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Gaza, da tranquilla cittadina di provincia a capitale di uno “Stato-canaglia”?

Da One more jump (ph. Emanuele Gerosa)

Gaza, da One more jump (ph. Emanuele Gerosa)

di Vincenzo Meale 

Striscia di Gaza, una striscia lunga circa 41 km e larga in media meno di 10 km. 14 maggio 1948: finisce il mandato inglese sulla Palestina e Ben Gurion proclama la nascita dello Stato d’Israele. Scoppia la guerra, che finisce con conquiste territoriali da parte israeliana e relativo sfollamento più o meno spontaneo di molti palestinesi. La striscia di Gaza, sfuggita all’occupazione israeliana grazie all’arrivo dell’esercito egiziano, vede affluire ben 250 mila profughi che sconvolgono l’assetto demografico preesistente diventandone la componente maggioritaria: secondo il calendario Atlante De Agostini dell’epoca la striscia su 378 kmq (per avere il senso delle dimensioni del territorio basti dire che è poco meno esteso del comune di Enna e poco più di quello di Olbia) nel 1966 aveva già 440 mila abitanti (nella stessa epoca Enna aveva circa 28 mila abitanti e Olbia meno di 19 mila) [1].

Nel 1967 si scatena di nuovo la guerra e alla fine anche la Cisgiordania e Gaza vengono occupate dagli israeliani. Gaza passa sotto controllo israeliano con meno di 360 mila abitanti (la notevole diminuzione fa pensare che molti avessero ripreso la fuga verso l’Egitto o fossero morti), ma l’alto tasso di natalità fa sì che già nel 1983 la popolazione risalga a 493.700 abitanti, e negli anni successivi continua a crescere, tanto che lo scorso anno, prima dell’attuale tragedia, la popolazione era stimata a circa 2.200.000, di cui 1.700.000 registrati come profughi (la stragrande maggioranza, quindi, profughi fin dalla nascita!).

Per favore, ora tornate a guardare le dimensioni precedenti per capire appieno la tragedia! Anzi vi aggiungo un confronto nuovo: una superficie corrispondente a un terzo di quella del comune di Roma con una popolazione corrispondente a due terzi di quella di Roma! Senza le risorse economiche di una grande e doppia capitale e senza i proventi dell’attrazione turistica.

gaza2_page-0001Nel frattempo però la situazione politica era cambiata: gli accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (1993) avevano prodotto il ritiro, ai primi di maggio dell’anno successivo, dell’esercito israeliano dai centri abitati della striscia (restava a controllare i nodi stradali extraurbani e l’accesso agli insediamenti dei circa 6000 coloni israeliani che nel frattempo si erano infiltrati) [2]. Ma ben presto la situazione si complica perché nel novembre del 1995 il primo ministro israeliano Rabin, autore degli accordi di pace con l’OLP, resta vittima di un attentato (voi direte: i soliti terroristi palestinesi! Ma sbagliereste: il terrorista di turno era un ebreo che rimproverava al suo governo di regalare troppo al nemico). Invece di accelerare il processo di pace il governo israeliano va a elezioni anticipate che premiano proprio i partiti di destra che avevano osteggiato le scelte precedenti, e diventa capo del nuovo governo un certo Netanyahu che fa così la prima esperienza …

Nel 2005 il governo israeliano ordina il ritiro dell’esercito dalla striscia accompagnato dal ritiro, anche con la forza, dei coloni che vi si erano insediati (probabilmente avendo capito che l’alta densità demografica avrebbe reso impossibile la politica della trasformazione etnica mediante i coloni) e l’anno successivo le elezioni a Gaza, a differenza del resto della Palestina, vengono perse da Fathà (il partito di Arafat, morto pochi mesi prima) e vinte da Hamas, provocando un inasprimento dell’isolamento, divenuto totale nel 2013 col colpo di stato in Egitto [3] giacché i militari golpisti considerano Hamas troppo vicino ai Fratelli Mussulmani egiziani, eletti ma poi deposti e arrestati con il golpe.

locandina270110-2_page-0001Ecco come si arriva alla trasformazione di Gaza in un campo di concentramento: i palestinesi potevano fare quel che volevano nella striscia ma per uscirne dovevano avere l’autorizzazione israeliana, e per un apparente paradosso è stato più facile avere permessi per andare a lavorare in Israele (pagati molto meno dei colleghi israeliani, con in media un quarto dei salari normali) che avere permessi per ricongiungimenti familiari con parenti della Cisgiordania. Si calcola che per decenni circa metà della forza lavoro della striscia abbia svolto attività in Israele senza sconvolgimenti. Questo flusso però è stato drasticamente ridotto dal 2000, togliendo l’autorizzazione a circa 120 mila lavoratori, in seguito allo scoppio di quella Intifada (qualcuno ricorderà di aver visto in tv i ragazzi che con le fionde cercavano di prendere a sassate i soldati israeliani schierati al di là della recinzione).

Ma, voi direte, la striscia ha il mare, quindi perché non incrementare la pesca? Sì, la pesca, ma non oltre le poche miglia dalla costa concesse dalla marina israeliana. Per giunta uno dei primi bombardamenti dell’attuale guerra è servito a distruggere il porto (inclusi i lampioni a energia solare che avevamo fornito una decina di anni fa). Dal mare potevano arrivare aiuti dall’estero? No. L’hanno dimostrato le “flottiglie della pace” che per alcuni anni hanno tentato di forzare il blocco israeliano per rivendicare il diritto alla libertà di navigazione e per portare rifornimenti donati da una miriade di realtà sociali, fin quando non vi sono “scappati” i morti in seguito all’arrembaggio delle forze speciali israeliane a una nave turca che rifiutava di invertire la rotta.

All’epoca la libertà di navigazione, oggi rivendicata nel Mar Rosso, non sembrava interessare i nostri governi. Restavano gli aiuti che diversi governi fornivano tramite l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’assistenza ai rifugiati palestinesi (UNRWA), organizzazione che ora il governo israeliano tenta di smantellare con l’accusa di terrorismo perché asserisce di avere le prove che 12 palestinesi impiegati nell’organizzazione avrebbero partecipato all’aggressione del 7 ottobre. 12 su 12000 dipendenti! E naturalmente il nostro governo si è subito adeguato e mi par di capire che i soldi destinati ai profughi palestinesi siano stati dirottati a finanziare il famoso “piano Mattei” in Africa.

Giovanni Franzoni

Giovanni Franzoni

In quest’ultimo mese si è tornato a parlare di ospedali, non per mettere in risalto la crisi sanitaria, ma per comunicare la cattura all’interno di quello di al-Shifa, il principale ospedale del capoluogo, di tanti uomini di Hamas. Ieri, 1 aprile, l’AGI (Agenzia giornalistica Italia) comunica “L’ospedale al-Shifa di Gaza City, il più grande dell’intera Striscia, è completamente fuori servizio dopo due settimane di operazioni militari da parte dell’esercito israeliano nella zona e nei suoi dintorni”. Penso ad amici che non ci sono più e che tanto tempo e denaro avevano dedicato per migliorare le attrezzature mediche del reparto di cardiologia di quell’ospedale.

Gaza, distrutto il polimambulatorio

Gaza, distrutto il poliambulatorio

Una quindicina d’anni fa infatti, di fronte al dramma dei palestinesi della striscia, avevamo avuto l’idea di fornire un piccolo aiuto a quell’ospedale dotando il reparto in questione di autonomia energetica in modo da non dipendere dai rifornimenti di carburante che potevano avvenire solo col consenso israeliano e quindi essere interrotti in qualsiasi momento. Il preventivo dell’opera era di 95.000 € e mettemmo in campo tante iniziative per raccoglierli, a cominciare da Giovanni Franzoni, l’ex abate di S. Paolo fuori le mura costretto nel 1973 a dare le dimissioni per non dover censurare preventivamente le “preghiere dei fedeli” dopo che un ragazzo aveva avuto l’impudenza di pregare per la fine dello IOR, la tanto discussa banca vaticana, durante la messa domenicale da lui presieduta. E Giovanni, che certo non nuotava nell’oro, ci mise un oggetto che oltre il valore commerciale, aveva anche un valore affettivo: l’anello vescovile donatogli da Paolo VI al momento della conferma dell’elezione ad abate nullius, cioè di livello vescovile (partecipò anche alle fasi finali del Concilio). E di Paolo VI Giovanni ha sempre conservato un buon ricordo considerandolo un buon papa.

Ebbene quell’anello (d’oro, tutto sbalzato a mano, con al centro un’ametista e 18 brillantini e, incisi, rami di palma a ricordo del giorno in cui glielo aveva messo al dito: la domenica delle palme del 1964) lo aveva messo a disposizione già nel 2006 per un progetto del FOCSIV (Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana) che riguardava un poliambulatorio del campo profughi di Jabalia, sempre a Gaza, e che però non era andato in porto, per cui ora lo metteva in palio, in una lotteria da 50 euro a biglietto, per finanziare il nuovo progetto. E ora vengo a sapere che tutto è andato distrutto. Dovremo cominciare da capo… se saremo ancora vivi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024 
Note
[1] Annuario generale, comuni e frazioni d’Italia, 1968, Touring Club Italiano Milano.
[2] Stato del mondo 1995, Il Saggiatore. Altre fonti danno numeri diversi della presenza di coloni oscillando tra più di 5000 a meno di 8000.
[3] Lo scorso anno, in occasione del decimo anniversario del colpo di stato in Egitto, la rivista Nigrizia, edita dai missionari comboniani, scriveva: «Il 3 luglio venne deposto il primo presidente eletto, Mohammed Morsi, esponente della Fratellanza musulmana. Da quel momento migliaia di persone morte in piazza o in carcere. Gli arresti arbitrari sono stati la regola. Ancora oggi il dissenso è silenziato»
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Vincenzo Meale, laureato in Scienze Politiche, per trenta anni ha insegnato geografia economica negli Istituti tecnici commerciali e professionali per il commercio. Partecipa da sempre alla vita della comunità cristiana di base di San Paolo, di cui è stato uno dei fondatori assieme all’abate Franzoni e a tanti altri.

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