zucchero, dove erano ricorrenti le agitazioni degli addetti.

Alla fine del XIX secolo, spinti anche dalla recessione, i coloni australiani condivisero la necessità di innovare il sistema socio-politico in senso più liberale e rispettoso dei diritti. Di notevole importanza fu l’introduzione di un salario minimo e di una pensione al compimento del 65° anno di età, naturalmente solo per i “bianchi”, ad esclusione degli asiatici e degli indigeni.

Emigrati italiani in Australia Partenze da Napoli (dal Portale Australia)

Emigrati italiani in Australia Partenze da Napoli (dal Portale Australia)

Al censimento del 1901 i residenti erano aumentati a 3.773.80 unità. Nello stesso anno, previa approvazione da parte del Consiglio della Corona e della Camera dei Comuni di Londra, a Sydney fu promulgata la legge di costituzione del Commonwealth d’Australia, con la scelta di Melbourne come capitale federale. L’Australia non era più abitata solo dai pionieri della colonizzazione e dai loro discendenti, ma anche dagli immigrati venuti da diverse parti del mondo, tra i quali erano inclusi anche gli italiani [4].

I primi migranti italiani arrivarono negli anni ‘40 dell’Ottocento e si trattò di missionari interessati all’evangelizzazione degli aborigeni, e di musicisti dell’Italia settentrionale. Negli anni ‘40 arrivarono anche diversi patrioti, che avevano partecipato ai moti risorgimentali in varie città italiane, sottraendosi con l’emigrazione alle misure repressive degli austriaci e delle altre autorità politiche. Va ricordato, però, che nel 1828, al primo censimento del Nuovo Galles del Sud, fu riscontrata la presenza di 28 persone con cognomi italiani. Nel 1847 arrivarono 200 pescatori da Grottaferrata in Sicilia e i loro discendenti ben presto si assimilarono agli australiani, mentre – come osservato da Bertelli – furono pochi quelli che s’impegnarono a supporto della collettività italiana.

Il patriota mazziniano Raffaello Carboni (1827-1875), dopo il fallimento della Repubblica Romana si recò in Australia dopo essersi trattenuto prima a Londra. Stabilitosi nel 1835 presso i giacimenti auriferi del Ballant nel 1853, in quell’ambiente egli diventò un personaggio influente. Sensibile ai diritti, egli fu testimone oculare degli eventi che descrisse nel suo volume The Eureka Stocade, in cui entrò anche nel merito delle cause alla base della rivolta contro le forze dell’ordine, che lasciò sul campo 35 vittime. Carboni ritornò in Italia e morì a Roma.

Dopo l’Unità d’Italia l’emigrazione per ragioni economiche verso l’Australia fu ridotta perché tra quelli eventualmente interessati a lasciare l’Italia erano pochi quelli che riuscivano a mettere insieme la somma per pagare il viaggio. Tra l’altro non era operante una linea diretta tra l’Italia e l’Australia che iniziò a operare solo nel 1880 e, prima che venisse aperto il canale di Suez (novembre 1869), durava due mesi, con partenza da Genova e da Napoli.

Da ricordare che nel 1880 la corsa all’oro nella colonia di Vittoria attrasse diversi italiani. Erano 1.880 gli italiani registrati dal primo censimento australiano del 1881: in prevalenza minatori o boscaioli. La presenza italiana nel Paese aumentò a 3.890 nel 1891, a 5.676 nel 1900 e a 133 mila allo scoppio della Prima guerra mondiale [5]. Gli studiosi ritengono, però, che i numeri dei censimenti fossero scarsamente rappresentativi degli arrivi degli italiani. Infatti, secondo le stime degli studiosi tra l’inizio della colonizzazione dell’Australia e la Prima guerra mondiale erano arrivati in Australia tra i 100 mila e i 125 mila italiani. I nostri immigrati si fermavano però per poco tempo, per poi ritornare in Italia. Come esempio di questa accentuata temporaneità si può citare il 1904 quando, dalle registrazioni dei passaggi navali, risulta che nel 1904 46.336 italiani sbarcarono in Australia e quasi altrettanti (44.947) ripartirono. Non mancavano, veramente, i motivi in grado di giustificare questa scarsa affezione alla nuova terra. Gli italiani trovarono un’accoglienza restia, se non addirittura ostile, essendo la collettività anglofona, interessata a salvaguardare i posti di lavoro e anche poco propensi ad accettare le differenze culturali dei nuovi arrivati.

All’inizio del XX secolo nella parte settentrionale del Queensland giunsero diversi italiani per operare nella fiorente e redditizia industria della canna da zucchero. Nei due decenni successivi l’incremento continuò a essere contenuto e nel 1921 furono registrati 8.135 italiani, diventati 26.735 nel 1933, con un rallentamento della crescita negli anni a ridosso dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Infatti, l’Immigration Restriction Act del 1932 aveva reso più rigidi i controlli per chi intendeva emigrare in Australia, contribuendo così a ridurre e limitare la concorrenza con la manodopera locale.

Terminato il conflitto, nel 1947 gli italiani erano solo 36.632 e da allora fino alla fine del secolo, hanno rappresentano il terzo gruppo etnico più numeroso dopo gli inglesi e gli irlandesi.

Emigrati italiani in Australia Partenze (dal Portale Australia)

Emigrati italiani in Australia, Partenze (dal Portale Australia)

Come avvenne anche in altri Paesi, durante la Seconda guerra mondiale, anche in Australia molti membri della collettività italiana subirono pesanti restrizioni della libertà personale perché sospettati di simpatia per il regime fascista, che insieme a quello nazista e al Giappone, si era schierato contro gli alleati. Essi furono privati della libertà e internati in appositi campi. Sul totale degli internati, che includendo giapponesi e tedeschi furono 7.711, gli italiani erano 4.727, corrispondenti a circa un decimo dell’intera collettività, quasi sempre maschi, ma in certi casi anche donne e di minori.

Le condizioni di vita nei campi di internamento erano dure non solamente per il vitto e la sistemazione logistica, ma anche per la privazione della libertà e l’incapacità di compiere atti giuridici (come vendere e acquistare), quando addirittura non fu praticata la confisca dei beni. La prevenzione dello spionaggio indusse le autorità anche al sequestro delle macchine fotografiche e dei pescherecci, al divieto di parlare italiano e di partecipare a qualsiasi riunione. Ne derivò una situazione di grave disagio anche per le famiglie, mentre tra gli australiani aumentò il sospetto nei confronti degli italiani, alimentato dal timore che essi continuassero a simpatizzare per il fascismo e potessero diventare dei sabotatori. Quella fu una fase molto difficile per la piccola collettività italiana [6].

Un giudizio a posteriori, pur nella consapevolezza che un Paese democratico, per giunta in pieno periodo bellico, non poteva non contrastare le manifestazioni di stranieri schierati a favore di un Paese nemico, porta a ritenere che le misure adottate fossero per alcuni aspetti abnormi: ciò è reso evidente dall’elevato numero degli internati. Ad esempio, negli Stati Uniti, dove vivevano oltre mezzo milione di cittadini italiani, quelli colpiti da misure restrittive furono poco più di 2000, meno della metà rispetto a quelli che furono internati in Australia. Probabilmente a indurre gli australiani a questo rigore estremo, più che le richieste della polizia (che non mancarono, perché era ricorrente e vivace la contrapposizione tra fascisti ed esponenti dell’antifascismo), fu lo zelo quanto mai spinto che le autorità australiane vollero mostrare alla Gran Bretagna nel tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale.

In quel periodo in Australia furono, inoltre, rinchiusi in campi di prigionia 15 mila soldati italiani catturati negli scontri tra gli alleati e le truppe nazi-fasciste. Si adoperò molto a favore degli internati e dei prigionieri di guerra il nunzio apostolico mons. Giovanni Panico (1895-1962), nominato nel 1935 nunzio apostolico della Santa Sede per l’Australia, la Nuova Zelanda e l’Indonesia. Egli fu sostenuto in questo suo impegno dai missionari che operavano sul posto per l’assistenza degli italiani [7]. Gli internati e i prigionieri si comportarono in maniera esemplare e supplirono alla mancanza di forza lavoro per l’assenza dei giovani chiamati al fronte. Molti prigionieri, una volta liberati e tornati in Italia, preferirono tornare in Australia per lavorare come coltivatori o allevatori di bestiame.

Emigrati italiani in Australia (dal Portale Australia)

Emigrati italiani in Australia (dal Portale Australia)

I flussi nell’immediato dopoguerra

Nel 1947, prima dell’inizio dei flussi di massa, gli italiani residenti in Australia erano 44.732. La loro consistenza aumentò sensibilmente e raggiunse 119.897 unità nel 1954, diventate 228.296 nel 1961, 267.325 nel 1966 e 289.476 nel 1971, per poi conoscere una continua diminuzione e attestarsi sui 253.382 residenti nel 1991. Come accennato, gli italiani furono la collettività straniera più consistente dopo quelle di lingua inglese (inglesi, scozzesi e irlandesi). Attingendo alla serie storica ISTAT degli espatri dal 1940 al 2014, si evince che nel 1948 emigrarono 2 mila italiani e 10 mila l’anno seguente.

Negli anni ‘50 gli espatri furono 184 mila e il picco fu raggiunto nel 1956 con 27 mila espatri. L’incentivazione dei flussi degli anni ‘50 va ricollegata al fatto che nel 1951 l’Italia sottoscrisse con l’Australia un accordo di emigrazione (ratificato con la legge 10 giugno 1951, n. 576). Negli anni ‘60 intervenne una riduzione degli espatri, che furono in totale 133 mila: inizialmente 16 mila l’anno, ma poi questo livello fu dimezzato.

Negli anni ‘70 gli arrivi degli italiani diminuirono bruscamente e si arrivò a un totale di 35 mila nel decennio. A spostarsi in quella fase non erano non solamente quelli spinti dal bisogno ma anche quelli interessati a un maggiore arricchimento umano e professionale e la loro presenza servì ad elevare il livello culturale della collettività italiana. Dagli anni ‘70 in poi, ridotti ormai i flussi dall’Italia, iniziarono i rimpatri, con conseguente ridimensionamento della consistenza della collettività italiana. Negli anni ‘80 la riduzione degli espatri fu ancora più drastica: essi furono 13 mila, nel decennio, poco più di mille l’anno inizialmente e poi al di sotto di tale livello.

Secondo le fonti australiane, nel periodo 1947-1991, tra gli stranieri registrati in arrivo, la quota degli italiani fu la più consistente dopo quella degli immigrati britannici e irlandesi. Nel 1987, secondo l’Australian Bureau of Statistics, la principale lingua utilizzata dopo l’inglese era per l’appunto l’italiano, parlata da 440.776 persone, mentre erano meno numerosi quelli che parlavano il greco (227.167), il tedesco (163.333) e l’olandese (110.540).

Negli anni ‘2000 gli espatri continuarono a essere meno di mille: complessivamente sono stati circa 7 mila in ciascuno dei due periodi, tuttavia nel secondo decennio sono stati nuovamente superati i mille espatri annuali. Dal 1940 al 2014 espatriarono in Australia circa 400 mila italiani (397.024), pari al 4,2% di tutti gli espatriati dall’Italia (9. 684.198). L’analisi dell’andamento degli ultimi due decenni può avvalersi delle disaggregazioni dei dati dell’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), che riesce a intercettare anche gli italiani che non hanno provveduto a cancellarsi dalle anagrafi dei comuni italiani di residenza. Nel primo decennio degli anni ‘2000 sono stati registrati dall’AIRE 9 mila espatri.

Anche nel secondo decennio del Duemila sono stati totalizzati 19 mila arrivi in Australia, con l’aumento a 3 mila annuali casi negli ultimi anni, un chiaro indicatore della crescente attrazione dell’Australia, seppur non paragonabile a quella del passato. Nei due decenni del nuovo secolo sono andati a risiedere in Australia circa 40 mila italiani.         

81w-jybzhjlL’Italia, in ragione dei flussi del passato, rappresenta ancora una grande collettività, mentre influisce in misura marginale sui flussi in atto, che sono andati aumentando come risulta da questi dati dell’Istituto statistico australiano. Che ha registrato l’ingresso di 7 milioni di immigrati a partire dal dopoguerra, così ripartiti: nel periodo 1945-1960, 1,3 milioni; negli anni ‘60 1 milione; negli anni ‘7,0 quasi 1 milione; anni ‘80, 1,1 milioni; anni ‘90, 900 mila e così anche nella prima decade del Duemila. Un complemento ai dati riportati può essere desunto dall’Australian Bureau of Statistics, per il quale, dal mese di luglio 1949 fino al mese di giugno 2000 arrivarono in Australia 5.640.638 stranieri, di cui 390.810 italiani (pari al,9% del totale), così ripartiti. Gli immigrati italiani incisero per il 16,1% negli anni ‘50, per il 10,4% negli anni ‘60; per il 3,0% negli anni ‘70; per lo 0,1% negli anni ‘80, perdendo la posizione di spicco avuta nell’immediato dopoguerra.

Gli studiosi scalabriniani Favero e Tassello misero in evidenza che nell’emigrazione italiana del dopoguerra, concentrata per lo più nelle grandi aree urbane, era in atto un avanzato invecchiamento, mentre le seconde generazioni erano caratterizzate dall’assimilazione e dai matrimoni misti. Gli autori si basano molto sui dati di una ricerca condotta nel 1982 [8].

Nei primi due decenni del dopoguerra gli italiani incontrarono serie difficoltà nel loro inserimento. Essi erano abituati al lavoro duro ma non erano preparati a condurre una vita isolata in un Paese che parlava un’altra lingua, aveva un altro sistema di vita (scarsamente tollerante delle diversità degli immigrati) ed era così vasto e così lontano dalle famiglie lasciate in Italia, distante 4-5 settimane di navigazione. Per questi emigrati il risparmio era una sorta di imperativo categorico, che costringeva a sobbarcarsi anche a due turni di lavoro. La mancanza della famiglia e di una compagna accentuava il senso di solitudine specialmente nelle aree rurali. Il lavoro e la nostalgia inducevano a sognare un futuro migliore. Questa difficile condizione esistenziale fu magistralmente presentata nel film del 1971, girato dal regista Luigi Zampa, con due attori eccezionali come protagonisti, Alberto Sordi e Claudia Cardinale: “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata”.

f6cf268b-8cd9-4d7b-aca7-db1a3772def8-5daab18f-8831-4ffb-8710-735b5bec1e1e_rgb_sd-_ri_veaaxkciq7yinuvvopsbrghwt88hfo0_ttw_Mentre i più restarono sul posto, a ritornare in Italia fino al 1991 furono, secondo stime, più di 70 mila, di cui circa un terzo già cittadini australiani. Gli italiani che rimpatriarono nei loro comuni si sentirono spaesati perché considerati diversi (e in parte lo erano diventati) e non del tutto capiti nella loro mentalità e nei loro comportamenti: così come essi avevano influenzato lo stile di vita degli australiani, a loro volta ne avevano subìto l’influenza.

Da ultimo è opportuno mettere in evidenza su indicazione di Giuseppe Bea, già responsabile delle sedi all’estero del Patronato EPASA-CNA, l’importanza che ebbe l’accordo di sicurezza sociale italo-australiano, che fu firmato nel 1988, ratificato dal Parlamento italiano con la legge 24 marzo 1999, n. 101 e completato con l’accordo amministrativo nel 1990. Secondo Bea è necessario richiamare all’attenzione sia le difficoltà incontrate nel coordinare due sistemi pensionistici molto diversi (quello italiano basato sulla contribuzione e quello australiano sulla residenza), da una parte, e dall’altra l’estrema importanza che rivestì l’accordo per i pionieri dell’emigrazione in quel Paese, sia rimasti sul posto che ritornati in Italia, in avanzato invecchiamento.

L’evoluzione della politica migratoria australiana: l’apertura e il multiculturalismo

Quando, durante la Seconda guerra mondiale, le corazzate della marina giapponese apparvero nella baia di Sydney, l’immenso continente australiano si sentì poco popolato e poco sicuro e si convinse della necessità di aprirsi maggiormente agli europei. Il paese, infatti, continuava a essere poco popolato (7 milioni di residenti nel 1945), e privo di un sistema adeguato di difesa in caso di eventuali invasioni: perciò si decise di favorire maggiormente l’’ingresso degli immigrati europei.

Emigrati italiani in Australia (dal Portale Australia)

Emigrati italiani in Australia (dal Portale Australia)

La nuova apertura in campo migratorio includeva sia l’accoglienza dei profughi in fuga dall’Europa dell’est, sia l’accettazione degli immigrati provenienti dai Paesi del sud Europa. Tuttavia, per quanto riguardava gli italiani, si dava la preferenza a quelli originari delle regioni settentrionali. In applicazione di questo orientamento, nel 1951 l’Australia stipulò con l’Italia un accordo di emigrazione. Il piano degli arrivi, varato per gli anni 1946-1947, era nel suo complesso ben articolato e prendeva in considerazione i vari aspetti riguardanti il reclutamento e i diversi aspetti all’insediamento: selezione, visti, inserimento, tutela, accesso alla cittadinanza (previsto dopo 5 anni di residenza).

Non è infondato attribuire una grande importanza alla decisione di aprire agli immigrati di tutta Europa, come si rileva dal giudizio espresso da Alla Patience: «Non è da scartare l’idea che in un prossimo futuro l’anno 1947 (che segnò l’inizio delle migrazioni europee) possa essere riconosciuto come più significativo del 1788, la data di fondazione dell’Australia moderna. Anche se l’affermazione appare azzardata, in quell’anno iniziò una profonda trasformazione della società australiana, mai provata nella sua giovane storia» [9]. Rispetto a questo nuovo orientamento una quota della popolazione continuò a mostrarsi riluttante a mantenere le distanze dai nuovi arrivati.

L’apertura anche agli europei non anglosassoni ebbe un forte impatto sull’economia e anche sulla convivenza sociale. Era necessario un orientamento politico per porre fine alla “white politic” e ampliare i diritti degli immigrati e superare anche il tradizionale timore del “pericolo giallo”, che aveva portato a ostacolare l’ingresso degli asiatici. Ad avere il coraggio di questa scelta storica fu il laburista Gough Bentlam 1916-2014).

L’Australia, prima bianca e poi occidentale, diventava finalmente anche asiatica: un Paese multiculturale, multietnico e multireligioso. La nuova politica era finalizzata a mettere insieme queste diversità, consentendo così di affrontare con maggiore vigore il futuro. Funzionale al consolidamento della presenza immigrata furono anche i ricongiungimenti familiari con il conseguente protagonismo delle donne. La diversità faceva già parte dell’economia, del mercato occupazionale e della vita quotidiana. Tutti dovevano sentirsi australiani e a tal fine fu ulteriormente facilitata l’acquisizione della cittadinanza con l’abbassamento del requisito da 5 a 2 anni di residenza previa.

La politica multiculturale fu una sorta di rifondazione dell’Australia in senso moderno, in cui permaneva il riferimento all’origine britannica ma non era più in un senso monodimensionale ed escludente [10]. Nel 1972, a un anno di distanza dalla decisione analoga adottata in Canada, il governo presieduto dal laburista Gough Whitlam (con una scelta storica allora e tuttora non da tutti condivisa, ma poi entrata a far parte del patrimonio politico del Paese), iniziò a porre fine alla politica tradizionale, sbilanciata a favore dei bianchi (e per lungo tempo dei bianchi WAPS, white, anglo-saxon, protestant) in una prospettiva di trattamento ugualitario e di accettazione delle differenze.

Whitlam

Gough Whitlam

Il Paese era già ampiamente popolato dalle diverse collettività etniche ed era doveroso procedere al loro riconoscimento, nella fiducia che le differenze potessero convivere sulla base di valori e doveri comuni e trattamenti ugualitari e così pervenendo a un Paese dall’identità multipla. Whitlam riuscì a riportare il partito laburista al governo dopo un’astinenza che durava dal 1946 [11]. Molto sensibile ai diritti umani sull’esempio del padre, caratterizzò il suo governo per l’ampio programma riformatore, nonostante la risicata maggioranza parlamentare che lo sosteneva, e riuscì a realizzare alcuni punti fondamentali come la tutela sanitaria pubblica per tutti e la sostituzione della “white politic” con il multiculturalismo.

Whitlam, personaggio di grandi vedute, di vasta cultura e di grande incisività oratoria ma anche dallo stile autoritario e poco incline alla mediazione, alla fine del suo incarico governativo fu al centro di una delicata crisi istituzionale. Non avendo indetto nuove elezioni pur essendo stato messo in minoranza dai parlamentari, nel 1976 il governatore generale, con una decisione controversa (e a posteriori ritenuta dai più non fondata), gli revocò il mandato di primo ministro e conferì l’incarico di formare un nuovo governo al capo dell’opposizione.

Qui conviene soffermarsi sulla scelta della politica multiculturale per superare la disparità tra i bianchi e i residenti di diversa origine. Così facendo egli completò la prima fase di apertura dell’Australia alla diversità, rappresentata dalla decisione, adottata nell’immediato dopoguerra e poi ulteriormente implementata, di allargare il ventaglio dei Paesi di provenienza. Il nuovo orientamento comportava di per sé un deciso superamento della strategia di assimilazione (sentirsi anglosassoni per diventare australiani) e rendeva possibile l’integrazione più graduale e più rispettosa del patrimonio culturale degli immigrati. L’attuazione della nuova strategia non fu, tuttavia, facile e priva di ostacoli e resistenze. 

Breve excursus sul multiculturalismo in Australia [12]

L’Australia, adottando il multiculturalismo, ha inteso promuovere l’accettazione delle realtà etnico-culturali diverse da quella anglo-sassone e assicurare a tutti gli immigrati lo stesso trattamento riservato agli australiani. A ciò ha portato la necessità di aprirsi anche ai flussi migratori di provenienza da Paesi prima esclusi dall’immigrazione in Australia (o, comunque, non incentivati a farlo), e cioè i Paesi del sud Europa come l’Italia e poi anche i Paesi asiatici.

In un primo periodo, infatti, fu praticata “la politica dell’Australia bianca”, aperta a immigrati bianchi, anglosassoni e protestanti (aperta, inoltre, agli irlandesi), che durò fino alla Seconda guerra mondiale. In quel periodo il Paese fu considerato dai politici australiani un avamposto della cultura britannica nei mari del sud e l’immigrazione non omogenea ai primi coloni (e ai loro discendenti) non fu affatto favorita. Quindi, come prima riportato, iniziò un ripensamento e, dopo aver aperto maggiormente le porte agli immigrati al termine della Seconda guerra mondiale, finalmente la politica multiculturale fu adottata nei primi anni ‘70 su impulso del primo ministro laburista Withlam.

La tappa raggiunta con la formalizzazione giuridica del multiculturalismo, pur non mancando di esplicare la sua efficacia, non garantì del tutto il superamento dei precedenti atteggiamenti restrittivi a livello politico e socio-culturale. Facendo riferimento ai termini utilizzati dal sociologo Georg Simmel nel suo classico saggio sulla figura ambivalente dello straniero, vi furono australiani propensi a soffermarsi sugli aspetti di vicinanza degli immigrati, considerandoli come un in-group, e quelli maggiormente colpiti dalla loro diversità, considerandoli pertanto come un out-group. 

John Howard

John Howard

La politica multiculturale, varata da Withlam nel 1972, fu comunque continuata dai responsabili dei governi succedutisi nei decenni successivi, ma non mancarono le criticità. Merita di essere menzionata, a titolo d’esempio, la direzione opposta presa nello stesso periodo da due personalità politiche. John Howard all’inizio del suo impegno politico fu molto critico del multiculturalismo e si batté per la riduzione dell’immigrazione asiatica. Poi egli arrivò a riconoscere come sbagliata questa sua posizione e maturò la convinzione che l’identità nazionale australiana, pur essendo ampiamente basata sulla tradizione anglo-celtica, era condivisibile anche dai residenti appartenenti a collettività con diverse origini etnico-culturali. 

Howard, che cessò di operare come primo ministro nel 2007, si dovette confrontare con la parlamentare Pauline Hansen che, fautrice del rigido populismo contenuto nel programma “One Nation”, contrastò il multiculturalismo, ritenendolo una minaccia radicale alla cultura e all’identità dei valori condivisi in Australia. Le critiche al multiculturalismo non furono mosse solo a livello politico ma anche, allor come tuttora, a livello socio-culturale. È stato sostenuto che il multiculturalismo sia divisivo e costituisca una minaccia alla coesione sociale e che rischi di trasformare l’Australia in un “gruppo di tribù”, tra l’altro facendo valere i diritti delle minoranze a scapito di quelli della maggioranza. È stato anche lamentato che l’adozione del multiculturalismo sia avvenuta senza una consultazione popolare e che il suo sviluppo sia opera di ristrette cerchie di docenti universitari e persone operanti nel mondo dell’immigrazione, per i quali l’opinione popolare sarebbe un ostacolo e non una risorsa: questa è stata la tesi di. Mark Lopez, che nel 2000 ha pubblicato il saggio Le origini del multiculturalismo nella politica australiana 1945-1979.

519ei-bfkhlDa parte loro i sostenitori del multiculturalismo non hanno mancato di porre in evidenza l’esagerazione dei pericoli ipotizzati dai critici del multiculturalismo, in particolare quando essi si riferiscono alla presunta minaccia della coesione sociale. Questo pericolo andrebbe seriamente ridimensionato perché, nonostante l’aumento delle comunità etniche, i valori fondamentali della tradizione europea, sono stati largamente mantenuti e, pertanto, concetti come identità, coesione sociale, cittadinanza e integrazione vanno presi in considerazione con maggiore pragmatismo, astenendosi da visioni ideologiche preconcette: ad esempio, l’equità e l’uguaglianza (e lo stesso si può dire per altri valori)), ritenuti un cardine della tradizione originaria australiana, costituiscono anche il cardine del multiculturalismo.   

Bisognerebbe anche rendersi conto che il multiculturalismo, così come è stato realizzato in Australia nei discorsi quotidiani, è ancora segnato dalla persistenza di atteggiamenti di chiusura ereditati dal passato, riscontrabili non solo tra i tradizionalisti ma spesso anche tra gli stessi seguaci del multiculturalismo. Le critiche mosse non sono valse a sopprimere l’orientamento multiculturale ufficiale, con il quale l’Australia cerca tuttora di gestire un’immigrazione fortemente aumentata. Nella capitale Canberra si organizza annualmente, per la durata di una settimana, il National Multicultural Festival, così come si celebra l’Harmony Day per promuovere la tolleranza tra le culture. Tim Soutphommasane nel 2012 pubblicò a Sydney un volume con questo suadente titolo: Non tornare nel paese da dove sei venuto: perché il multiculturalismo funziona.

Si può aggiungere, al termine di questo excursus sul multiculturalismo australiano, che una scelta imperniata sui grandi valori non si concluse, per quanto riguarda i suoi effetti, nel momento dell’adozione della decisione legislativa, essendo necessario un impegno continuo per rimediare ai difetti della fase applicativa, senza che le carenze applicative debbano comportare un ripensamento della scelta fatta. Scendendo dal dibattito concettuale a una riflessione fenomenologica si constata che gli effetti del multiculturalismo su una molteplicità di livelli hanno influenzato il modo di essere e di agire degli australiani per quanto riguarda molteplici aspetti: cibo, lavoro, divertimento, spettacoli, abbigliamento, moda, negozi, manifestazioni culturali e religiose, aspetti linguistici e culturali, amicizie, matrimoni, educazione familiare, turismo e tanto altro. Tutti i residenti, sia gli autoctoni che gli immigrati (con i loro discendenti), sono interdipendenti e soggetti alle reciproche influenze. Questo profondo cambiamento si spiega da sé quando si pensa che la metà della popolazione australiana è di origine straniera (tra quelli nati all’estero e quelli di origine immigrata). Sotto quest’ aspetto il multiculturalismo può considerarsi una realistica presa d’atto dei cambiamenti da tempo in corso. 

  Panico

mons. Panico

La cura pastorale degli italiani nella Chiesa australiana di tradizione irlandese [13]

L’inserimento degli italiani non fu, comunque, un percorso facile e a creare complicazioni furono anche gli aspetti religiosi, caratterizzati in ambito cattolico dalla rigida impronta degli irlandesi, che introdussero il cattolicesimo nel Paese tramite i galeotti e i coloni alla fine dell’Ottocento. Fu inizialmente d’intralcio il sistema delle parrocchie, completamente improntate allo stile pastorale irlandese e, quindi, un contenitore poco adatto ad accogliere la tradizionale pratica religiosa degli italiani, non di rado ritenuta superstiziosa: si richiese molto tempo prima che si giungesse a un’accettabile mediazione.

Ai sacerdoti preposti all’assistenza degli immigrati va riconosciuto il grande sostegno assicurato alla collettività. Essi furono vicini agli emigrati fin dai tempi dei primi flussi: infatti erano già presenti sul posto i sacerdoti inviati come missionari per predicare il vangelo alle tribù aborigene, che non mancarono di occuparsi anche dei loro connazionali per dedicarsi poi sempre più agli emigrati. Il loro ruolo è stato scarsamente preso in considerazione negli studi accademici perché la documentazione sulla loro attività si trova negli archivi degli istituti religiosi, di più difficile accesso rispetto a quelli pubblici. Un altro motivo della mancata attenzione deve essere ricollegato al fatto che questi sacerdoti non operarono nell‘ambito di strutture pastorali specifiche, come negli Stati Uniti (Parrocchie nazionali) o nei Paesi europei (Missioni cattoliche italiane), bensì furono sollecitati a inserirsi come collaboratori dei parroci locali e, in una seconda fase, direttamente come parroci essi stessi con la responsabilità pastorale anche degli australiani.

L’inserimento in loco della pastorale italiana non fu agevole perché si auspicava il superamento della diversa sensibilità religiosa tramite l’assimilazione alla tradizione irlandese. Non mancò l’impegno dei sacerdoti italiani nel farsi carico delle esigenze sociali dei connazionali. Da parte australiana, nonostante le riserve rispetto alla peculiare pratica religiosa degli italiani, non mancò l’attenzione all’importanza quantitativa di questa presenza, arrivata col tempo a incidere per circa un quinto sugli oltre 5 milioni di fedeli della Chesa cattolica locale. Alcuni dei sacerdoti, venuti dall’Italia ad operare tra gli aborigeni, si occuparono della loro conversione e della loro penosa situazione. Alcuni di loro divennero vescovi.

Mons. Giovanni Cani (1834-1898), nato a Imola, giunse a Brisbane nel 1861 e nel 1881 fu nominato vescovo della nuova diocesi di Rockhampto, un territorio immenso con 10 mila cattolici e appena 7 sacerdoti. La sua nomina fu ostacolata dal clero irlandese, che avrebbero voluto un irlandese al suo posto [14].  A distanza di tempo divenne vescovo in Australia anche il piemontese Ernesto Coppo. Prete salesiano, nel 1898 si trasferì con un gruppo di confratelli a New York per assistere gli emigrati italiani. Quindi nel 1923 a Torino fu consacrato vescovo e inviato nella diocesi di Kimberley per occuparsi degli indigeni. Rosignano Monferrato, il suo paese natio, lo ricorda come “apostolo dei tre mondi” [15]. Queste nomine, oltre a tenere conto delle qualità delle persone prescelte, erano funzionali alla strategia vaticana di rendere meno irlandesizzata la gestione della Chiesa australiana.

A rendersi protagonisti nell’invio di sacerdoti per gli aborigeni e poi per i migranti furono i Passionisti, i Benedettini, e il Pontificio Istituto delle Missioni Estere (PIME) di Milano, i Francescani, i Salesiani e i Gesuiti nonché gli Scalabriniani. Nelle aree loro affidate i sacerdoti presero contatto anche con gli emigrati italiani, cercando di lenire il loro isolamento. Chiuso il conflitto mondiale e aumentata la presenza degli emigrati italiani, l’invio di sacerdoti dall’Italia fu finalizzata alla loro assistenza.

Nella prima metà degli anni ‘40 vi fu anche un altro motivo di criticità, durante lo svolgimento della Seconda guerra mondiale, che richiamò l’attenzione del nunzio apostolico e dei sacerdoti italiani. Dopo l’entrata in guerra di Mussolini a fianco di Hitler i membri della collettività italiana furono di per sé sospettati di simpatie fasciste e di possibili azioni dannose per il Paese come lo spionaggio e furono internati a migliaia in appositi campi (in diversi casi lo furono anche donne e minori italiani). Mons. Panico si adoperò molto a loro favore, intervenendo presso le autorità, tenendo i collegamenti con le famiglie e prestando anche un’assistenza materiale.

Dopo la chiusura del conflitto mondiale, con l’ampia apertura dell’Australia all’immigrazione dall’Italia, la pastorale da condurre tra i fedeli italiani divenne molto dibattuta e si si fece più pressante. Mons. Antonino Panico, a lungo nunzio in Australia (anche nel periodo della Seconda guerra mondiale), non era in sintonia con l’impostazione pastorale dell’influente arcivescovo di Melbourne, mons. Daniel Mannix, convinto sostenitore delle parrocchie in stile irlandese come perno della pratica religiosa e meno propenso alla graduale conservazione della religiosità popolare degli italiani [16]. L’influente arcivescovo (e con lui l’intero episcopato) a lungo ritenne che non fosse opportuno, nel particolare scenario australiano, procedere all’attuazione delle nuove linee pastorali, emanate nel 1952 dalla Santa Sede con il documento Exul Familia, che, affidando ai sacerdoti preposti alle comunità etniche la “missione con cura delle anime”, permetteva loro di operare trasversalmente e di intervenire nelle varie parrocchie del territorio loro affidato. Il documento pontificio neon venne neppure tradotto e diffuso in lingua inglese. Il nunzio apostolico, invece, considerò più consono ai bisogni degli emigrati la gradualità dell’integrazione, prestando così attenzione alle esigenze linguistiche e culturali di questi fedeli. Da ciò derivò l’insistenza sulla venuta di sacerdoti dall’Italia, meglio preparati a farsi carico di una pastorale etnica e capaci di comprendere gli aspetti della religiosità tradizionale e, nel contempo, di avvalersi nella loro azione del supporto delle religiose italiane, per rispondere alle molteplici istanze socio-culturali della collettività.

Furono, in effetti, diverse le iniziative di promozione umana da loro portate avanti, operando questi sacerdoti italiani anche come traduttori, interpreti, consulenti per l’abitazione e per il lavoro, organizzatori dei corsi di lingua inglese, costruttori di asili nido e di case per anziani, editori di stampati in lingua italiana. È stato anche osservato che le associazioni nate in ambito cattolico erano funzionali, oltre che alla coesione della comunità ecclesiale, anche alla difesa del mondo protestante, considerato troppo secolarizzato. I vescovi australiani vollero che i sacerdoti inviati per occuparsi degli italiani operassero come assistenti dei parroci o, all’occorrenza (come avvenne a distanza di anni), come parroci essi stessi, occupandosi delle faccende della parrocchia e di tutti i suoi fedeli, inclusi anche gli italiani. Per questo motivo insistettero sulla conoscenza della lingua inglese da parte dei sacerdoti in arrivo dall’Italia.

carta-apostolicaQuesta impostazione fu mantenuta anche dopo il 1969, anno in cui la Santa Sede approvò un nuovo documento pastorale (Pastoralis Migratorum Cura): la parrocchia tradizionale doveva rimanere il fulcro dell’azione religiosa. Pertanto, ai Cappuccini e agli Scalabriniani, ai sacerdoti che nel dopoguerra si occuparono dei loro connazionali in Australia, non restò altra strada praticabile se non quella di adeguarsi a questa impostazione, perseguita anche dopo che nel 1972 il governo diede l’avvio alla politica multiculturale, improntata a una maggiore fluidità in un Paese diventato ormai un caleidoscopio di etnie, culture e religioni.

Comunque la soluzione australiana, superate le asperità iniziali, non fu priva di efficacia e consentì di salvaguardare la fede degli italiani, come attestato dal fatto che i membri della collettività, pur non praticanti, in occasione dei censimenti non mancarono di dichiarare la loro appartenenza alla Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica australiana è andata sperimentando una forte diminuzione della presenza dei fedeli in parrocchia, provocato dal processo di secolarizzazione. Nello stesso tempo si è costatato che le espressioni di religiosità popolare, prima guardate solo con sospetto, hanno generato anche legami profondi e hanno consentito agli italo-australiani di continuare a dichiarare la loro appartenenza alla Chiesa cattolica. Il censimento del 2006 ha presentato questa ripartizione delle appartenenze religiosa dei membri della collettività italiana: 79.7% i cattolici, 3.2% gli anglicani, 5.6% le altre confessioni cristiane, 1.6% le altre religioni 19,0% senza appartenenza religiosa.

Certamente la fede è innanzitutto un fenomeno più interiore, che comunque interagisce con gli aspetti socio-culturali. La maturazione intervenuta è consistita, da parte australiana nell’attenuare la rigidità di giudizio prima fatta valere nei confronti della religiosità degli italiani e, da parte italiana, nell’aprirsi a forme di spiritualità più rispondenti. Naturalmente la simbiosi tra tradizione e modernità dipende dalla personalità dei singoli mentre l’intero processo, analizzato nei suoi aspetti fenomenici, propone il peculiare itinerario dell’integrazione degli italiani in Australia come un caso di grande interesse anche sotto l’aspetto religioso. 

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022 
[*] Questo testo rappresenta la prima parte di un saggio più esteso. La seconda parte sarà pubblicata nel numero 56. Si ringrazia Giuseppe Bea per la collaborazione prestata.
Note
[1] Furono due navigatori olandesi a prendere i primi contati con l’Australia: nel 1606 se Willem Janszo toccò l’attuale Capo York, mentre, nel 1611, Dirk Hartog fu il primo a sbarcare sul suolo australiano, ma ciò non portò a un progetto di colonizzazione da parte del suo Paese. 
[2] Cfr. Zavatti, I viaggi del capitano James Cook, Schwarz, Milano, 1990. All’inizio della colonizzazione erano centinaia le lingue delle tribù aborigene e ancora oggi queste sono circa 150, mentre attualmente gli aborigeni incidono per il 2,5 sui residenti. 
[3] Cfr. Una succinta presentazione dell’origine di questa “colonizzazione carceraria” in “Botany Bay: storie di deportazione in Australia”, http://ontanomagico.altervista.org/botany-bay-storie-di-deportazione-in-australia.html
[4] Cfr. Cresciani G. (a cura), The Australians and Italian migration, Franco Angeli, Milano,1983: D’Aprano, C., From goldrush to federation: Ital pioneers in Victoria 185–1900, INT Press, 1995, Melbourne. 
[5] La corsa all’oro si verificò a Vittoria nel 1861 e, quindi, e nella Nuova Zelanda.
[6] Sui ricorrenti contrasti tra fascisti e antifascisti in Australia cfr. Cresciani G., Fascism and Anti-Fascism and Italians in Australia, Australian National University, Canberra, 1980. Invece sulle misure adottate contro gli “Enemy aliens” si rimanda alle voci citate nella bibliografia.
[7] Valli D., Emigrante per amore. Il Cardinale Giovanni Panico da Tricase a Sydney (1895-1948), Congedo Editore, Galatina, 1998; Coppola S, Fortiter in re suaviter in modo. Mons. G. Panico, il diplomatico Salentino al servizio della S. Sede negli anni di Pio XI, Giorgiani Editore, Castiglione (Le), 2014.
[8] Favero, L. Tassello, G., Demographic and social characteristics of the Italian community in Australia and its second generation”, in Studi emigrazione, n.20, 1968: 
file:///C:/Users/franco/Desktop/Documents/Downloads/00027%20(14).pdf. È copiosa la bibliografia dedicata agli ultimi talo-australiani negli ultimi tre decenni del Novecento, inclusi gli approfondimenti condotti nei suoi quaderni dal CITC (Catholic Intercultural Resource Centre). Nel nuovo secolo, per effetto del processo di avanzata integrazione la collettività si presenta piuttosto come australiana-italiana che italo australiana. Cfr. anche Bertelli L., “Italians in Australia: Migration and Profile”, in Altreitalie. n. 226, gennaio-giugno 2003, file:///C:/Users/franco/Desktop/Documents/Downloads/00027%20(11).pdf. Si tratta dell’aggiornamento di una ricerca condotta dall’autore 15 anni prima: Bertelli L., “A sociocultural profile of the Italian community in Australia, CIRC Paper no. 48, Melbourne, Catholic Intercultural Resource Centre, 1986; in italiano., Bertelli L., “Profilo socio-culturale della collettività italiana in Australia», Il Veltro, 31, 1-2, 1987: 31-53. 
[9] Patience A., “Towards a Theology of the Australian Multicultural Experience”, in The Australasian Catholic Record, 65, 4: 423-440. 
[10] Jup J. (a cura), The Challenge of Diversity. Policy Options for a Multicultural Australia, Canberra, AGPS, 1989.
[11] Withlam fu eletto al Parlamento federale per coprire il posto lasciato libero da Hubert Lazzarini, italo-australiano e influente politico. Sul quale si ritornerà. 
[12] Allan L., “A Selective Annotated Bibliography of Multiculturalism”, in Social Alternatives (University of Queensland), Vol.3, No.3, luglio 1883: 65-72. Cfr. anche un sommario di posizioni contrastanti in: https://www.no-regime.com/ru-it/wiki/Multiculturalism_in_Australia  
[13] cfr. Lorigiola A., Parrocchie Nazionali e Parrocchie Territoriali, esperimento di fusione in Australia, in Collana “Sussidi”, 1, Problemi di storia, sociologia e pastorale dell’emigrazione, CSER, 196; 5; Paganoni A., O’ Connor D., Se la processione va bene…Religiosità Popolare Italiana nel Sud Australia. CSER, Roma, 1999; Paganoni A. Coulbourne P., No Weary Feet. The History and Development of Mission Work among Italian Migrants in Australia, CSER, Roma, 2005. 
[14]https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/mons-giovanni-cani-john-cani-vescovo-di-rockampton/Era Con il nunzio apostolico cominciò a essere forte la resistenza alla nomina di vescovi che non fossero irlandesi. Solo nel mese di maggio del 1937, Mons Panico consacrò nella cattedrale di Santa Maria il primo arcivescovo australiano della Chiesa Cattolica, mons. J. Simonds. 
[15]https://donboscoitalia.it/rosignano-monferrato-e-mons-ernesto-coppo-apostolo-dei-tre-mondi/#:~:text=Giovanile,anche%20in%20Italia. 
[16] Valli D., Emigrante per Amore. Il Cardinale Giovanni Panico da Tricase a Sydney (1895-1948), Congedo Editore, Tricase, 1998. 
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Tabelle statistiche
Espatriati dall’Italia in Australia: 1940- 2014
ANNI
Espatri
Anni
Espatriati
1940
415
1980
1.576
1941
0
1981
1.821
1942
0
1982
1.686
1943
o
1983
1.398
1944
0
1984
1.282
1945
1985
1.243
1946
4
1986
1.053
1947
50
1987
1.084
1948
2.047
1988
880
1949
10.939
1989
758
Subtotale 1940-1949
13.455
Subtotale 1980-1989
12.781
1950
13.516
1990
1.103
1951
17.453
1991
918
1952
26.802
1992
835
1953
12.865
1993
886
1954
16.960
1994
748
1955
27.689
1995
579
1956
25.631
1996
583
1957
17.003
1997
424
1958
12.375
1998
567
1959
14.149
1999
567
Subtotale 1950-1959
184.443
Subtotale 2000-2009
7.210
1960
19.606
2000
487
1961
16.351
2001
469
1962
14.406
2002
262
1963
11.535
2003
405
1964
10.888
2004
511
1965
10.320
2005
622
1966
12.523
2006
813
1967
13.667
2007
612
1968
14.505
2008
686
1969
8.740
2009
670
Subtotale 1960-1969
132.541
Subtotale 2010-2015
5.537
1970
6.362
2010
661
1971
6.128
2011
893
1972
4.435
2012
1.339
1973
3.419
2013
1.556
1974
3.773
2014
1.770
1975
2.531
Subtotale 2010-2014
6.219
1976
2.709
1977
1.946
1978
1.989
1979
1.546
Subtotale 1970-1979
34.
838
Totale 1940-2014
397.024
FONTE: Centro Studi e Ricerche IDOS. Elaborazioni su dati Istat
 

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Franco Pittau, dottore in filosofia, è studioso del fenomeno migratorio fin dagli anni ’70, quando ha condotto un’esperienza sul campo, in Belgio e in Germania. È stato ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario del genere realizzato in Italia). Già responsabile del Centro studi e ricerche IDOS (Immigrazione Dossier Statistico), continua la sua collaborazione come Presidente onorario. È membro del Comitato organizzatore del Master in Economia Diritto Intercultura presso l’università di Roma Tor Vergata e scrive su riviste specialistiche sui temi dell’emigrazione e dell’immigrazione.  
Silvano Ridolfi, recatosi nel 1955 a Francoforte come missionario per gli emigrati italiani, qui divenne nel 1960 direttore del “Corriere d’Italia” e nel 1966 direttore prima e poi delegato dei missionari italiani in Germania e Scandinavia fino al 1971. Rimpatriato nel 1973 dopo un biennio di studi a Lovanio, fu prima vice direttore e poi direttore (1979-1988) dell’UCEI, ufficio CEI, diventato poi Fondazione Migrantes, di cui fu inizialmente direttore della pastorale per gli emigrati. Sempre molto attento alla stampa pastorale, nel 1979 fondò l’agenzia “Migranti-press”. Ritornato nella sua diocesi di Cesena e nominato parroco-arciprete di Cesenatico, ha continuato a seguire i fenomeni migratori dedicandosi a diverse pubblicazioni e mettendo a disposizione la sua memoria storica per ricostruire l’evoluzione delle Missioni Cattoliche Italiane.

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