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Eumeo o della fedeltà ai luoghi e alle persone

 

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Borgo Littorio, Corleone ( ph. Salvina Chetta)

il centro in periferia

di Nicola Grato

Totò ed Eumeo

Che senso ha restare oggi in un piccolo paese della Sicilia Interna, nel comprensorio che chiameremo di Rocca Busambra? Perché ostinarsi a resistere allo spopolamento che significa in soldoni: amici che se ne vanno – partiti per la città o verso altri luoghi fuori dalla Sicilia –, persone care che muoiono, case che si chiudono per sempre e inesorabilmente, dialoghi pazientemente intrecciati con amici che andranno via, cene in cui abbiamo parlato di tante cose e che oggi sono lontani ricordi, tessuto sociale che si sfalda? Come abitare in un luogo che viene definito – e per molti aspetti certamente è – lontano dai centri decisionali, dalla produzione o semplicemente da un supermercato che offra “scelta” a noi consumatori?

Sono alcune delle domande che mi pongo quotidianamente e non per spirito ozioso né per autocompiacimento, ma per scavare dentro di me e ricercare – più che risposte certe – nuove domande di senso: un senso dei luoghi consapevolmente inteso potrebbe essere una buona “base” sulla quale costruire un senso dell’abitare non come possesso ma come cura del luogo, del paese, della casa nella quale “stiamo”.

Sarebbe banale liquidare la questione della scelta di un prodotto rispetto a un altro marchiandola come eccesso di superficialità, vittoria dell’effimero su ciò che conta davvero, cecità da consumatori sprovveduti: in questa “scelta” dei prodotti ci sono anche alimenti importanti che non sempre si hanno nelle disponibilità delle botteghe di paese (penso ai prodotti per gli intolleranti e per i celiaci), ma anche librerie (del tutto assenti in questi paesi), negozi di abbigliamento che possono trovarsi in centri molto distanti da questo comprensorio o in città.

Ma non è questo, o soltanto questo, il punto: abitare nei paesi del margine costa fatica, una fatica quotidiana e sempre presente, una fatica che è nelle cose, nelle strade; le strade che collegano i paesi dell’area di Rocca Busambra (penso soprattutto a Villafrati, Mezzojuso, Godrano, Cefalà Diana, Campofelice di Fitalia) sono sconnesse, rotte, franate. La grande direttrice che collega questi paesi con Palermo è detta “a scorrimento veloce”, è una strada statale ma è interrotta da anni per lavori in vari punti e quando non è interessata da lavori è stretta e molto pericolosa: stiamo parlando della strada statale 121 che da Palermo, attraverso il prolungamento senza soluzione di continuità con la strada statale 189 a Bivio Manganaro e a Lercara Friddi, conduce ad Agrigento.

Quando sento parlare e leggo tanti interventi sulle cosiddette aree interne e sulle strategie certamente meritorie per riqualificarle, penso alla strada statale 121 interrotta e qualcosa non mi torna. Da quest’ultimo esempio alla domanda sul senso di restare in un paese mal collegato e “distante” si potrebbe rispondere: per puro masochismo, ma così non è.

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Campofelice di Fitalia (ph. Salvina Chetta)

Totò è seduto di fronte a casa sua, una vecchia casa fatta di pietra di Chiarastella, una collina appena fuori Villafrati; è seduto e ha lo sguardo come sognante, le mani incrociate sul bastone. Ogni tanto caccia via una mosca impertinente e fastidiosa e aspetta uno dei nipoti per andare in campagna a controllare le poche galline che ancora tiene e la vecchia casa nella quale facevamo le scampagnate quaranta anni fa. Lo guardo questo vecchio e penso ad Eumeo, il fedele porcaro che Odisseo trova seduto di fronte alla porcilaia quando ritorna a Itaca: è un luogo dell’intelligenza umana questo porcile che Eumeo ha costruito, una delimitazione razionale dello spazio fatta di pietre, paletti di pruno; dodici stalle Eumeo ha costruito, ha dato un ordine razionale, ha faticato; lo vediamo intento a foggiare dei calzari con la pelle bovina. È un uomo operoso Eumeo, perfetto opposto del capraro empio Melanzio, ma è soprattutto un uomo fedele: a chi? Certamente a Odisseo, suo antico padrone che ora rivede ma non riconosce, a Telemaco – che cura come un figlio durante l’assenza di Odisseo – ma soprattutto a una terra, a un luogo che è Itaca, al palazzo reale orfano del re. È un uomo ospitale il porcaro, conosce gli antichi usi sacri che ha ogni uomo sulla Terra nei confronti di un altro uomo: prendersene cura, adoperare pietà e amorevolezza.

Quando guardo Totò seduto sulla sedia di legno, immerso nei suoi pensieri e avvolto nella cheppa grigia, egli non aspetta più nessuno; e pensa alla morte che sente vicina, ma anche alla morte del paese chiuso dall’epidemia: mi diceva di “sentire dolore per il paese”, una espressione che mi ha molto colpito e sulla quale rifletto. Sentire il dolore per il paese vale tutta la letteratura che è stata scritta sui luoghi e quella ancora che dovremo scrivere: è l’uomo che sente il bisogno di curarsi di luoghi e persone, sente il bisogno di fedeltà dove la fedeltà pare annebbiata dal profitto, dalla distanza, dallo spopolamento quotidiano. Scrive Vito Teti:

«Il paese, dalla fine dell’Ottocento in avanti, e soprattutto dai primi anni cinquanta del secolo scorso, ha conosciuto una lenta, prolungata, inarrestabile pandemia, che ne ha modificato l’aspetto urbanistico e architettonico, l’organizzazione dello spazio, le forme della produzione, e allo stesso tempo ha subìto l’insorgenza di economie assistite, di nuove forme di dipendenza dai gruppi di potere, anche criminali, di nuove relazioni tra i suoi abitanti, di una diversa mentalità e anche una sorta di apatia e rassegnazione dei suoi ultimi abitanti che spesso tendono a credere che tutto sia accaduto e che il cambiamento non sia più possibile» [1].
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Mezzojuso (ph. Salvina Chetta)

Restare in questi paesi può quindi significare resistere ai comportamenti deleteri che anche in questi anni possono osservarsi nelle piccole comunità: la lotta alla mafia non si fa soltanto nelle città, è in questi luoghi interni che la criminalità organizzata gestisce i grandi affari dei terreni, dei pascoli; in questi paesi la criminalità mafiosa tenta sempre più pervasivamente di infiltrarsi dentro alle istituzioni della Repubblica, specialmente dentro i comuni. Restare in paese significa comprendere a fondo che i “territori a vocazione agro silvo pastorale” sono sempre più spesso territori contaminati dalla mafia e dai comportamenti omertosi di criminali che hanno favorito la latitanza di capimafia (due su tutti, Benedetto Spera nascosto nelle amene campagne di Mezzojuso e Bernardo Provenzano in quelle di Corleone); restare in paese significa combattere quotidianamente contro i comportamenti mafiosi: detto così potrebbe sembrare ancora una volta una banalizzazione, ma in realtà i “comportamenti mafiosi” in questi paesi hanno una struttura molto radicata e una scaturigine profonda che provengono dall’abitudine della mafia a fare affari in questo comprensorio, reclutando “collaboratori” nelle campagne; restare in paese significa assumere il peso della distanza tra le persone per motivi di litigi o per divisioni politiche; restare in paese significa soprattutto battersi quotidianamente contro lo scoraggiamento e la voglia di fuggire, e credere fermamente che i paesi possano cambiare, coltivare la fedeltà senza la quale non può esistere conoscenza e conoscenza dei luoghi soprattutto.

Fedeltà è un vecchio porcaro che attende il ritorno di un amico, fedeltà è quella di Totò che sta seduto sulla sedia di legno e mi parla di un paese che ora è soltanto nella sua mente; ma è anche quella di Fanuzzo, pastore che ha amato suonare la fisarmonica, o la fedeltà è l’amore per i libri che nutrivano le giornate di zio Vincenzo, intento a costruire giochi per i bambini con foglie, rami, fiori e ad attendere al lavoro di restauratore di libri presso il monastero basiliano di Santa Maria a Mezzojuso.

Fedeltà è questa poesia di Eliot che ci presenta il personaggio di Tiresia, il veggente che ha conosciuto tutte le sofferenze ma ha mantenuto saldo il cuore:

«Io Tiresia, benché cieco, pulsante fra due vite,
vecchio con avvizzite mammelle femminili, posso vedere
all’ora viola, l’ora della sera che volge
al ritorno, e porta a casa dal mare il marinaio,
posso vedere la dattilografa a casa all’ora del tè, sparecchia la colazione,
accende il fornello e tira fuori cibo in scatola.
Fuori dalla finestra pericolosamente stese ad asciugare
le sue combinazioni toccate dagli ultimi raggi del sole,
sul divano (di notte il suo letto) sono ammucchiate
calze, pantofole, camiciole e corsetti.
Io Tiresia, vecchio con poppe avvizzite,
percepii la scena, e predissi il resto –
anch’io attesi l’ospite aspettato».

Restare in paese è attendere, ma non passivamente; sperare disperando, osservare anche le cose più piccole e apparentemente insignificanti come tessere necessarie di un mosaico: storie di donne e di uomini, case, vicoli, sentieri nel bosco.

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Gangi (ph. Salvina Chetta)

Restare qui

Da anni non si parla più dei luoghi, di paesi se non per eleggere il borgo più bello, affermare con forza le radici di un vino o di un cacio, proporre mete turistiche per i fine settimana di tempo libero. Nei paesi però le persone vivono, fanno progetti, arrivano dalle città per stabilirsi. Tanti cittadini vengono a vivere nei nostri paesi perché qui ancora gli affitti sono sostenibili e i generi alimentari costano poco e, soprattutto, un gran numero di case sono da anni disabitate a causa delle migrazioni verso le città o verso il continente.

Tante persone con le quali avevo rapporti, seppure in un periodo molto breve come l’estate, non ci sono più perché emigrate in Emilia, in Lombardia, in Svizzera; i vecchi coi quali trascorrevo da piccolo le sere insieme a mio padre sono tutti morti, uno degli ultimi a restare ancora vivo è proprio Totò: con lui scambio qualche parola ancora oggi quando, prima di entrare o appena uscito dalla scuola media nella quale lavoro, lo vedo seduto sulla sua sedia di legno col berretto di lana e la cheppa a cercare un po’ di sole buono, solo ormai con i suoi ricordi, la moglie Agnese morta da venticinque anni.

Totò mi racconta di mio padre, suo grande amico, e mi sembra che mio padre sia ancora qui con me: lui che ci teneva a stare in paese, lui villafratese che il lavoro aveva costretto a stare in città. Totò mi racconta di mio padre e mi dice che vorrebbe raccontare (e glielo racconta, parlandogli segretamente) al suo amico come se l’è cavata molto bene in questa pandemia, durante le due “zone rosse” che ha dovuto subire Villafrati tra marzo e ottobre del 2020: i ragazzi della Protezione civile e i volontari lo hanno aiutato, e poi lui ha sempre il pensiero alla campagna che lo ha confortato nei giorni di solitudine e reclusione.

Si fanno lontani gli amici, le persone che abbiamo conosciuto; possiamo soltanto qui e là osservare quelle che Teti chiama “schegge”, lacerti di racconti, storie che chiedono di essere raccontate per non cadere nell’oblio. In paese si sente anche la mancanza delle feste religiose, oggi ovviamente più che mai, ma la mancanza di qualcosa è una “condizione” permanente in paese: a Villafrati non si celebra più da quaranta anni la festa della Santissima Trinità o Triade, a cui è dedicata la Chiesa Madre: è stata bruciata la statua che rappresentava Padre Figlio e Spirito Santo, ne è rimasta memoria fotografica esigua, qualche filastrocca legata al suono del tamburo e nulla più.

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Carini, Terravecchia (ph. Salvina Chetta)

L’esperienza del distacco è per me quella più traumatica della vita in paese: nel paese la vicinanza è l’elemento essenziale che connota la vita quotidiana; quando qualcuno muore o va via si ricomincia daccapo a tessere la tela, bisogna raccontare di nuovo tutto e di ogni cosa cercare sempre nuove ragioni di esistere, nuove giustificazioni. Ecco, restare a Mezzojuso, paese nel quale abito con la mia famiglia, insegnare a Villafrati si sostanziano nelle esperienze di incontrare le persone e scambiare due parole, fare una battuta e ricevere un racconto, fulmineo e breve, ma centrale per il dispiegarsi della mia giornata.

Il fenomeno dello spopolamento ha caratteristiche precise in questi nostri paesi: le statistiche forniscono una lettura della realtà che va messa a confronto con i dati dell’esperienza, altrimenti si rischia di parlare un po’ a vanvera. Nel Rapporto sul territorio 2020 dell’Istat si afferma che:

«Oggi, come nel passato, la posizione dei territori e le risorse di cui dispongono concorrono a determinarne le opportunità di sviluppo» ma, anche che «la qualità della vita – comunque la si voglia intendere – spesso è influenzata da elementi diversi: i grandi centri urbani, a confronto con le aree rurali offrono attrazioni e servizi, ma a prezzo di tempi più sacrificati per la vita di relazione, minore disponibilità di risorse ambientali, criminalità più elevata»[2].

Ciò non basta a rendere conto della sofferenza e della fatica di restare in queste “aree rurali”, per averne contezza probabilmente andrebbe intervistato Totò e con lui tanti altri; possiamo però dire che restare anziché andare via è una semplificazione di un processo molto complesso: restare è ugualmente andare via, perché un giorno sentiamo l’invito di qualcuno ad abbandonare casa e tutto e cercare una sistemazione migliore e in noi lo accogliamo volentieri, immaginandoci case nuove in posti nuovi, nuove esperienze, nuovi amici. I nostri amici, o almeno le persone con le quali avremmo certamente trascorso tanto del nostro tempo, sono andate via: restano contatti digitali, mail, auguri per le feste; se le “spinte” ad andare via ci lusingano, d’altra parte crediamo fermamente che abitare in un piccolo paese possa significare avere una vita più vicina all’essenziale, forse illusoriamente distante dal processo produttivo che cancella le tracce, guarda avanti semplicemente perché non vuole guardarsi indietro.

Queste opposte spinte sono entrambe presenti nella nostra vita di uomini, costituiscono la dialettica del quotidiano: chi è andato via è presente in blog su Facebook che ricordano i paesi: “VillafratiAmarcord”, “Bolognetta”, “Marineo”, “Cefalà Diana su Facebook” e altri gruppi creati ad esempio dalle consulte giovanili per aggregare, mettere insieme le persone e cercare di trattenere “telematicamente” chi è andato via.

Si resta anche perché fuori è già sera e il giorno volge al declino, e restare equivale a mantenere un rapporto con una persona cara che è di fronte a noi, a cena, ma anche con una persona cara che non c’è più. Vorremmo dirlo sempre: resta con noi, perché fuori è già sera, perché fermarsi significa rendere sacro un luogo soltanto con la presenza, la figura; restare per conoscere persone che vengono da altri paesi, da altre culture.

Anni fa, a primo pomeriggio nella controra di luglio, sentii discutere un uomo e una donna in arabo in un vicolo di Mezzojuso: ne ho ricavato una fortissima impressione di spaesamento, una vera e propria vertigine che mi ha fatto pensare e ancora mi fa pensare alle parole di Voltaire, a questa preghiera magnifica:

«Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi: se è lecito che delle deboli creature, perse nell’immensità e impercettibili al resto dell’universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato, a te, i cui decreti sono e immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura. Fa’ sì che questi errori non generino la nostra sventura. Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l’un l’altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa’ che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa’ sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati “uomini” non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione» [3].
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Mezzojuso (ph. Salvina Chetta)

Sostanza della fedeltà

Nel piccolo paese nel quale abito si possono sentire le voci delle persone e ogni voce ha ancora un carattere; posso guardarle negli occhi queste persone, discutere coi loro figli a scuola, chiedere sempre senza mai pensare di avere risposte preconfezionate da offrire in pasto. Posso ancora rendermi conto di ciò che è sacro dove il sacro è deturpato da rapporti amicali e familiari inquinati da questioni di politica di bassa lega, da risentimenti che in paese sono sguardi torvi, visi voltati da un’altra parte quando cammini per strada. È inutile fingere: in paese tutto è più amplificato, la sofferenza come la gioia sono sentimenti pubblici e se ne fa strame o si custodiscono come straordinarie medicine in tempi di crisi e non soltanto sanitarie e contingenti come questi che viviamo.

La memoria del passato, di chi non è più con noi, dei morti costituisce l’orizzonte etico ma soprattutto l’ambiente di vita quotidiana nei paesi. Così come le feste, che pure hanno subìto i danni del capitalismo sfrenato e della pretesa di visibilità ad uso dei cittadini: penso al “Mastro di Campo”, storica pantomima carnevalesca di Mezzojuso, o alla “Dimostranza” di san Ciro a Marineo propagandate alle porte di Palermo con grandi manifesti per attirare il turismo cittadino. Già, molto ci sarebbe da discutere sul rapporto malato che lega città e paesi, questi ultimi dovendo dimostrare sempre qualcosa ai cittadini, dovendosi sempre mettere in mostra come “paesi della domenica”.

I paesi che tanto hanno contribuito, attraverso studiosi locali d’ingegno e operosità straordinarie, alle ricerche universitarie dei capoluoghi (penso alle ricerche antropologiche ed etnologiche), salvo poi essere sempre considerati snobisticamente da certi professori universitari alla ricerca di materiali di prima mano. Parlo sempre di persone, di storici locali, di uomini che con i loro studi hanno contribuito a preservare dalla dimenticanza tante storie: penso a Pino Di Miceli che tutto conosce di Mezzojuso e della musica d’autore italiana, che ha un archivio fotografico straordinario e col quale discuto tanto e di tante cose: tempo guadagnato, tempo guadagnato qui a Mezzojuso, in paese; penso a Santo Lombino, storico bolognettese dell’emigrazione, direttore del Museo delle Spartenze dell’area di Rocca Busambra, che ha conservato numerosi memoriali a lui affidati dai paesani e dalle persone che lo hanno conosciuto e apprezzato: lettere, diari che costituiscono un piccolo grande archivio delle esperienze e delle vite. Santo e Pino così come Totò mi persuadono alla resistenza qui in paese, a restare qui. Contribuiscono a dare sostanza alla mia fedeltà a questi luoghi.

Lontano da qui spazialmente, ma vicino culturalmente, è Gianluca Palma che ha fondato con alcuni amici “La scatola di latta”, un’esperienza di aggregazione di persone in Salento con lo scopo di animare i luoghi attraverso passeggiate, incontri (quando si poteva incontrarsi liberamente), visite ai paesi. Questi ragazzi hanno dato vita anche a “Daìmon – a Scuola per restare”

«una scuola che non terminerà mai: itinerante, multidisciplinare, inclusiva, gratuita e accessibile a grandi e piccini; senza porte e finestre, senza pagelle e attestati, senza compiti e calendari da rispettare; con luoghi di apprendimento disseminati nei campi, nelle cantine e nelle botteghe, diffusa nei paesi e nei paesaggi d’Italia. Una scuola adatta a chi vorrà abitare poeticamente e civicamente i propri territori e a chi vorrà conferire pienezza al proprio re-stare»[4].
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Ventimiglia di Sicilia (ph. Salvina Chetta)

Non bisogna rassegnarsi all’idea che progresso debba coincidere per forza con prodotto, impresa, pil. Occorre osservare con amore ai territori concreti e alla diversità delle forme di vita che si dispiegano nei paesi: è un primo passo per creare una coscienza profonda dei luoghi in cui abitiamo.

I miei occhi hanno visto e assorbito città e paesi, facce di palermitani distratti e facce di vecchi dei paesi. In questo continuo mutamento che non è mio particolare di certo ma è dell’uomo e di tutti gli uomini in ogni tempo, io ho trovato la radice profonda del restare nell’ascolto delle persone, nell’osservazione minuta del giorno.

Abitavamo con mia moglie e mia figlia in campagna, abbiamo deciso di “tornare” in paese. Tornare, certo valeva per Salvina mia moglie, che è nata e vissuta in paese, a Mezzojuso. E per me? Valeva e vale una scommessa: restare in un luogo che molti abbandonano tutt’ora, restare come prospettiva etica, come ricerca di profondità.

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021 
Note
[1] Cfr. la voce “Paese” a cura di Vito Teti in Manifesto per riabitare l’Italia, Donzelli (Roma) 2020: 173
[2] Il documento è reperibile sul sito internet dell’Istat all’indirizzohttps://www.istat.it/it/
[3] Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Feltrinelli (Milano) 1914: 147-148
[4] Cfr. https://www.scatoladilatta.it/a-scuola-per-restare/

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Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”,“larosainpiù”,“Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo. Nel 2021 la casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto in arabo per la sua collana di poesia la silloge Le cassette di Aznavour.

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