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Giuseppe Pitrè, cento anni dopo. Alcune considerazioni sulla narrativa di tradizione orale

 Giuseppe Pitrè

Giuseppe Pitrè

di Orietta Sorgi

A voler ripercorrere, con uno sguardo trasversale, la monumentale opera di Giuseppe Pitrè, in occasione del centenario della sua morte, emergono con insistenza alcuni elementi innovativi del suo pensiero che saranno in seguito sviluppati e sistematizzati dalle moderne scienze antropologiche. Vero è che il grande demologo palermitano è naturalmente figlio del suo tempo, protagonista attivo di quella stagione romantico-risorgimentale e non estraneo a una certa visione paternalistica nei confronti del popolino minuto: inteso non nel ruolo subalterno di una società stratificata in classi, ma come un’entità indistinta di popolo-nazione contrapposta allo straniero oppressore.Tuttavia, già a partire dalle prime raccolte sui canti popolari siciliani, che più risentono dell’accezione romantica, nella sopravvalutazione del sentimento popolare contro il carattere dottrinario della poesia colta, si intravede la possibilità di un superamento dell’opposizione materia/spirito, punto cardine della filosofia idealistica, anche nell’approccio ai fatti popolari.

A differenza dei suoi predecessori e contemporanei, lo studioso, nel definire il canto, non pare tanto interessato alle origini, siano esse dotte o popolari, orali o scritte, nè all’autorialità del fenomeno, quanto alle ragioni della sua diffusione e del perché un determinato tipo e non un altro, attecchisca e si diffonda di bocca in bocca presso il popolo.

«se il popolo conoscesse l’autore d’una canzona non la imparerebbe, peggio se roba di persona dotta. Il quando e il dove nasca un canto se non si deduce da qualche suo accenno, non può indovinarsi; il canto di uno solo diventa canto di tutti perché nascendotrovossi nelle condizioni più favorevoli a lunga esistenza; rimane poi perché risponde agli affetti naturali, ai costumi, alle tradizioni del popolo. Un bel giorno, in mezzo a una piazza cittadina o nel fondo oscuro de’ campi, si alza una canzona non mai fino allora ascoltata. Chi l’ha fatta? Chi ha potuto farla? Nessuno lo sa, nessuno cerca saperlo: l’autore rinunzia volentieri alla compiacenza di essere conosciuto come poeta: il popolo, che ne rispetta la modestia, ne premia il merito col ritenere per sé, col tramandare agli altri simili canti. Se trattasi di un vero canto del genere de’ rispetti, il popolo presto lo impara senza menarne scalpore: e se in qualche circostanza ricordata in quello non gliene fa riconoscere la recente fattura, ei lo mette nell’archivio degli antichi, e non ne parla dell’altro. Ma col ripeterlo, col cantarlo, col passarlo di bocca in bocca, da questo a quel paese, dalla montagna alla marina, dal campo al mercato, rispettandone l’essenza, le tradizionali verità e la natura, e’ lo va leggermente ritoccando nella forma, che qualche volta piglia colori locali»  (Pitrè 1870, n.e. 1978: 11-12).

                                                                                                                                                                 Laddove non vi è mai una particolare attenzione in chiave deterministica dei fattori economici e sociali e dunque dei rapporti di classe fra il popolo e i dominanti, viene di fatto individuata la vera ragione del canto nelle occasioni e nelle concrete funzioni che assolve in rapporto ad una condizione contestuale di mestiere e di lavoro: a la furnarisca, a laviddanisca, a la vicariota e così via.

La definizione di una metodologia di lavoro nella fase di raccolta e classificazione dei dati, diviene più esplicita nei volumi successivi, a partire dalle quattro raccolte di fiabe, racconti e novelle popolari, del 1875, in cui lo studioso definisce in apertura i suoi informatori con due connotazioni di base: la loro appartenenza al «popolo minuto e privo affatto d’istruzione» e la scelta dei narratori all’interno dell’universo femminile. «Tutte le tradizioni che si contengono ne’ presenti quattro volumi sono state raccolte da me e da amici miei in Palermo e ne’ vari comuni della Sicilia; ogni cosa dalla viva voce del popolo minuto e privo affatto d’istruzione…» (I: XVI – XXIV).

La raccolta dei testi può avvenire dunque in vari modi, dal contatto diretto con gli informatori delle fonti orali, raccolti direttamente dallo stesso ricercatore, a quelli di seconda mano recuperati dai suoi più diretti collaboratori, ad altri di terza e quarta mano che gli arrivano da amici, parenti e conoscenti. Così facendo, il Nostro riesce a istituire su tutto il territorio insulare una rete capillare di informatori che gli consente, anche attraverso una fitta corrispondenza, il monitoraggio costante di tutta la vita e la cultura popolare nei suoi vari aspetti.

 Giuseppe Pitrè

Giuseppe Pitrè

Tramite la rivista, Archivio per lo studio delle tradizioni popolari e l’epistolario, Pitrè raccomanda inoltre ai collaboratori alcuni principi essenziali della raccolta, e cioè quello soprattutto di cogliere al volo la parola del narratore e di stenografarla per riportarla tale e quale nella trascrizione, non trascurando quell’insieme di gesti e atteggiamenti, espressioni che insieme alle voci costituiscono un prezioso corredo informativo non verbale.

In tale direzione si muove anche l’impegno a conservare il dialetto come lingua parlata viva, in uso e non sopravvivenza del passato, che si coniuga di pari passo con la necessità di trascrivere e «salvare l’immenso tesoro del popolo siciliano», dove tesoro sta appunto per patrimonio, o eredità intangibile come diremmo oggi. In questa particolare cura delle parlate locali e nella necessità di proteggerle e salvaguardarle, sollecitando anche la scuola e gli insegnanti a costruire e non dissolvere, privilegiando solo la lingua dotta, quella scritta, artificiosa e costruita, si coglie il rapporto, sempre costante, fra storia e tradizione vivente, recupero del passato nel presente.  L’autore non esclude il confronto con le antichità, anche quelle più remote, trasmesse attraverso le fonti scritte, gli archivi, ma le recupera attraverso il filtro del divenire, che si coglie osservando il vissuto del popolo siciliano.

Uno dei tratti più illuminanti del suo approccio, è quel continuo oscillare, secondo Cirese, fra storia locale e antropologia, fra ricerca del particolare e larghe deduzioni sistematiche. Pitrè agisce pur sempre mosso dal tentativo salvifico di una cultura su cui era urgente intervenire per «fissare il ricordo» e su cui riesce a cogliere tutti gli aspetti di un organismo interrelato che appare come un sistema, ma anche come un processo: a ben ragione Giuseppe Galasso, nella prefazione a Cartelli e pasquinate, canti, leggende, usi del popolo siciliano, parla di influenza maussiana nella concezione del folklore come fatto sociale totale. Il punto di vista sincronico che vede nella cultura siciliana un tutto organico di elementi interdipendenti e lo sguardo diacronico sul dinamismo storico, si fondono in una chiave assolutamente moderna e anticipatoria.

Questa visione trasversale e totalizzante della cultura popolare siciliana, comporta la compresenza di due punti di vista, dettati da un lato dal coinvolgimento emotivo del proprio vissuto personale e familiare, dall’altro dalla necessità di pervenire a conclusioni scientifiche col ricorso al metodo comparativo. Risalta, in primo luogo, l’ambiente marinaro del Borgo S. Lucia dove Pitrè nacque e visse a stretto contatto con la povera gente e dove svolse successivamente la sua professione di medico nella relazione con tanti pazienti, divenuti poi i suoi informatori privilegiati, anticipando per molti versi quella tecnica dell’osservazione partecipante cui gli antropologi del Novecento si rifaranno nelle loro pratiche etnografiche nei confronti dell’alterità. Infine, le figure fondamentali della sua infanzia, la balia, quell’Agatuzza Messia che lo ebbe fra le braccia, intrattenendolo con tutti i racconti che entreranno a far parte del corpus favolistico; poi, Rosa Brusca, la tessitrice divenuta cieca e la Gnura Sabedda, domestica della famiglia Guggino di Vallelunga, tutte riferibili all’orizzonte esistenziale e alle memorie personali dello studioso.

Su un altro piano, come si è detto, l’esigenza di inserire le tradizioni locali nel vasto panorama della mitologia comparata di Müller e dell’evoluzionismo antropologico di Tylor. Pur nell’adesione formale al concetto di sopravvivenza, da cogliere e registrare come stadio di civilizzazione nella scala evolutiva dei popoli comparati, è nel recupero della storicità locale di una cultura che consiste l’originalità del suo pensiero.

Di fatto – come fa notare Aurora Milillo nella prefazione a Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani – la classificazione adottata da Pitrè non si discosta sostanzialmente da quella che circa cinquant’anni dopo costituirà il punto di riferimento internazionale per la repertorializzazione della narrativa di tradizione orale e cioè l’indice dei Tipi di Aarne e Thompson. Tale metodo, ricordiamo, per quanto criticato aspramente da Propp come non scientifico, in quanto rivolto ai contenuti empirici degli intrecci e delle trame, e non su forme e funzioni, resta tuttoggi il punto di riferimento principale adottato per l’ordinamento delle fiabe e dei racconti. E Giuseppe Pitrè, continua ancora la Milillo nella medesima sede, da solo e alle prese con un immenso corpus favolistico, più di 400 novelle, anticipava i metodi che più tardi saranno propri di una scuola efficiente e organizzata come quella finnica.

Agatuzza Messia in una foto Alinari

Agatuzza Messia in una foto Alinari

Da un lato la classificazione generale di una materia narrativa che gli consentirà il confronto e comparazione con altri repertori italiani e internazionali; dall’altro l’adesione – a volte non esplicita – a contenuti dei racconti che finiscono col rivelare problematiche locali strettamente legate alla storia siciliana di fine Ottocento. Emblematiche sono, in questo senso, tutte quelle fiabe che assumono come protagonisti monache, preti e frati. Si tratta il più delle volte di componimenti a carattere satirico e grottesco in qualche caso, in cui i religiosi vengono derisi, puniti e comunque rappresentati in modo diametralmente opposto all’immagine ufficiale che dovrebbero assolvere nella società. Laddove i sacerdoti della Chiesa sono chiamati a svolgere una funzione di ordine spirituale, nel racconto divengono portatori di caos e illegalità. Le loro azioni sono il più delle volte trasgressive, turbano gli equilibri sociali, attentando sia ai beni materiali, la robba, sia all’onore, valore centrale della famiglia siciliana tradizionale.

Si tratta di una documentazione che rimanda essenzialmente ad una società contadina di tipo arcaico, che in Sicilia si è protratta fino alle soglie del secondo dopoguerra e con notevole resistenza rispetto al Settentrione d’Italia. Qui il monaco, come il prete, è considerato un potere estraneo al proprio universo, un antagonista. Non potrebbe essere diversamente se si riflette sulla dura condizione dei contadini in Sicilia, impegnati con ogni sforzo e fatica nella lotta quotidiana per garantirsi i mezzi di sussistenza. Di fronte a tale miseria e a tanta precarietà esistenziale, il monaco è visto come colui che non soltanto si sottrae alla fatica dettata dal bisogno per dedicarsi all’ozio, ma come un parassita che con la questua chiede ai poveretti senza dare nulla in cambio. Nel corpus di cunti trascritti da Pitrè, pur nella diversità dei singoli intrecci narrativi, sono ricorrenti una serie di motivi comuni, primo fra tutti quello del monaco truffaldo, che agisce solo per vantaggio personale a danno della povera gente. È il caso del famosissimo Lu scarpareddu mortu di fami (vol. 1: 265-270), privato con l’inganno di alcuni monaci, di quell’oggetto che la Sorte, nel ruolo proppiano di Aiutante magico, gli aveva offerto come risoluzione alla miseria. In lu scarparu e li monaci (vol. 3: 223-224), i religiosi arrivano a derubare un porcello, unico mezzo di sostentamento del protagonista, in altre versioni, sono raffigurati addirittura come membri di una cosca, dediti al furto di bestiame.

Il più delle volte, in generale, il prete assolve, come nel trickster, il ruolo del burlone, autore di beffe a danno dei fedeli: in Lu parrinu e li cumpara picurara (vol.3: 301-304), il prete, complice la domestica, si diverte ad invitare i poveri fedeli affamati per poi lasciarli a bocca asciutta in nome di Gesù Cristo. Non di rado le beffe e gli inganni rivestono carattere erotico: il monaco è raffigurato come il seduttore dongiovanni, lo stuzzica mugghieri, che insidia le donne coniugate, ostentando senza pudore le proprie capacità amatorie.Ne Li due cumpari (vol. 3: 280-285), il protagonista, sospettoso della relazione della moglie con un prete, si nasconde in una cesta, aiutato dal compare che lo trasporta a casa dove, scoperta la moglie con l’amante, esce dal nascondiglio e li bastona entrambi. Stesso motivo in Frà Ghiniparu (vol. 3: 249-254), dove il marito, offeso dal tradimento, punisce gli adulteri rovesciando sul prete l’acqua bollente della pentola della pasta.

Un motivo ricorrente in altri racconti è quello del monaco “tistuni”, testardo e ostinato fino alla stupidità, una stupidità che, come spesso accade nella narrativa orale, si converte in astuzia, a scapito dei superiori: il riferimento allo stolto-furbo Giufà è fin troppo evidente. In questi casi i nostri protagonisti occupano i ruoli più bassi della gerarchia ecclesiastica: nel popolare racconto Cù la voli cotta e cù la voli cruda (Fiabe e leggende: 437-438) il frate cuciniere, stanco delle continue proteste dei superiori sulla cottura della pasta, stabilisce a suo piacere tempi diversi, portandola a tavola stracotta e crudissima al tempo stesso.

 G. Pitrè e un ambulante

G. Pitrè e un ambulante

In altre occasioni il frate è il classico ingordo crapulone, rivolto, più che a una tensione mistica, alla sfera del basso materiale corporeo (Bachtin 1979): in Lu Burgisi e lu pridicaturi (vol.3: 305-307), quest’ultimo è descritto come pigro e profittatore, ma anche pavido senza ritegno, a tal punto da fuggire a gambe levate quando la moglie del devoto, stanca di dover continuamente preparare lauti banchetti per il religioso, gli fa credere che il marito ama collezionare gli occhi dei suoi ospiti.

Sembrerebbe così che non sul piano della prassi ma su quello narrativo, i ceti popolari operino una sorta di riscatto simbolico da un secolare antagonismo, garantendosi nel racconto un proprio spazio e una propria giustizia sociale. L’ordine gerarchico che nella realtà subiscono sotto un peso schiacciante, è finalmente capovolto: chi nella scala sociale occupa posizioni di vertice, nel testo viene abbassato, profanato e i motivi di risentimento si risolvono nell’instaurarsi di un tempo mitico, un mondo alla rovescia dove i poveri sono ricchi e viceversa.

E così malgrado l’avvio realistico messo in luce da Italo Calvino a proposito di quello stato di mancanza o di vero e proprio danneggiamento che caratterizza l’esordio delle fiabe siciliane, l’esito si configura pur sempre come momento di ricomposizione dell’equilibrio, catarsi, esorcizzazione del negativo: l’antagonista è finalmente punito, il poveraccio può finalmente godere di una certa serenità, il marito tradito ha riscattato il suo onore.

Il corpus narrativo di Giuseppe Pitrè, al di là dei contenuti fortemente realistici e storicizzati, sembrerebbe confermare, in ultima analisi, la «funzione astratta e magica della favola di magia, risolutrice a livello fabulatorio metastorico di qualunque situazione critica esistenziale, della concretezza e della realtà vissuta dal protagonista» (Milillo 1982: 13).

Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
 Riferimenti bibliografici
 Bachtin, Michail  1979, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, trad. italiano, Torino, Einaudi
Calvino, Italo 1956, Introduzione a Fiabe italiane, Torino, Einaudi: XV-XXXIX ; 1973    La tradizione popolare nella fiaba, in «Storia d’Italia», vol.5, Torino, Einaudi: 1253-1267
Cirese, Alberto M.  1968, Giuseppe Pitrè fra storia locale e antropologia, in Atti del convegno per il 50° anniversario della morte di Pitrè, Palermo: 20-30
Galasso, Giuseppe 1978,  prefazione a Cartelli, pasquinate, canti, leggende, usi del popolo siciliano, n.e. a cura di A.Rigoli, Palermo, ed. Il Vespro
Milillo, Aurora 1982,  prefazione a Fiabe, novelle e racconti siciliani, n.e. diretta da A. Rigoli, Palermo, Edikronos
Pitrè, Giuseppe 1978, Canti popolari siciliani, 2 voll.n.e. a cura di A. Rigoli, prefazione di G.Battista Bronzini, Palermo, ed. Il Vespro;
1978,    Fiabe e leggende popolari siciliane, n.e. a cura di A. Rigoli, prefazione di R. Cedrini, Palermo, ed. Il Vespro;
1982,   Fiabe, novelle e racconti siciliani, 4 voll., n.e. diretta da A. Rigoli, prefazione di A. Milillo, Palermo, Edikronos
Propp, Vladimir JA. 1966, Morfologia della fiaba, a cura di Gian Luigi Bravo, con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una replica dell’autore, Torino, Einaudi
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, lavora presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, dove è responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006) e Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015).

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