Stampa Articolo

Essere probashi al femminile. Le bangladesi in Europa

Donne-bengalesi-in-fila-per-emigrare.

Donne bengalesi

di Francesco Della Puppa

Riprendendo il percorso di ricostruzione e analisi della così detta “Diaspora bangladese”, ci si concentrerà, in questa sede, sull’ultima “fase storica” che ha contraddistinto le migrazioni dal Bangladesh: quella caratterizzata anche dalla maggior visibilità nel “mercato della migrazione” delle donne bangladesi (Siddiqui, 2001). In seconda battuta, si cercheranno di approfondire alcune dimensioni strutturali della diaspora dal delta: le sue dimensioni e destinazioni, la sua portata economica.

Non esistono statistiche vere e proprie sulle migrazioni femminili dal Bangladesh e le fonti disponibili sono piuttosto contraddittorie poiché la valutazione del fenomeno migratorio “al femminile” si basa ancor oggi su ricerche circoscritte e fonti secondarie come quello dell’invio di rimesse effettuate da immigrate [1].

Ciò che maggiormente è cambiato rispetto alle “fasi” precedenti è il loro ruolo: esse sono sempre più protagoniste attive dell’emigrazione non partendo più solo al seguito dei mariti, anche se va evidenziato, però, che in termini relativi le donne bangladesi primomigranti rimangono una componente piuttosto bassa: è stato calcolato, infatti che nel corso di tutti gli anni ’90 sono emigrate dal Bangladesh circa 12.500 donne, una cifra irrisoria rispetto al peso quantitativo della migrazione maschile di cui costituisce meno dell’1% (Ibidem). Alcune stime stilate da organizzazioni non governative, però, affermano che queste cifre potrebbero risultare sensibilmente sottostimate, poichè le statistiche ufficiali che rilevano il flusso migratorio femminile slegato dal ricongiungimento familiare si concentrano maggiormente sui movimenti composti da donne professionalmente preparate (infermiere, insegnanti, ricercatrici, ostetriche, etc.), mentre le realtà occupazionali prevalenti, come quella del lavoro domestico, rimangono invisibili dal momento che il reclutamento e la collocazione lavorativa avvengono al di fuori dei circuiti ufficiali (Siddiqui, 1999: 2001).

I Paesi di destinazione delle immigrate bangladesi sono gli stessi della migrazione a breve durata maschile: i Paesi del Golfo e del sud-est asiatico (Malesia, Kuwait, Emirati Arabi, Oman, Bahrain, Qatar, Corea, Libano e Singapore) (Ibidem), ma le donne sono coinvolte soprattutto negli spostamenti interni al Bangladesh, dove trovano occupazione soprattutto nel settore domestico o nelle fabbriche di abbigliamento (Hossain et alii, 1990; Sobhan and Khundher, 2001; Siddiqui et alii, 2006a) o transfrontalieri diretti verso la vicina India o il Pakistan (Siddiqui, 2001), per  inserirsi nei posti del lavoro informale e domestico (Sikder, 2004; Siddiqui et alii 2006b; Aminuzzaman, 2008; Siddiqui and Sikder, 2007; Siddiqui, 2008).

Uno studio della Bangladesh Association of International Recruiting Agencies ha messo in evidenza che gli Stati del Golfo e del Medio Oriente sono maggiormente propensi a reclutare donne provenienti da Paesi a maggioranza musulmana per il lavoro domestico e di cura domiciliare; ciò potrebbe spiegare l’incremento degli ingressi in questi Stati di donne bangladesi a discapito degli ingressi di lavoratrici provenienti da altre nazioni.

1Le regioni di provenienza delle lavoratrici bangladesi sono prevalentemente quelle della capitale, Dhaka, e dei vicini distretti di Munshigani, Manikganj e Chandpur, sia dalle zone urbane che dalle aree rurali. Esse si inseriscono soprattutto nel mercato del lavoro domestico e di cura (soprattutto coloro che provengono dalle aree rurali e che posseggono un tasso di scolarizzazione medio-basso), ma non di rado vengono occupate come operaie nell’industria manifatturiera tessile poiché in possesso di una forte specializzazione nel settore. Per molte donne bangladesi, infatti, una forte spinta alla migrazione è stata la crisi dell’industria tessile locale (uno dei pilastri dell’economia nazionale), avvenuta a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 in seguito alle ristrutturazioni del Fondo Monetario Internazionale di cui si è accennato che hanno imposto l’eliminazione del sistema di protezione tariffaria. Ciò ha comportato l’incapacità delle industrie nazionali di competere con la concorrenza dei prodotti di importazione e la chiusura definitiva di un enorme numero di stabilimenti tessili e di lavorazione della juta. La maggior parte di queste aziende era a conduzione familiare e circa il 70% della forza lavoro era costituita da operaie (che, nel 90% dei casi, lavorava nell’impresa di famiglia senza percepire alcuna retribuzione); esse facevano parte di famiglie in grado di mobilitare le risorse necessarie, lasciando il Paese per migliorare il proprio status socio-economico.

Il tasso di femminilizzazione delle migrazioni dal Bangladesh è in modesta ma continua crescita e, se questo trend dovesse mantenersi costante, è probabile che nel giro di pochi anni anche i Paesi non considerati destinazione principale delle migrazioni femminili potranno essere coinvolti da consistenti arrivi di donne bangladesi primomigranti.

2La migrazione interna delle garments workers

L’80% delle esportazioni del Bangladesh è costituito dall’industria degli abiti pre- confezionati che nel 2012 avrebbe prodotto oltre 20 miliardi di dollari e oggi occuperebbe oltre 4 milioni di lavoratori. In Bangladesh, infatti, hanno delocalizzato parte della loro produzione aziende come Walmart, H&M, Zara, Lee, ma anche Benetton, Tezenis, Diesel, Coin, Diadora e molte altre. In meno di un decennio il Paese è così diventato il terzo esportatore di abbigliamento al mondo (dopo Cina e India) e il secondo nell’Unione Europea, verso cui esporta l’85% dei suoi prodotti. Eppure, quando la si interroga, la delegazione dell’Ue relativizza le cattive condizioni di lavoro.

Tale crescita, infatti, è avvenuta a discapito della sicurezza, dei salari e delle condizioni di lavoro. Negli ultimi dieci anni, sono morti oltre tremila lavoratori in incidenti avvenuti con cadenza quasi mensile. Vale la pena ricordare la tragedia del 24 Aprile, a Dhaka, quando è crollato il Rana Plaza, un edificio di nove piani contenente diversi laboratori tessili. Il bilancio finale è stato di quasi 1.200 vittime, tutti operai, per lo più donne. Il palazzo era stato costruito su un acquitrino interrato senza le dovute precauzioni, ma le autorizzazioni erano state firmate ugualmente su forti pressioni del Bgmea (Bangladesh Garments Manifacturers and Exporters Association), l’associazione che riunisce le aziende bangladesi produttrici di abiti in subappalto. Doveva essere composto da due o tre piani, ma – sempre su pressione degli industriali – ne sono stati realizzati nove. Conteneva pesanti macchinari e generatori di terza mano – spesso acquistati dai Paesi occidentali – che, nei piani alti, procuravano compromettenti vibrazioni.

I giorni precedenti a quel 24 Aprile, erano state individuate delle crepe, ma per onorare gli ordini dei marchi europei, i proprietari hanno intimato agli operai di tornare comunque al lavoro. Le richieste delle aziende occidentali, infatti, sono sempre più pressanti, richiedendo un crescente numero di capi  maggiore in un tempo sempre più compresso, sotto la minaccia di delocalizzare la produzione in altri Paesi asiatici considerati più “competitivi”.

Ma oltre a concentrarsi sulla struttura delle cosidette garments factory è necessario approfondire le condizioni lavorative che hanno luogo nel loro interno. L’85% della forza-lavoro è composta da giovani donne, originarie delle aree rurali, impegnate 7 giorni su 7 in turni lavorativi di 13 ore al giorno, ma che frequentemente possono dilatarsi fino a costringerle a rimanere chine sulle macchine 19 ore di fila o, comunque, a sostenere ritmi di 80 ore settimanali. Gli straordinari – “ovviamente” spesso non retribuiti – sono raramente frutto di “libera scelta”. Oltre a non avere il permesso di comunicare tra loro e a essere perquisite all’uscita, le lavoratrici vengono spesso chiuse a chiave dentro le fabbriche – senza via di scampo in caso di crollo o incendio – al fine di intensificare la produzione e soddisfare le esigenze del just-in-time.

La libertà sindacale è inesistente e chi ha contatti con qualsiasi organizzazione dei lavoratori viene licenziata. Per concludere questo affresco che ricorda i romanzi di Charles Dickens, vanno segnalati i frequenti stupri da parte del personale responsabile e del versamento di una quota mensile del salario affinché i supervisori non molestino le operaie. Già, il salario…

Women work at a garment factory in SavarA scanso di equivoci, va sottolineato che la fabbricazione di una polo in cotone in Europa costa circa 15 euro, in Bangladesh meno di un terzo; che non sono il materiale (5 euro in Occidente e 3 in Bangladesh) o il processo di lavaggio (75 centesimi “qua” e 25 “là”) a fare la differenza, ma il costo della forza-lavoro: un’ora di lavoro di un operaio in Europa (8 euro) può arrivare a equivalere fino a 40 ore di una lavoratrice di una garments factory. Ecco, dunque, cosa attira i marchi europei nella cintura industriale di Dhaka. Gli stipendi mensili, infatti, variano dai 13 ai 30 euro mensili, pochi centesimi di euro l’ora ne fanno la manodopera meno pagata del pianeta. A titolo di paragone, in Vietnam, gli operai guadagnano circa 75 euro mensili, in India, 112.

L’Asia Floor Wage, un’organizzazione sindacale interasiatica, valuta in 72 euro mensili il minimo vitale per una persona senza carichi familiari in Bangladesh. Non è raro, dunque, che moltissime coppie, i cui componenti sono entrambi occupati nell’industria del pret-à-porter, siano costrette ad abitare in baracche di lamiera e cartone nei bastee – gli slum delle metropoli del subcontinente – di Dhaka e Gazipur. Al contempo, però, il boom economico del Paese – trainato dalle localizzazioni dell’industria tessile europea, dagli anni ’90 in poi – ha contribuito a una significativa trasformazione delle relazioni tra i generi nella società bangladese.

Le prime donne che hanno colto questa opportunità furono le divorziate e le ripudiate. Solitamente ai margini della comunità delle aree rurali, sono emigrate a Dhaka con i loro bambini in braccio, in cerca di un reddito e in fuga da miseria e precarietà. Pian piano, altre hanno seguito il loro esempio. Ragazze che, con o senza l’approvazione della famiglia, sognano un futuro migliore, cercano di offrire una migliore istruzione ai figli, fuggono da un matrimonio combinato non gradito o provano, in questo modo, a racimolare il denaro per la propria dote. Non temono più il giudizio gli ambienti più “tradizionalisti” – che vedono in questo esodo al femminile una messa in discussione delle strutture patriarcali – e, spesso, godono di un parziale sostegno dell’opinione pubblica che, tanto nelle aree urbane quanto nei villaggi rurali, sta progressivamente cambiando segno a loro favore.

Nonostante lo sfruttamento selvaggio della manodopera, dunque, la dirompente diffusione delle garments factory ha compartecipato alla ristrutturazione della società attraverso la parziale emancipazione delle donne più povere. Un altro segnale del cambiamento è rintracciabile nell’adesione di un numero sempre maggiore di donne ai frequenti scioperi e alle manifestazioni – ancora prevalentemente declinate al maschile – degli operai tessili che si rifiutano di subìre passivamente le pessime condizioni lavorative imposte dall’industria europea. Le manifestazioni mobilitano decine di migliaia di persone che, sospendendo la produzione, irrompono con determinazione nelle strade, attaccando le fabbriche, spesso date alle fiamme. Il governo risponde con arresti e l’invio dell’esercito per proteggere le fabbriche e le aree bloccate della capitale. I sindacalisti vengono sequestrati, torturati – talvolta uccisi – e abbandonati su strade nelle periferie di Dhaka. I lavoratori e le lavoratrici reclamano il rispetto dei loro diritti: un giorno di riposo settimanale, una giusta remunerazione delle ore lavorate e di quelle straordinarie, la libertà di organizzazione sindacale, ma soprattutto maggiori garanzie sulla sicurezza e l’innalzamento del minimo salariale a circa 75 euro.

Se in un primo tempo, il primo ministro, Sheikh Hasina, aveva espresso una timida solidarietà di facciata ai manifestanti e la sua indignazione per i bassi stipendi e le pessime condizioni di sicurezza, in un secondo momento, di fronte alla loro insoddisfazione per un aumento di circa 20 euro ritenuto insufficiente e al conseguente proseguimento degli scioperi, non ha esitato a far intervenire l’esercito, accogliendo le richieste di intervento del Bgmea. Il governo teme che gli importatori europei spostino la produzione altrove. Gli ordini, infatti, non sono concentrati in un unico Paese, ma possono essere ri-delocalizzati in tempo reale. In questo modo le grandi marche non dipendono dagli eventuali rischi di produzione in uno specifico Paese. Gli industriali, infatti, ripetono che non possono soddisfare le richieste salariali, perchè il Bangladesh non riuscirebbe a essere competitivo nei confronti di altri Paesi a causa dei costi di produzione più alti dovuti alle difficoltà di approvvigionamento energetico, alle carenze delle infrastrutture e dei trasporti. Vulnerabilità strutturali scaricate, così, sui lavoratori.

Non va dimenticato, però, che in seguito agli aggiustamenti economici e alle liberalizzazioni dettate dagli organismi finanziari internazionali, le risorse e le infrastrutture del Bangladesh sono solidamente in mano a colossi occidentali. Ciò comporta un impoverimento del Paese che costringe la classe lavoratrice locale a piegarsi a condizioni di sfruttamento imposte, ancora una volta, da aziende occidentali. È facile intravedere una relazione di tipo coloniale tra il vecchio continente e il giovane Paese asiatico e, soprattutto, le conseguenze di un sistema di produzione economica e organizzazione sociale che accomuna le esistenze di sempre più persone dal Bangladesh all’Europa, ma che non è più sostenibile né “qua”, né “là”.

4La migrazione delle donne per ricongiungimento familiare nella Europa mediterranea

Come anticipato, la prima generazione di probashiin Italia e, più in generale, nell’Europa meridionale, era costituita pressoché totalmente da uomini, spesso celibi: giovani di classe media (e talvolta medio-alta) urbana o membri di famiglie rurali benestanti. I ricongiungimenti familiari che caratterizzano la prima fase della diaspora bangladese nella Penisola, quindi, si configurano esclusivamente come ricongiungimenti “al maschile” e “di secondo livello” o “neocostituiti” (Tognetti Bordogna, 2005). Tale definizione si riferisce alla situazione in cui il primomigrante, una volta createsi le necessarie condizioni, fa rientro nel Paese di origine per sposarsi – il più delle volte con matrimonio combinato – con una donna che, subito dopo, viene ricongiunta in quello di immigrazione. Se dal punto di vista della società di immigrazione, tale coppia costituisce una famiglia ricongiunta, dal punto di vista della società di emigrazione, la stessa famiglia prende forma fattualmente col rilascio del nulla osta al ricongiungimento. Tale evento rappresenta, così, il congiungimento di due sposi che inaugurano nel Paese di immigrazione l’esperienza della co-residenza e della coniugalità e che, spesso, iniziano a conoscersi solo da quel momento.

È utile esplicitare, inoltre, che per mettere in atto la sua progettualità matrimoniale il migrante deve attenersi ai tempi rigidamente contingentati dai propri impegni lavorativi, sfruttando, cioè le ferie a sua disposizione. Ciò significa che una volta celebrato il matrimonio egli deve rientrare in Italia, dove è chiamato a timbrare il cartellino sul posto di lavoro [2] e attendere il disbrigo delle pratiche per il ricongiungimento.

Coerentemente con la norma virilocale vigente in Bangladesh, nell’intervallo di tempo che intercorre tra il matrimonio e l’effettivo ricongiungimento, solitamente è previsto che la sposa si trasferisca nella casa della famiglia del marito, dove dovrà assecondare i parenti acquisiti in virtù della posizione subordinata che l’assenza del marito e il recente ingresso nella cerchia familiare le assegnano. Il ricongiungimento col marito in Europa, quindi, può costituire una forma di affrancamento della neo-sposa da tale subordinazione.

La migrazione della donna a seguito del marito, possibile attraverso l’istituto del ricongiungimento familiare, può essere letta come la continuazione – in uno spazio transnazionale – della sua transizione dal gruppo familiare del padre a quello del marito (e/o del suocero), sancita dal matrimonio compiuto entro le regole della virilocalità. Tale spostamento interfamiliare – e ora anche intercontinentale – permette di «costruire nuove famiglie con pezzetti di quelle precedenti, che dovranno perciò essere frantumate» (Lévi-Strauss, 1976: 15).Il ricongiungimento, dunque, riproduce le modalità di costruzione di nuove famiglie attraverso i continenti e nonostante la migrazione dello sposo.

La moglie dopo aver vissuto lo “strappo” della migrazione dal proprio contesto si trova ad affrontare il trauma della migrazione per ricongiungimento. L’arrivo in Italia, quindi, non costituisce solo una via di fuga da relazioni insoddisfacenti internamente alla famiglia estesa del marito, ma può destabilizzare variamente le donne: la loro migrazione si sovrappone a un momento di forte transizione per i molteplici passaggi di status e per i repentini cambiamenti del contesto – sociale, familiare e abitativo –, provocando dolore e disorientamento, solitudine e sofferenza.

5Per comprendere appieno la condizione delle mogli ricongiunte è necessario soffermarsi su alcuni elementi. Se, con il ricongiungimento, per gli uomini la casa diventa il centro degli affetti, lo spazio dove ritrovare la famiglia dopo il lavoro, per le mogli il perimetro dell’abitazione può rivelarsi una prigione più o meno dorata, un luogo totalizzante.

Nel Paese di origine, esse trascorrevano le loro giornate nel contesto relazionale della famiglia allargata del marito assente. Da un lato, come anticipato, ciò può comportare la subordinazione al potere della suocera, delle cognate e, più in generale, degli altri membri della famiglia; dall’altro lato, la famiglia del marito può fornire alla sposa una rete relazionale densa e non per forza segregante: tra le donne dell’aggregato domestico possono crearsi, infatti, anche legami di confidenza e complicità. La rigida gerarchia tra i membri della famiglia di origine del marito, il controllo e l’oppressione a cui la giovane nuora sarebbe sottoposta possono coesistere e conciliarsi con legami di solidarietà, calore domestico e protezione familiare.

Il termine inglese household trova il suo corrispettivo in lingua bangla nel termine khana che indica «le persone che mangiano cibi preparati nello stesso focolare» o anche «un gruppo unito dove i membri lavorano e vivono insieme, secondo una divisione dei ruoli e di autorità» (Inden and Nicholas, 1977; Zaman, 1996); essa costituisce la base di ogni rapporto di produzione e riproduzione e l’unità della parentela – soprattutto nelle aree rurali del Bangladesh. Diverse khana collegate tra loro da legami di parentela formano una bari e diverse bari costituiscono una para (o gusthi); diverse para formano un villaggio (gram), l’unità socio-economica e riferimento politico-amministrativo dei residenti.

Specialmente nelle aree rurali, inoltre, viene performata e riprodotta – seppur nel mutamento – la pratica del purdah. Tale espressione, che significa letteralmente “velo” o “cortina”, indica l’insieme delle pratiche incorporate che contribuisce alla costruzione del “pudore”, dell’“onore” e della “vergogna” e preserva la separazione, simbolica o materiale, dei generi e delle sfere di attività genderizzate attraverso l’abbigliamento, le pratiche quotidiane, la strutturazione degli ambienti domestici, la segregazione fisica (Gardner, 1995). Il purdah sta a indicare l’esclusione della donna dalla sfera pubblica, rappresenta la limitazione del raggio di azione sociale femminile alla frequentazione di uomini che non siano familiari e può portare all’isolamento entro le mura della casa. In virtù della organizzazione domestica e della struttura familiare poc’anzi descritta, però, le mogli left-behind in Bangladesh, pur rispettando i precetti del purdah, hanno la possibilità di godere quotidianamente di fitti legami relazionali e parentali. Nel momento in cui vengono ricongiunte, invece, la volontà di mantenere le norme sociali interiorizzate relative al transito negli spazi extra-domestici o nell’utilizzo di quelli domestici può finire per far coincidere il loro spazio sociale con quello casalingo o con limitate porzioni di esso.

Col ricongiungimento, la vivacità dei legami parentali e la familiarità dell’ambiente di origine cedono il passo al diradamento delle reti sociali e alla solitudine di una stanza ingiallita o di un appartamento fatiscente dove le giovani spose si trovano a vivere con un marito estraneo o con cui non c’è stato modo e tempo di costruire alcuna intimità. Gli stessi mariti descrivono la sofferenza delle mogli che, sole per tutto il corso della giornata, possono disporre solo per pochi attimi della compagnia del coniuge che ritorna a casa esausto dopo interminabili turni di lavoro [3].

Sulle donne ricongiunte ricade, così, il misconoscimento collettivo della verità della migrazione: le menzogne, le omissioni e le ostentazioni che riproducono nel Paese di origine le illusioni relative alla terra di immigrazione. Questo misconoscimento riguarda il contesto fisico e sociale dell’inserimento dei primomigranti e delle mogli, ma anche il declassamento, l’esclusione lavorativa e le difficili condizioni socio-materiali da loro vissute.

La migrazione “familiare” trasferisce sulle mogli la stessa amara disattesa che ha visto protagonisti i mariti all’epoca del loro arrivo in Italia. Da figlie e nuore istruite della classe medio-alta bangladese, abituate a una vita agiata e al prestigio del loro posizionamento sociale, si ritrovano mogli di operai generici, rinchiuse nei freddi appartamenti di un quartiere di periferia. Al declassamento, alla solitudine e alla “doppia assenza” (Sayad, 2002) dello status di immigrate si aggiungono le inedite incombenze della condizione di casalinga. Se, in Bangladesh, il lavoro domestico è scaricato su personale salariato al servizio dell’unità domestica o condiviso tra le numerose presenze femminili della famiglia estesa, all’interno della famiglia ricongiunta tutte le incombenze del lavoro riproduttivo ricadono unicamente su di loro.

6I numeri della diaspora bangladese

A dispetto delle percezioni dei Paesi europei, la migrazione dal Bangladesh interessa solo marginalmente l’Europa. La diaspora bangladese, infatti, è orientata innanzitutto verso altre nazioni del subcontinente indiano. In primis verso l’India, con cui il Bangladesh condivide affinità politiche, culturali e, in parte, linguistiche, oltre a tutto il suo confine di terra; e verso il Pakistan, con cui, ovviamente, il Paese conserva forti relazioni – anche se, comprensibilmente, ambivalenti, controverse, quando non conflittuali. In India risiedono oltre 3 milioni e 100 mila bangladesi a cui si aggiungono i migranti transfrontalieri, mentre in Pakistan ne sono presenti circa 3 milioni.

Gli altri Paesi di maggior destinazione della diaspora dal Delta sono le petrolmonarchie arabe: in Arabia Saudita si contano 2 milioni 500 mila lavoratori bangladesi, negli Emirati Arabi Uniti un milione. La Gran Bretagna, ex madrepatria coloniale e centro del Commonwealth, conta circa 500 mila immigrati bangladesi entro il suo territorio, così come la Malesya. Altri Paesi del così detto “sud-est asiatico”.

In Italia, come anticipato, si annoverano tra i 130 mila e i 150 mila immigrati bangladesi (stimando anche gli immigrati senza un regolare documento di soggiorno), contingenti minori di quelli presenti in Paesi come il Kuwait (230 mila), l’Oman (200 mila) e il Qatar (160 mila).

7La prima industria del Paese

Coerentemente con questi dati, quindi, appare chiaro come i movimenti di manodopera verso il Medio Oriente e il Sud-Est asiatico abbiano sempre ricoperto un’importanza decisiva per il Bangladesh in termini di incidenza sulle riserve di capitali statali. Dall’inizio degli anni ‘90, infatti, la portata numerica dei probashi e delle loro rimesse sono aumentate vertiginosamente fino a risultare il principale pilastro dell’economia nazionale, al punto che è stato istituito l’Expatriates’ Welfare and Overseas Minister. I dati ufficiali, che riescono a fotografare solo una frazione del fenomeno totale, mostrano la tendenza al progressivo aumento degli introiti economici che il Paese ha incamerato attraverso le rimesse dei lavoratori all’estero: l’ingresso delle rimesse registrato dalla Banca Nazionale del Bangladesh è salito, infatti, dai 200 milioni di dollari del 1980 al miliardo di un decennio dopo per arrivare ai 5 miliardi di dollari nel 2006. Per dare un’idea del peso delle rimesse dei cittadini bangladesi residenti all’estero si segnala che il 30% delle riserve nazionali è costituito dal denaro inviato in patria dai lavoratori emigrati che, solo riferendosi a quelli che hanno percorso canali legali, sono stati quasi 7 milioni tra gli anni ‘80 e il 2009.

Le rimesse degli emigrati costituiscono la prima risorsa economica del Paese superando anche l’industria degli abiti preconfezionati. Cifre del 2003 mostrano come i guadagni netti dell’industria dell’abbigliamento delocalizzata in Bangladesh abbiano oscillato tra i 2,29 e i 2,52 miliardi di dollari, mentre quelli derivati dalle rimesse dei cittadini emigrati all’estero toccavano i 5 miliardi e nel 2011 hanno raggiunto la cifra record di oltre 10 miliardi di dollari. Se mettiamo in relazione le irrisorie paghe percepite dagli operai (e, soprattutto, dalle operaie!) delle garments factory con le risorse guadagnate dagli emigrati e inviate in patria sotto forma di rimesse, si delineano i confini di un vero e proprio imperialismo che lavora svalorizzando il costo della manodopera utilizzata in Bangladesh e le attribuisce valore solo se messa al lavoro nei centri del mercato mondiale.

Va sottolineato, inoltre, che queste cifre non includono le risorse inviate attraverso i canali non ufficiali, aggirando, cioè, il sistema bancario con l’utilizzo del sistema hundi o hawala. (Siddiqui, 2000; Shameem, 2010). Il sistema hundi è la più importante via informale per trasferire soldi in Bangladesh. Secondo questo sistema, i migranti consegnano i loro soldi ad un agente hundi nel Paese di immigrazione, il quale contatta un altro agente in Bangladesh che rende la somma inviata dal richiedente alla famiglia dell’immigrato (nella moneta corrente). Sebbene sia applicato un tasso di scambio informale, il metodo è più veloce ed economico rispetto ai canali ufficiali, oltre ad essere possibile anche nelle aree rurali del Paese, prive di sistema bancario (Zeitlyn, 2006).

8All’inizio degli anni ‘80, secondo i dati della Banca Mondiale, le rimesse provenienti dall’area del Golfo Persico costituivano il 78,12% del totale delle rimesse dei lavoratori bangladesi emigrati contro il 12,33 punti percentuale di quelle provenienti dalla Gran Bretagna; l’incidenza prosegue con un tasso di crescita costante fino a raggiungere, nel 1996, la percentuale dell’87,72% contro il 13,88% del totale proveniente dagli altri Paesi europei. Quest’ultima rilevazione, infatti, tiene conto delle rimesse provenienti dagli altri Paesi europei che si configureranno, proprio a cavallo di questi anni, come nuove mete di destinazione dei fenomeni migratori dal Bangladesh.

Già nel 2004, inoltre, le rimesse dei probashi costituivano un contributo quattro volte superiore rispetto agli aiuti umanitari internazionali indirizzati verso il Paese asiatico che ammontavano a circa 40 dollari per abitante all’anno, mentre altre cifre parlano di 2 miliardi di dollari l’anno. Nel 2016, i dati della Banca Mondiale certificano l’impatto diretto delle rimesse sulle economie dei Paesi beneficiari e mostrano che, a livello mondiale, relativamente all’incidenza sul Pil nazionale, le rimesse degli emigrati costituiscono circa il 9% del Prodotto Interno Lordo del Bangladesh con quasi 12 miliardi di euro all’anno. Il contributo dei probashi in termini di sviluppo economico al loro Paese di origine risulta di gran lunga superiore a quello degli Aiuti Pubblici per lo Sviluppo: il valore pro-capite di questi ultimi (appena 2 miliardi di euro provenienti da tutte le economie mondiali) si ferma all’1,5% del Pil (pari a 13 euro annui pro-capite) (Fondazione Leone Moressa, 2015; 2016).

Gli emigrati bangladesi quindi, sono più produttivi per il proprio Paese sia dell’industria degli abiti preconfezionati, sia del contributo delle principali economie industrializzate al mondo, costituendo, così, la prima industria del Paese la cui principale esportazione è quella della forza-lavoro.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Note
[1] Sulle migrazioni femminili dal Bangladesh si veda il documentario prodotto dal Refugees and Migratory Movements Research Unit e Media Mix, Another Orizon: Female Labour Migration from Bangladesh, Rmmru, Dhaka, 2004.
[2] Si veda, a questo proposito, il documentario di Vittorio Moroni, Le ferie di Licu, Roma, 50N, Rai Cinema, 2007.
[3] Si rimanda nuovamente al documentario di Vittorio Moroni.
Riferimenti bibliografici
Aminuzzaman, M.S. (2008), Migration of the Skilled Labour from Bangladesh. The Case of Nurses, Dhaka, Rmmru.
Fondazione Leone Moressa (2015), Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. Stranieri in Italia: attori dello sviluppo, Bologna, Il Mulino.
Fondazione Leone Moressa (2016), Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. L’impatto fiscale dell’immigrazione, Bologna, Il Mulino.
Gardner, K. (1995), Global Migrants, Local Lives. Migration and Transformation in Rural Bangladesh, Oxford, Oxford University Press.
Hossain, H., Jahan R. and S. Sobhan (1990), No Better Option? Industrial Women Workers in Bangladesh, Dhaka, University Press Limited.
Inden, R. and B. Nicholas (1977), Kinship in Bengali Culture, Chicago, Chicago United Press.
Lévi-Strauss, C. (1967), Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, Einaudi.
Sayad, A. (2002), La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Cortina.
Shameem, A.K.M. (2010), Can we do more for the expatriates? Remittance scenario of Bangladesh, Dhaka, Bangladesh Economic Association, Report 2010.
Siddiqui, T. (1999), “Cross Currents of Empowerment and Marginalization. Women of Bangladesh in Transition”,  Biiss Journal, 20 (4): 524-549.
Siddiqui, T. (2000), State, Migrant Workers and the Wage Earners’ Welfare Fund, Dhaka, Rmmru.
Siddiqui, T. (2001), Transcending Boundaries. Labour Migration of Women from Bangladesh, Dhaka, The University Press Limited.
Siddiqui, T. Sikder, J. Rahman, R. M. F., Hiley S. and S. McPhee (2006a), Impact of Internal Migration of Female Garments Workers on Certain Sector of Rural and Urban Economy, Dhaka, Rmmru.
Siddiqui, T., Rashid, S. R., Karim K. R. and N. Alam (2006b), Trapped in Confusion. Trafficking of Women and Children from Bangladesh, Dhaka, Rmmru.
Siddiqui, T. (2008), Perceived Bangladeshi Domestic Workers in Delhi, Dhaka, Rmmru.
Siddiqui, T., Sidker M. J. U. and K. N. M. H. Haque (2005), Work Condition of Bangladeshi Factory Workers in The Middle Eastern Countries, Dhaka, Rmmru.
Sikder, M.J. (2004), Border, Livelihood and Informal Trade, Dhaka, Rmmru.
Sobhan, R. e Khundker, N. (2001), Globalisation and Gender. Changing Patterns of Women’s Employment in Bangladesh, Dhaka, University Press Limited.
Tognetti Bordogna, M. (2005), “Struttura e strategie della famiglia immigrata”. La Rivista delle Politiche Sociali, 4: 171-197.
Zaman, H. (1996), Women and Work in Bangladesh Village, Dhaka, Narigrantha Prabartana.
Zeitlyn, B. (2006), Migration from Bangladesh to Italy and Spain, Dhaka, Rmmru.

________________________________________________________________

Francesco Della Puppa, dottore di ricerca in Scienze Sociali e assegnista di ricerca senior presso l’Università di Padova, è membro del Master su Fenomeni Migratori e Trasformazioni Sociali e del Laboratorio di Ricerca Sociale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Da anni studia i processi di migrazione dal Bangladesh, i suoi attuali interessi di ricerca sono relativi alla famiglia immigrata e al processo di ricongiungimento familiare, alle onward migration e alla mobilità migratoria intraeuropea, ai giovani di origine immigrata e all’Innovazione sociale.
 ________________________________________________________________________________
Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Migrazioni, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>