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Fantasmi, complici e compagni, eroi di famiglia

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Foto dall’album della famiglia Lojacono

di Flavia Schiavo

Lo Zio d’America

Avevo circa 16 anni quando, dopo aver ascoltato da mio padre, dalla nonna paterna e dagli altri zii, le sue straordinarie imprese (una mescolanza tra verità ed esagerazione, che rimandava a una versione tremendamente cool del Barone di Münchausen), incontrai lo Zio d’America, il mio personale must letterario, Ferdinand, al secolo Ferdinando Sesti Lojacono. Era sbarcato in Sicilia per salutare i parenti e gli amici di infanzia (i pochi rimasti), dopo un lungo viaggio in nave; lungo e proficuo: da perfetto self made man, incapace di stare con le mani in mano, ma niente affatto venale, aveva organizzato sul Transatlantico, che lo condusse da New York a Palermo, una mostra di alcuni suoi lavori a carboncino.

Non era giunto per un semplice saluto, ma per l’ultimo addio. Ferdinand, che aveva 78 anni, era malato, e fu l’ultima volta. Dopo quei giorni in terra natale, tornò in California – dove si era stabilito nel 1964, alla fine di un’appagante vita americana, tra NYC, Pittsburgh e la sua last stop, Covina (città della Contea di Los Angeles) – per morire, forse da solo.

Lo zio Ferdinando non era un migrante come tanti, di quelli narrati nei romanzi, partiti con la valigia di cartone mezza vuota, con il volto segnato, trasferiti per fame o disperazione negli States. Di certo quando lasciò Palermo non aveva le tasche gonfie di danari, non aveva la strada spianata e, con un incipit incerto, visse alcuni giorni bui.

Ma dalla sua aveva una proverbiale strafottenza (che alcuni di noi in famiglia hanno felicemente ereditato), unita a una sensibilità tutt’altro che melensa, un’indiscussa genialità (e mi piacerebbe ribadire “che alcuni di noi hanno felicemente ereditato”), un mucchio di talenti, una gran cultura, un’espressività caratterizzata da un impeccabile understatement style, e una sottile ironia che lo poneva tra lo status del rampollo spiantato e dello snob incallito. Un Eroe, insomma.

30d48626-7c4a-4b1c-aec3-459b7b1b94cfDopo queste sintetiche affermazioni potrei archiviare la questione, e rimandare al libro: F. Sesti Lojacono, «Lettere dall’America 1930-1932», a cura di F. Schiavo e M. Schiavo (Torri del Vento edizioni, Palermo 2020).

Il volume, curato da Maurizio Schiavo e da me (entrambi pronipoti), raccoglie deliziosi, acuti, sorprendenti scritti, short sketches from life, bozzetti, racconti di costume, che il Giornale di Sicilia pubblicò durante gli anni ‘30, in una rubrica settimanale chiamata «Lettere dall’America. PICNIC». Tutto questo, mentre l’Italia viveva una stagione disastrosa, tra dittatura e cataclismi economici e l’America era immersa nella nerissima Great Depression del ‘29.

Quando lo incontrai a Palermo, nel 1978, vissi quell’esperienza come una bimba davanti a una epifania luminosa: preceduto da una miriade di racconti, l’uncle Ferdinand arrivava da lontano, e portava con sé “l’America” che era per me, insieme, fuga, romanzo, trasgressione, arte, cinema, musica, mega-metropoli e architettura. Era, soprattutto, “contemporaneità”, una tra le più belle parole del Dizionario. Un’America distante, percepita sottilmente, con gli occhi inconsapevoli e ribelli dell’adolescenza, come un “altrove” sommerso, reso tangibile dall’arrivo di questo alieno fascinoso, la cui figura era ammantata di leggenda.

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Park Avenue and 39th Street (ph. Berenice Abbott, dalla New York Public Library collection)

I miei ricordi della breve permanenza del nostro eroe familiare – quella volta restò a Palermo non troppo – sono indelebili, e non solo perché io ascoltassi la narrazione delle sue avventure giovanili. Grande affabulatore, finemente beffardo – aveva portato con sé le sue «Lettere dall’America», trascritte con una “Olivetti Lettera 32”, vergate in “FONTLAB30:TTEXPORT” [1] – raccontava dei suoi primi giorni sconclusionati alla ricerca di un’occupazione a New York (dove aveva insegnato latino; imbalsamato una vecchia italo-americana, assunto occasionalmente da un becchino; disegnato vignette pubblicitarie per un venditore ebreo di pellicce…); riferiva della conquistata serenità economica di uomo sposato e di successo in puro american style, fin dagli esordi come pubblicitario [2] a Pittsburgh per uno dei maggiori impresari statunitensi del settore, Mr. Edgar J. Kaufmann, proprietario del Kaufmann’s Department Store o mentre narrava dei suoi incontri  di lavoro con Frank Lloyd Wright, affermando sia che questi  fosse dotato di un certo qual caratteraccio, sia che fosse oggetto di “sfottimento” perché piccolo di statura. In altre parole mi mostrava un lato inedito delle cose, un cambio di prospettiva che egli rendeva percepibile, rivelando un metodo per indagare, oltre gli stereotipi, la polifonia urbana e culturale, come fosse un racconto cinematografico o una sinfonia di Gershwin.

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“My american car”, foto di Ferdinando Sesti Lojacono inviata ai parenti dall’America

Emergevano toni e semitoni, istantanee e lampi della modernità, eventi e soggetti, che avevano fatto la storia del Novecento, ricondotti all’umano. Kaufmann, il committente della “casa sulla cascata” (The Fallingwater, 1936-39), una delle più importanti architetture del Novecento, era stato il boss di mio zio, e il grande FLW, era tratteggiato da Ferdinando come “umorale”, piuttosto che unicamente come un grandissimo Maestro, e come proclive a progettare soffitti e parapetti bassi solo perché non fosse imponente di statura.  Statue e Icone trasformate in carne e sangue.

Era vero? Poco importa: gli idoli prendevano forma, con le loro debolezze, e gli avvenimenti della storia assumevano vitali trasparenze e sfumature.

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Ferdinando Sesti Lojacono nel 1930

Oltre ad essere colpita da quei racconti che toccavano in me corde profonde ­– ho studiato architettura e sono diventata urbanista, ho lavorato sulla narrazione e sui testi per scovare il quotidiano, forse pure per le suggestioni di quei giorni ­– ciò che centrò il mio immaginario fu il sedimento, il palinsesto più intimo. Guardavo un uomo che sapeva del mondo, scrutato da un altrove; che rideva delle circostanze della vita, senza alcuna superficialità o stoltezza; che prendeva in giro gli “imbecilli”, sorridendo all’esistenza malgrado fosse rimasto vedovo da poco, benché avesse un rapporto incerto con il figlio, rimasto negli States, e nonostante fosse malato, pronto per andare in un risolutivo altrove, questa volta senza ritorno.

Osservavo un uomo colto, elegante, chic con i suoi “dicky bows”, snob e alla mano, niente affatto tronfio, per nulla umile. Una persona che, tra sensibilità e rigore (mai pedante), umanamente irrisolto (forse), modulava la sua esistenza schioccando i pollici, a ritmo jazz e canticchiando il suo motto scandito, paradossalmente, avendo acquisito un inglese perfetto, in slang nativo: “futtitinni” (“che t’importa? fregatene”), sostenendo che questo fosse il sottotesto, una bizarre subtextual image, che lui udiva durante i viaggi in treno.

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Ferdinando Sesti Lojacono da bambino

Generoso e proattivo, mi mostrò un frammento del “mestiere” di urbanista, la sintesi tra parola e immagine, quando gli chiesi quanto fosse grande Los Angeles: con la misurata energia di un calligrafo e con un Pantone Reflex Blue [3], punta a scalpello, che faceva parte del corredo, gli attrezzi, che portava con sé (insieme a matite, acquerelli, carboncini…), tracciò un perimetro che andava da Enna a Trapani sino a Cefalù, su una mappa stradale della Sicilia. Appariva concreta, posta in relazione con ciò che per me era noto (la mia Regione), l’immagine di una città lontanissima non solo geograficamente, ma semanticamente. Una dimensione chiarificata che portava in sé il germe delle metropoli che da adulta avrei indagato.

Che dire…  Era contraddittorio? Dissociativo? Bugiardo? Oscillante tra un’estrema costitutiva endogena raffinatezza e il suo “futtitinni”? No. Ferdinando era semplicemente adorabile, profumava di famiglia, era fuori dai canoni, e rendeva esplicito quanto una corrente profonda innervi un intero nucleo familiare. In esso, per quanto disperso, si rintracciavano le comuni radici del futuro. Lo zio, dunque, stava nella sua pelle come pochi, era mitico, laico, irridente, onesto ma malandrino e, dovunque egli sia, spero che possa cogliere tutta la passione di questo omaggio tardivo che Maurizio e io tributiamo al suo estro.

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Francesco Lojacono (1838-1915)

Nessuna nostalgia, nessun rimpianto

Partito giovanissimo non aveva, a differenza di molti italiani all’estero, coltivato alcun progetto di ritorno. Andato via privo di innocenza, né sconfitto, né cinico, non aveva tagliato i legami familiari tenuti in vita con le lettere, argute e tenere, che scriveva alla sorella, alla sorellastra, a quelli che erano rimasti in Italia. Un copioso carteggio diramato, fatto di rivoli e diretto ai membri di una famiglia che, poco tradizionale, aveva antenati illustri, come Francesco Lojacono, suo prozio, parte di madre, Donna Vincenzina, bella, e morta precocemente, sposata con Giuseppe Sesti. Il grande antenato, tra i più significativi artisti dell’Ottocento italiano, gli aveva consegnato un patrimonio, un dono, non solo legato al disegno e alla pittura, ma all’innovazione e all’ingegno. Ferdinand, insomma, un signorile elegantone, con due baffetti curati, un bel viso con occhi liquidi da primi del Novecento, un volto da dreamer, tutt’altro che lezioso, dipingeva, disegnava, fotografava ed era, alla stretta finale, un visionario disincantato abitante della contemporaneità.

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Vincenzina Lojacono e Giuseppe Sesti, i genitori di Ferdinando, il giorno delle loro nozze

Restano ancora numerose fotografie, un album ingegnoso “costruito” prima della sua partenza per l’America fatto da splendide fotografie di Palermo (che sono, peraltro importanti documenti) commentate con acume e con spirito; un mucchio di lettere scritte, tutte ma proprio tutte, con inchiostro verde; piccoli straordinari schizzi; minuscoli acquerelli; disegni. Un corpus realizzato quando lui, ancora, fanciullo o adolescente, viveva a Palazzo Riso, dove era nato. Niente, che mi risulti, rimane della sua vita americana.

Tracce che testimoniano che lo zio non solo disegnava come solo un degno erede di Lojacono avrebbe potuto, ma che scriveva, anche se con una cifra vagamente dannunziana, con un singolare vigore. Riflesso di un’attitudine al guardare e di una mente aperta, propria di chi fosse cresciuto in una famiglia cosmopolita.

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Acquerello di Palazzo Riso, di Ferdinando Sesti Lojacono, eseguito a undici anni

Dopo aver frequentato alcuni corsi universitari (tra essi Ingegneria), senza trovare una direzione, iniziò la sua vita statunitense. Senza rete. Nessun circuito familiare, infatti, lo accolse ammortizzando il salto. Emigrò da sperimentatore, forse combattuto tra una legittima malinconia, nei sui scritti trattata più come artificio retorico che come reale condizione, e un’energica inerzia animata dalla fiducia nelle cose, giungendo a New York il primo agosto del 1923, tredici giorni prima di compiere 23 anni, e si trovò, at a stroke, in quella città tanto diversa dalla sua Palermo.

Io che da anni studio e frequento New York City (dal 2013), nel febbraio 2017 mi trovai face to face con Ferdinando e con i suoi scritti, spediti da mio cugino Maurizio, il “pronipote” scelto proprio dallo zio, nel ’78, come custode del documento.  Fu un impatto, e non per il mero valore familiare, ma per i contenuti dei suoi american sketches. Se Bernard Malamud [4], in The Natural, afferma: «withouth heroes we’re all plain people, and don’t know how far we can go», potrei sostenere che quella lettura, nel contempo, mi  ricordò il mio incontro con quell’eroe familiare e mi condusse sia nello straordinario mood degli anni ’30 americani, che nella vita di un singolare migrante, attivando una rete di rimandi.

La città dalla fine dell’Ottocento era cambiata persino in Europa, ma era l’America del Nord la terra dove la metamorfosi urbana rivelava i connotati del “nuovo”: tra la città contemporanea, in termini ideali, e la metropoli americana sussisteva una perfetta coincidenza. Ferdinand la registrava acutamente richiamando alla memoria frammenti di autori e romanzieri che avevano, soprattutto in Europa, rappresentato lo strappo, tra il XIX e il XX secolo. Simmel, Weber, Benjamin apparivano con forza, sebbene trasformati… e quelle prime ore che trascorsi con il fantasma benevolo dello zio Ferdinando a fianco, furono caratterizzate sia da un’intensa lettura che da un andirivieni tra il suo dattiloscritto e la libreria di casa. Un cumulo di volumi mi stava accanto. Anche un’unica parola o una frase, aprivano infinite finestre, rimandando a Saul Bellow (La resa dei conti; Il pianeta di Mr Sammler; Il dono di Humboldt) o a Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Un solo frammento di Ferdinando richiamava Norman Mailer, Nathaniel West, o Upton Sinclair di The Metropolis, in cui si raffigura la New York più contraddittoria. Forse in quella prima lettura degli short sketches dello zio, riecheggiava più di tutti, Robert Musil [5] che descriveva Vienna, come «una vescica ribollente posta in un recipiente materiato di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche», o che, ancora, rappresentava la città americana cogliendone le dissonanze.

Una «vescica ribollente» era esattamente il gorgoglio contemporaneo, il medesimo urbano che Ferdinand registrava: il caos di New York ai primi del Novecento. Ritrovavo negli anni ’30 dello zio, il fermento metropolitano e il ritmo che io stessa in città, studiandola e abitandola, avevo percepito. L’anima presente negli scritti di Ferdinand non aveva abbandonato la New York contemporanea che io conoscevo bene.

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Ferdinando e la sorella Maria

Senza voler paragonare l’opera del grande romanziere austriaco con gli scritti di Ferdinand Sesti Lojacono, è possibile affermare che in un medesimo periodo – il romanzo di Musil, fu pubblicato nel 1930-32, postumo nel 1943, la prima edizione inglese è del ’53, e quella italiana del 1956-62 – la cultura, tra letteratura, musica, moda e quotidiano, durante gli anni ’30 (come era stato durante la fase del Naturalismo di Zola, o durante l’innovazione di Baudelaire), rifletteva l’esplosione che l’Occidente delle città stava esperendo.

Ferdinand, in tal senso, aveva dimostrato di possedere una notevole capacità nel cogliere e nel descrivere la più vivace tra le metropoli americane, il suo tempo e la sua partitura musicale di puro swing, costruendo una imago urbis originale, differente da altre autorevoli, eco di voci che carpivano ulteriori qualità newyorchesi, come quella di Claude Lévi-Strauss. Se questi, osservando New York da “dentro”, notava soprattutto la struttura, evidenziando quanto la città fosse composta da “villaggi” [6], Ferdinand, di contro, ne comprendeva sottilmente il rumore unitario. Un frastuono spiazzante non assimilabile a nulla che derivasse dal passato. Sincrono. Simultaneo. Una clamorosa disarmonia musicale. In una delle sue Lettere, “La città dei contrasti”, dedicata a New York, si legge: «Dimentichi di essere qui venuti, non in viaggio di piacere, ma per lunga permanenza, spendiamo i primi giorni e le ultime risorse nella visita delle curiosità metropolitane alternando sorprese e delusioni. New-York, città di contrasti per eccellenza, ci colma di disgusto e di entusiasmo, nel medesimo tempo.

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Dall’album palermitano; foto di Ferdinando Sesti Lojacono, scattata prima della sua partenza

La quinta avenue, nota in tutto il mondo per sfarzo di negozi e magnificenza di palazzi, divide questa moderna Babilonia, in due zone urbane profondamente dissimili. A ovest residenze lussuose, case commerciali, famose, grandi alberghi, banche, stazioni ferroviarie monumentali, il celebre Central Park. Ad est case popolari, prigioni, ospedali, opifici, gazometri, sorgenti su quel vasto territorio brulicante di vita chiamato Piccola Italia. […] a pochi passi da edifici modernissimi, nella quattordicesima strada, esistono ancora abitazioni popolari alle quali si accede attraverso ingressi angusti e fetidi, su per scale di legname traballante […]. Il cesso comune, uno per ogni piano, apre la sua porta sgangherata, sul pianerottolo delle scale».

Con la mente zeppa di rimandi, tra scritti di sociologia, romanzi e vecchi film, tra  i numerosi autori che hanno parlato di New York, quello che mi pareva fosse più vicino ai “bozzetti” dello zio era Charles Whibley[7]. Nel suo American Sketches (in cui risuona il titolo del volume di Dickens: American Notes for General Circulation, del 1842), esito di un viaggio negli Stati Uniti, e pubblicato per intero nel 1908, egli descrive da outsider alcune grandi metropoli statunitensi: New York, Boston e Chicago, e spiega cosa significasse essere newyorchesi: «What, indeed, is a New Yorker? Is he Jew or Irish? Is he English or German? Is he Russian or Polish? He may be something of all these, and yet he is wholly none of them, Something has been added to him which he had not had before, he is endowed with a briskness and an invention often alien to his blood. He is quicker in his movement, less trammeled in his judgement […]. The change he undergoes is unmistakeable, New York, indeed, resembles a magic cauldron. Those who are cast into it are born again»[8].

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Dall’album palermitano; foto di Ferdinando Sesti Lojacono, scattate prima della sua partenza

Le assonanze tra il volume di Whibley – il «magico calderone» –, i contenuti di Musil ­– «la vescica ribollente» – sulla città del Novecento e su quella americana, e alcune descrizioni, intuizioni sintetiche dovrei definirle, di Sesti Lojacono derivavano da una condizione condivisa: l’essere tutti outsiders [9], europei che osservavano o abitavano la città nordamericana, una tra tutte New York. Essa affascinava e produceva un comune sconcerto e un disorientamento percettivo, registrato da numerosi visitatori (tra essi alcuni autorevoli, come Le Corbusier: vd. Quand le cathédrales étaient blanches. Voyages au pays des timides, pubblicato a Parigi, nel 1937).

Affermazioni come: «the skyscrapers which lift their lofty turrets to the heaven are the pride of New York» o notazioni come «there seems no reason why a citizen of New York should ever walk. If stairs exist, he need not use them, for an express lift, warranted not to stop before the fifteenth floor, will carry him in a few seconds to the top of the highest building»[10], contenute nel libro di Whibley, e riferite alla New York del 1908, rendono evidente la relazione stretta tra la città visibile e il cambiamento radicale della società e del suo funzionamento. New York, insomma, era il film elettivo che consentiva l’immersione – e il godimento alla Walter Whitman ­– nell’urban show della trasformazione contemporanea. Il rapporto con il tempo scandito dagli orologi, una sorta di «ritmo universale», il movimento degli «ascensori velocissimi» che, come afferma ancora Musil, «pompano in senso verticale masse di uomini dall’uno all’altro piano di traffico», automobili sfreccianti, individui incasellati in un sistema di compiti, doveri, regole, sono le note che scandiscono la nuova sinfonia. Così, come prosegue lo scrittore austriaco, «tensione e distensione, attività e amore […] ben divisi nel tempo e misurati secondo esaurienti ricerche di laboratorio», sono quelle porzioni di una citta mutata, e soprattutto agli occhi di un europeo, in una soffocante macchina fordista, vissuta in modo ambivalente, tra paradiso (progresso/opportunità) e distopia (asservimento/oblio).

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“Il mio tavolo da studio…”, foto di Ferdinando Sesti Lojacono

Al di là del Viaggio

Un po’ catturato dagli stereotipi, un po’ affascinato dalla città, per nulla ingenuo, lo immagino, dunque, in quel giorno torrido di agosto, sbarcare ad Ellis Island, e guardare – con un po’ di timore, fatalismo e desiderio – quella imago urbis di fronte, Downtown, Manhattan, con i suoi giovani occhi.

Tanti prima di lui erano giunti e tanti erano stati travolti da quell’urban swing, la “sinfonia” della metropoli, una “jazz session” così diversa da quella alla quale erano abituati. Essa era (ed è ancora) «la superficie di una caldaia in ebollizione il cui contenuto viene a galla per un attimo e scompare, un mare in tempesta» (Sesti Lojacono, 2020).

Era (ed è ancora) New York City nel pieno dalla propria esplosione culturale.

Quando lo zio Ferdinando vi giunse, partito da Napoli, dove si era imbarcato sulla “Conte Verde”, la città, i Five Boroughs (i 5 Distretti: Manhattan, Bronx, Brooklyn, Queens, Staten Island, dal 1898 aggregati nella Greater New York City), contavano quasi 6 milioni di abitanti, distribuiti in gran parte tra Manhattan, Brooklyn e i Queens. I 5 Distretti erano confluenza e crossover di una rete di comunicazione territoriale; erano sede di robuste o insorgenti compagnie che ambivano alla visibilità, di assicurazioni, di fabbriche e industrie; ed erano sede di parchi e giardini, nuovi musei, newspapers, orti botanici, di nuclei residenziali, di tenements (alloggi popolari di bassa qualità) per i workers, di grandi dimore di capitalisti accentratori (come i Vanderbilt; i Morgan; i Rockefeller), misti a costellazioni di poli produttivi e a piccole e grandi imprese.

Un sistema di luoghi in variazione, in cui vivevano milioni di migranti provenienti da ogni dove, fuggiti da terre ostili, per forza, per scelta. Una smisurata folla determinata e nel contempo irretita, la linfa vivente del capitale urbano in ascesa.

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New York negli anni ’30, in una postcard (archivio Flavia Schiavo)

La città stava elaborando un suo linguaggio “non-lineare”, fatto di luoghi ramificati, instabili, trasmutanti, dove si inventavano “oggetti”, come le scatole di cartone pretagliate per imballare le merci e spedirle (i cardboard boxes), dove si aprivano i grandi cantieri navali (il Navy Yard), mentre il New York Harbor si imponeva, dove l’impresa produttiva dello zucchero, la Domino Sugar a Brooklyn, o la confezione di camicette, le “white shirts”, nel Garment District (a Manhattan), producevano denaro, inglobavano persone, influenzavano le localizzazioni urbane, in una scala che iniziava a essere prima regionale, poi globale, tra trionfo e alcune catastrofi.

In quella città, dove la parola chiave era “trasformazione”, il lavoro non mancava e i conflitti si risolvevano anche per strada; in quella strada dove, come aveva notato alcuni anni addietro Dickens, si sperimentava la Democrazia Americana.

Luoghi in cui l’essere stritolati dalla macchina del capitale era, in alcuni casi, mitigato dalla convinzione che lì, proprio lì, si acquisisse l’individuale diritto a perseguire “the Happiness”, come dichiaravano l’American Constitution e la Declaration of Independence e che quella Terra, oltre Atlantico, fosse il Nuovo Mondo delle occasioni.

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New York City negli anni ’20, schizzo di Flavia Schiavo

Un gigantesco calderone, in moto economico, sociale e culturale, la cui frenetica energia si traduceva, e non solo per quanto riguarda New York, in una rapida metabolizzazione della cultura europea e, forse, nella più concreta realizzazione della città che i Futuristi avevano raffigurato.

La nostalgia? Certo, quella, come scrive lo Zio Ferdinando, abitava ognuna delle anime in viaggio, segnate da uno strappo, dall’infinita lontananza, dalla convinzione di aver perso per sempre la propria patria di origine… una nostalgia parzialmente rimossa per necessità e per la speranza che mitigava lo sconforto.

In queste «Lettere dall’America» composte da Ferdinando Sesti Lojacono, sono rintracciabili tutti i contorni della New York del tempo. Così le sue sono immagini cinematiche che ci dicono del traffico, della folla compatta in marcia, delle economie, della subway e del suo vibrare sotterraneo, dei Ponti che rendevano un semplice arcipelago una metropoli gigante, trasformando la geografia originaria; immagini che ci dicono degli incendi, degli «edifici nuovi con l’ossatura d’acciaio» (Sesti Lojacono, 2020), delle sirene continue, del rombo degli pneumatici sull’asfalto, della mobilità sociale, dei comportamenti umani e, persino, degli impasti linguistici di quella città multiculturale ante litteram. Dove ognuno parlava un idioma contaminato dal “sogno” e dove sorgevano gli skyscrapers di vetro e metallo, di pietra e terracotta, come il Woolworth Building (completato nel 1913; 241 metri, 57 piani, 34 ascensori), il New York Telephone Company Building (oggi noto come Verizon Building, 32 piani, la cui costruzione iniziò proprio nel 1923), il Chrysler Building o l’Empire State Building (entrambi inaugurati, tra il 1930 e il ’31).

Immagini e suoni di avanguardia, di un’orchestra urbana dissonante, in cui al clarinetto o all’oboe o al violino, si sostituivano la polifonia del domani, il «ruggito delle scavatrici», il «martellare assordante dei magli», «l’ansito delle forge» (Sesti Lojacono, 2020), generando un ritmo frastornante che lui, lo so bene, comprendeva.

Sostituzioni. Contraddizioni. Tracce lievi di un passato poco ingombrante si univano a un presente impetuoso e all’ammaliare dei futuri, tra giovinezza, speranza e bellezza intesi come unitario paradigma.

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Ferdinando e i suoi ultimi giorni da “palermitano”, 1923

Il caos organizzato edificava la città. «Cieli aperti», ricchezza, stordimento erano la chiave di volta di quello spazio urbano, il cui unico scopo era di crescere.

Una città che si estendeva, senza le regole geometriche europee, un’utopia concreta, dissacrante, brutale a tratti, eufonica, tollerante, sperequativa, empirica, senza misura, espansa in orizzontale e in verticale, che dilagava, bruciava, consumava, tra mille azioni, come una grande Nave che, solcando inediti tragitti, disegnava la nuova mappa esistenziale del presente.

Immagini e suoni. Il battito multiplo di un cantiere aperto, tanto percettibile in queste «Lettere», forse perché tratteggiato, dovrei dire raccontato, da quello sguardo fine che in modo implicito parlava di New York e delle emozioni suscitate, mentre comparava quella metropoli con le città europee e con la sua Palermo che, nel confronto, sembrava, oltre che radicata nella memoria e oggetto di rimpianto, sonnolenta.

Nel film del 1995, di Stephen Low, Across the Sea of Time, un giovanissimo clandestino russo, Thomas, durante gli anni ’90 del Novecento, venuto in possesso di vecchie fotografie che – grazie a un marchingegno (lo Stereoscopio, messo a punto intorno alla prima metà dell’Ottocento) – restituiscono alcune immagini tridimensionali di New York, salta su una nave e approda ad Ellis Island. Il ragazzo, appena undicenne, è alla ricerca dei luoghi dove era vissuto un antenato, Leopold Minton, così ribattezzato con il nuovo nome datogli allo sbarco a New York, per l’impronunciabilità del vero cognome russo.

Thomas ripercorre, vive, “mappa”, ricostruisce, scova, a partire dalle immagini del suo progenitore, le passioni, gli sforzi, la vita di quell’uomo senza paura che aveva raccolto “scatti”, frammenti visuali, dettagli delle meraviglie della metropoli, con i suoi grattacieli e la sua subway scavata nel ventre urbano di scisto. Un amorevole, coraggioso, stupefatto attraversamento di ambiti ormai trasformati, da cui emergono gli eventi del passato le cui tracce ancora risuonano negli spazi pubblici e privati di New York. Una trama da decifrare per legare le discontinuità moderne con le memorie di quello specialissimo migrante, mai davvero incontrato, ma profondamente conosciuto. Un percorso che connette la memoria con il quotidiano, che rende la città un oggetto d’amore frutto di una coerenza temporanea, di una narrazione emozionale dove ciò che è ibrido si fonde in unità.

Leggendo lo zio Ferdinando, quando già New York era “mia” e la conoscevo bene, ho sperimentato un’analoga e profonda suggestione, ho confrontato la mia percezione di studiosa con quella emergente dai suoi scritti, e ho raccolto una sostanziale eredità: il patrimonio della nostra famiglia non coincide con il semplice lascito degli oggetti materiali, pur importanti che abbiamo ricevuto, ma con il saper recepire un dono, il flusso di memorie ed emozioni di cui noi stessi siamo ancor oggi parte.

Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
 Note
 [1] Il nostro editore, Luigi Di Salvo ha scelto di scansionare le pagine del dattiloscritto, mantenendo così anche le rare cancellature e i pochi refusi originali.
[2] Sesti Lojacono acquisì una notevole professionalità nel settore; mi piace ricordare, infatti, che fu invitato dalla Rinascente di Milano, negli anni ‘50, come consulente, in una fase in cui l’Italia post II Guerra mondiale guardava con interesse verso il nuovo (la cultura americana ne era emblema) e puntava alla ricostruzione.
[3] È opportuno ricordare che la “PANTONE LLC” fu fondata in America, nel New Jersey, nel 1962.
[4] B. Malamud, Il migliore, con un ricordo di Philip Roth, Minimum fax, Roma 2006.
[5] I due stralci tratti da L’uomo senza qualità, di R. Musil, ai quali ci si riferisce:
«Non diamo dunque particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi, e, frammezzo, punti di silenzio abissali; da rotaie e da terre vergini, da un gran battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi; e nell’insieme somigliava a una vescica ribollente posta in un recipiente materiato di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche».
«Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isotere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913. Le automobili sbucavano da vie anguste e profonde nelle secche delle piazze luminose. Il nereggiar dei pedoni disegnava cordoni sfioccati. Nei punti dove più intense linee di velocità intersecavano la loro corsa sparpagliata i cordoni si ingrossavano, poi scorrevano più in fretta e dopo qualche oscillazione riprendevano il ritmo regolare. Centinaia di suoni erano attorcigliati in un groviglio metallico di frastuono da cui ora sporgevano ora si ritraevano punte acuminate e spigoli taglienti, e limpide note si staccavano e volavano via. A quel frastuono, senza che se ne possano tuttavia descrivere le caratteristiche, chiunque si fosse trovato lì ad occhi chiusi dopo una lunghissima assenza avrebbe capito di essere nella città capitale di Vienna, residenza della Corte. Le città si riconoscono al passo, come gli uomini. Aprendo gli occhi egli ne avrebbe avuto la conferma dal ritmo del traffico stradale, ancor prima di scoprire qualche particolare significativo. E anche se si fosse sbagliato, poco male. L’importanza esagerata che si dà al fatto di trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro risale all’età delle orde di nomadi, quando bisognava tener bene a mente dov’erano i terreni da pascolo. Sarebbe interessante sapere perché davanti a un naso rosso ci si contenta di constatare approssimativamente che è rosso, e non si indaga mai di quale rosso si tratti, quantunque lo si possa esprimere esattamente fino al micromillimetro mediante la lunghezza d’onda; mentre in questioni assai più complesse, come quella della città in cui si vive, si vorrebbe sempre sapere precisamente qual è questa città. E ciò distrae l’attenzione dalle cose essenziali».
[6]Vd. «New York post- e prefigurativa», in C. Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano, Il Saggiatore, Milano, 2010, nella traduzione di Primo Levi.
[7] Charles Whibley fu un autore inglese, giornalista e scrittore, nato nel Kent.
[8] Da American Sketches, del 1908: «Che cos’è un newyorchese? È ebreo o irlandese? È inglese o tedesco? È russo o polacco? potrebbe essere un po’ di tutto questo e nulla di tutto questo. Qualcosa è stato aggiunto che non aveva prima. È dotato di alacrità, un’invenzione aliena al suo sangue. È più rapido nel muoversi e meno impedito nel giudizio […]. La scelta attraverso cui passa è inequivocabile, New York, infatti, somiglia a un magico calderone. Coloro che sono stati gettati in esso sono nati di nuovo».
[9] Parafrasando quanto affermato da J.­-J. Rousseau, vd. Essai sur l’origine des langues, che rileva nella percezione degli europei un’indiscutibile autoreferenzialità e un netto eurocentrismo, è possibile notare quanto la registrazione conoscitiva della città nordamericana da parte degli europei, e soprattutto durante i primi del Novecento, sia caratterizzata sempre da uno sguardo “da lontano”: una inevitabile distanza che potrebbe definirsi “permanente”, e che porta anche a confrontare la metropoli statunitense con quella europea, percependone i caratteri per differenza: dov’è, infatti, la “storia” in città come New York o Chicago? Dove sono il palinsesto e la stratificazione di lunga durata? Dove sono gli incastri tra nuovo e antico? Dove e come vengono organizzati gli spazi sociali?
[10] «I grattacieli, che ergono le loro alte torrette verso il cielo, sono l’orgoglio di New York». «Non sembra esserci motivo per cui un cittadino di New York debba camminare. Pur esistendo delle scale, non c’è alcun bisogno di usarle, un ascensore rapido, garantito che non si fermi prima del quindicesimo piano, lo porterà in pochi secondi in cima all’edificio più alto».
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, urbanista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. Tra le sue ultime pubblicazioni, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi, 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.

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