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Esclusivismo culturale. I luoghi come via di fuga, l’antropologia come mappa

Mazara del Vallo, il porto (ph. Ivana Castronovo)

Mazara del Vallo, il mercato ittico (ph. Giuseppe Sorce)

dopo saman

di Giuseppe Sorce

Erano i primi giorni di settembre e decidemmo finalmente di andare a Mazara. Non vi ero mai stato se non da piccolissimo, di passaggio. Non ricordavo nulla. Ciò che mi accolse fu pertanto totalmente nuovo, anzi, alieno, per me. Oltre ad alcuni pattern architettonici e paesaggistici che riuscivo a riconoscere, una tiepida aria di estraneità cominciava ad avvolgermi appunto, già dai primi minuti dopo l’arrivo, in macchina, di sera.

Venivamo da Marsala, dove avevamo consumato l’ormai tipico aperitivo al tramonto alle saline, qualcosa che non ho davvero mai capito fino in fondo. O per lo meno, credo di aver apprezzato un aspetto di quella situazione che in pochi sicuramente apprezzano già, ossia l’incanto di quello che per me è un momento sospeso nella geostoria del rapporto umanità-mondo, homo sapiens-terra. Per chi non fosse familiare alla scena, la descriverò brevemente. Prendete le saline di Marsala, le sue acque fucsia racchiuse nelle sue vasche quadrangolari di acqua marina stagnante, le sottili strisce di terra che collegano le vasche, con  i mulini dismessi, con le altre vasche a perdita d’occhio, le Egadi di fronte, il profilo imperioso di Favignana fra tutte, una schiera numerosa di persone, ben vestite (cioè vestite in un modo, con dei colori, tagli e forme, che secondo loro si può considerare “ben vestiti” per l’occasione), che fanno la fila per dei calici di vino, che reggono improbabili stuzzichini, spesso delle patatine fritte flosce e secche, oppure sono già sedute su dei  sedili di legno a sorseggiare qualcosa, ci sono addirittura dei tavoli speciali che si trovano appena un gradino sotto tutti gli altri, sono proprio a pelo d’acqua, si fanno selfie in continuazione, di fronte il sole tramonta sprigionando un arancione intenso ma breve, soprattutto d’estate, soprattutto con il clima umido e grigio di questa estate appena passata, e non appena arriva il momento in cui il sole pare poggiarsi sull’orizzonte ecco letteralmente quasi chiunque afferra il proprio cellullare e lo punta avidamente verso quella direzione, verso il sole che tramonta, faranno la loro solita foto pressoché inutile – anch’io l‘ho fatta, ovviamente – che si andrà a perdere nelle memorie sterminate dei dispositivi, assolutamente non inconfondibile fra le altre foto dei tramonti dell’estate, tutti simili, di brutta qualità (perché i sensori fotografici dei cellullari sono comunque minuscoli), tutti raggruppati in quelle due tre settimane, perché nel resto dei giorni dell’anno a quasi nessuno fra tutti gli avventori e avventrici dell’aperitivo alle saline importa veramente del tramonto.

Cosa apprezzo di questo mesto rituale del tardo capitalismo cannibale e zombificato? Mentre cercavo di dare un senso a quel momento che andasse oltre la pura formalità, ho infatti riflettuto a partire proprio dal luogo in cui ritrovavamo – uno spazio ben preciso all’interno del sistema-terra e una storia ben precisa all’interno della storia del sistema-terra – come sempre si dovrebbe fare, nell’analisi e nella pratica. Mi sono ritrovato perciò ad assaporare la natura spettrale di quel luogo e di quel momento. Un luogo che fra poche decine di anni non esisterà più, considerando l’innalzamento del livello del mare e considerando che lì ci si trovi probabilmente al di sotto, e una pratica, quale il consumare ridotte quantità d’alcol e di cibo su una salina sotto il livello del mare agghindati in un modo bizzarro e di cattivo gusto, che sparirà anch’essa insieme a quel luogo per radicarsi altrove. È stato tutto sommato come fare una gita in un momento e in luogo del passato e mentre immaginavo di raccontare quei luoghi e quelle pratiche a eventuali nipoti che abiteranno un modo un po’ diverso, eravamo già in macchina, direzione Mazara del Vallo.

Mazara del Vallo, la Kasba (ph. Ivana Castronovo)

Mazara del Vallo, la Kasba (ph. Ivana Castronovo)

Arrivammo di sera, come dicevo, e non so perché non ricordo il resto del viaggio se non l’arrivo. Per me quindi la prima cosa che esiste di Mazara è il lungomare e l’accenno di un porto come sospeso nel tempo. Dopo una cena agli inizi della Kasbah e una breve visita alla piazza centrale che mi ricordò molto Palermo come luci, colori e forme, gli amici che ci facevano da guida decisero che era arrivato il momento di “perdersi nella Kasbah”. Con Dialoghi Mediterranei in testa immaginavo di trovare un portone, un’insegna, un riferimento all’Istituto Euroarabo, ne trovai molte altre, molte associazioni, attività, circoli che, insieme alle poesie|riflessioni,  di bambini e bambine, incise/appese alle mura, mi fecero subito sentire dentro un qualcosa che pulsa, come un cuore al di là di metafora, quelle strette viuzze, stradine e vicoli colorati, pieni di significati, diversi, di versi, ingenui, innocenti, drammatici, a volte e divertenti, mi fecero sentire come proprio in viaggio fra ventricoli, arterie, e vasi sanguigni di un luogo vivo.

È così? È solo l’impressione di un visitatore alieno quale ero io? Non lo so, e non mi importa più di tanto fare retro-analisi di un grumo di sensazioni e visioni perché il segno che hanno lasciato va oltre l’analizzabile. Ciò non di meno è proprio quello che cercherò di fare con queste parole e con quelle che rimangono fino alla fine di questa riflessione. Mentre le mie guide mi raccontavano del luogo e della storia di Mazara, accennavano spesso a come fosse frequente incontrare gli abitanti della Kasbah, che lì si stava non come altrove, e difatti successe. Incontrammo una donna verosimilmente del Maghreb che riuscì a darci indicazioni in quel dedalo per trovare la casa blu, incrociammo sguardi di inquilini di un piano terra che ci sorrisero augurandoci buona serata, alcuni ragazzi che ci salutarono e poi infine arrivammo alla casa blu dove trovammo il proprietario lì fuori seduto che ci raccontò la sua vita sotto le luci della notte nei vicoli.

Qualcuno stava lavando il pavimento di casa e alcuni rivoli d’acqua riversatisi, scendendo per una stradina, illuminavano le mura curve indicandoci la via per il mare. Ci perdemmo un’altra volta. Improvvisamente, dietro quello che sembrava un altro vicolo senza uscita, scoprimmo che la strada si allargava e proseguiva, allora ci ritrovammo in una sorta di ampio cortile. Illuminato da tante luci colorate appesa a dei fili che attraversavano tutto lo spazio, c’erano degli alberelli, e due grandi e lunghi tavoli, cibo e bevande, gli adulti erano seduti lì attorno, vicino una piccola brace, i più giovani bambini e ragazzine erano in piedi, giocavano e chiacchieravano rumorosamente, alcune donne dibattevano giocosamente in piedi mentre gli uomini erano intenti ad ascoltare una vecchia radio dalla quale proveniva una voce in francese che si mischiava con una lontana musica dalle melodie arabeggianti. Le discussioni che non abbiamo interrotto col nostro passare erano un po’ in italiano, un po’ in dialetto mazarese e un po’ in quello che alle mie orecchie sembrava arabo.

Mazara, portocanale (ph. Giuseppe Sorce)

Mazara del Vallo, portocanale (ph. Giuseppe Sorce)

Sembrava una festicciola, o forse era una semplice cena fra famiglie amiche, chi si accorse di noi ci sorrise, ci guardò con serenità e mi è parso che qualcuna fra le ragazzine e qualcuno fra gli uomini più anziani seduti attorno il tavolo, tacendo bonariamente per un istante, ci volesse invitare quasi a restare lì per scambiare due parole, magari bere qualcosa. Perché il nostro passare da lì era stato un genuino passare, un non voler disturbare pur passando per una strada come tutte le altre, pur passando sfrontatamente per un luogo di cui non conoscevamo neanche l’esistenza. Una volta lasciatoci il cortile alle spalle, calò il silenzio tra noi, ma era soltanto stupore travestito da timidezza. Ci siamo guardati e abbiamo capito di aver avuto le stesse sensazioni, come se per un attimo fossimo entrati a casa di parenti mai conosciuti, come se fossimo stati accolti da una grande famiglia, senza convenevoli ma solo con spontaneo affetto. Siamo stati al sicuro, siamo stati al sicuro seppur estranei, siamo stati al sicuro seppur di passaggio.

Discutemmo per qualche minuto sul fatto che fermarsi lì a chiacchierare con quelle persone sarebbe stato bello, sarebbe stata un’esperienza magica, sarebbe stata antropologia pura, senza calcoli, senza coordinate, l’antropologia come mappa e basta, senza citazioni obbligate, senza progetti obnubilanti. Ma siamo sati timidi, forse, io sicuro. Ci ritrovammo sul mare, dopo aver attraversato fiumane di gente – era sabato sera. Vidi il portocanale e convinsi gli altri ad andare a vedere. Vedevo barche e pescherecci nel buio, ammassi di reti, strutture metalliche arrugginite, cassette di pesce con ancora qualche resto, insegne a led in lontananza e poi l’odore dei porti, quelli dei pescherecci, e il suono incessante del metallo e del legno che ritmicamente urtano la banchina, e gli scafi che lentissimamente si dondolano sull’acqua. Era notte, l’estate stava per finire, ma a quell’ora eravamo noi soli, fra i pescherecci bruni e le acque nere quasi immobili, il cielo carico di nuvole sembrava non esistere nel giallo ombroso dei lampioni. Tornammo a casa ma io ritornerò a Mazara.

Mazara del Vallo, il porto (ph. Ivana Castronovo)

Mazara del Vallo, il portocanale (ph. Ivana Castronovo)

Perché questo racconto? Perché c’è qualcuno a cui ancora fa comodo tirare fili e dividere le cose, separare i fenomeni del mondo con linee rette. Qua ci stai tu qua ci sto io, io sono così tu sei diverso. Invece credo che le cose del mondo, i luoghi e le storie che sono le cose del mondo da cui la nostra esistenza è permeata indistinguibilmente, siano un po’ più come la Kasbah di Mazara, e il porto di Mazara, complesse, sommesse molto spesso, nascoste e aperte allo stesso tempo al mondo e a se stessi [1]. Tuttavia, fa ancora comodo parlare di un noi e un loro, di un Occidente e di un non-Occidente. Mi riferisco al dibattito sviluppatosi qui su Dialoghi Mediterranei, sulle minoranze e sull’Occidente a partire da un caso spiacevole di cronaca [2]. Prima di una notazione sul caso specifico, ciò che mi premeva ricordare è proprio la faziosità con cui oggi, e sottolineo “oggi”, spesso si fa riferimento a una macroidea di Occidente che è più un concetto-trappola che una parola chiarificatrice. Se nel passato recente la critica postcoloniale è riuscita, nelle sue espressioni di migliore qualità, a dare un grande contributo per la comprensione del mondo e delle dinamiche umane, oggi parlare e utilizzare il concetto di Occidente come soggetto sociale e culturale uniforme ed omogeneo diventa rischioso. Ci sono argomenti che lo consentono, io stesso ne faccio uso a volte per circoscrivere culturalmente un fenomeno di consumo limitato e descrivibile comunque argomentabile con altri strumenti affidabili (studi, statistiche, mappe, strumenti quantitativi). Molte volte però, quando si va a fondo, quando si vuole fare antropologia di un caso specifico, una comunità, un fenomeno individuabile con precisione, un oggetto culturale diffuso in maniera omogenea, contrapporre un qualcosa che si suppone essere occidentale (senza mai indicarne o riportarne in qualche modo un’eziologia seria) a un non-occidente mi sembra un’operazione abbastanza superficiale, da furbi o da pigri, comoda, riduttiva, semplificante.

Il concetto di occidentale è ultimamente più vaporoso che mai, è sufficiente fare ricerca sul campo, o semplicemente fare pratica antropologica, per rendersi conto che significa tutto e niente, seppur, come ho detto, alle volte può rendere sufficientemente un’idea, può dare delle indicazioni, anche giuste, per valutare certi fenomeni. Per esempio, la Kasbah di Mazara, l’abitare la Kasbah, la Kasbah come luogo, la sottocultura della Kasbah, può rientrare sotto l’etichetta di “occidentale”? Siamo in Italia, che in teoria è un Paese occidentale, ma la Kasbah è “occidentale” così come un quartiere di analoghe dimensione di, che so, Vercelli o Strasburgo? Chi definisce quanto una cosa è occidentale o no? [3] Ipotizzo, immagino, che la Kasbah possa essere definita occidentale da chi proviene dal Sahel magari, mentre da chi viene da Oslo probabilmente gli sembrerà meno occidentale di piccolo centro nelle fiandre suppongo. Magari no, è soltanto un’ipotesi, provate voi a immaginare. In ogni caso basterebbe rimandare agli studi di Said [4], che ha illustrato con estrema chiarezza e rigore analitico quanto di “immaginato” e raccontato ci sia in certi concetti, concetti-trappola appunto, e quanto, soprattutto, di politico.

E qui arriviamo all’altro fattore che a mio parere induce alle volte a certi equivoci come “la difesa dell’Occidente”: la nostalgia. Ora, le nostalgie sono un bene per la creatività, per i creativi, un breve ristoro per l’animo romantico, sono un male per le analisi, perché distorcono la realtà e la sua percezione. Per esempio, ritengo necessario oggi ripensare la critica post-coloniale, risintonizzarla a certe nuove dinamiche e a certe nuove forze in ballo, una su tutti: la rete, internet, il cyberspazio. Così come ritengo solo nostalgiche certe riaffermazioni di superiorità (su quale scala, con quali misure) di una supposta cultura (quella occidentale, ammesso che oggi voglia dire qualcosa) [5]. In particolar modo, non mi convince mai una riflessione antropologica che tiene in vita un “noi culturale” versus un “loro”. Noi chi? Noi occidentali? Noi italiani? Noi cattolici?

Noi bianchi cattolici europei? Noi siciliani? Capite bene come possono risultare scivolosi certi termini. Del resto, qualora volessi restare sul terreno “noi versus loro”, occidente-resto del mondo, dovrei accettare di stare su un terreno che non è quello analitico bensì quello ideologico, politico forse, identitario sicuramente (anche se mi piace pensare a una politica scevra da tali obsolete dicotomie ma che invece ha come orizzonte ideale la Terra, gli ecosistemi, gli equilibri dei luoghi, la relazione località-globalità). Accettato questo, allora la mia posizione è e sarà sempre in difesa delle minoranze, perché, idealmente, tutelare le minoranze significa tutelare tutti, tutelare i più indifesi, i più deboli, significa tutelare tutti. Ma ripeto, non è un gioco che io voglio fare. Proprio perché la rete ha complicato, e di molto, il gioco della cultura. Ecco perché bisogna semmai vedere oltre il gioco della cultura, quantomeno vedere oltre il qui e ora e porsi nell’ottica del sistema-terra, delle relazioni degli esseri umani nei loro spazi in prospettiva sempre diacronica. Solo così si possono inquadrare i fenomeni culturali, soprattutto oggi, ripeto “oggi”, ove tracciare linee di demarcazione nette diventa davvero impossibile, soprattutto all’interno stesso dell’“Occidente” a meno che non si voglia essere superficiali e faziosi. Pensare in termini occidente-resto del mondo non genera mai oggi uno schema, una struttura logica applicabile indistintamente. Bisogna calarsi allora nel contesto storico-culturale e geografico. Come si capirebbe una realtà come Mazara se no? Come si apprezzerebbe? Come si criticherebbe?

Mazara del vallo, Casa Blu, Kasbah (ph. Ivana Castronovo)

Mazara del Vallo, Casa Blu, Kasbah (ph. Ivana Castronovo)

Secondo punto, più vicino al caso di cronaca in questione ossia la scomparsa, nella primavera di quest’anno della diciottenne italo-pachistana Saman Abbas. Ciccozzi [6], in un contributo di cui condivido soltanto alcuni passaggi, considera questo episodio come prova del fatto che la diversità culturale non sempre arricchisce poiché si tratterebbe di un caso di reato culturalmente motivato. Senza entrare nel dettaglio delle interpretazioni coraniche, né su quanto le religioni debbano essere più o meno tirate in ballo quando si tratta dei comportamenti di individui e\o comunità, ciò che mi preme dire è che instaurare, a partire da fatti di violenza, una critica che vede l’Occidente nuovamente, ancora, paternalisticamente, su un piano, e individui di altre culture su altri, non mi convince. Non mi convince la difesa dell’Occidente proprio perché, come allo stesso Ciccozzi non convince la difesa della cultura della famiglia in questione, non mi convince la difesa di nessuna altra cultura quando si tratta di episodi di questo genere. E se è frutto della nostra cultura (semmai la cultura della Francia della rivoluzione) l’aver concepito un sistema di diritti inalienabili dell’uomo, per questi dobbiamo lottare al di là delle culture tutte.

E il punto è proprio questo. Il concetto di cultura è uno strumento cognitivo per pensare certi fenomeni che riguardano, ovviamente, anche il singolo individuo, la singola famiglia, ma che funziona meglio quando si parla di una comunità, in un certo luogo, in un certo spazio, in un certo momento storico. I presupposti concettuali per parlare di una cultura anziché di un’altra necessitano di uno sforzo immaginativo considerevole, necessitano di non considerare molte variabili sociali, psicologiche, storiche, che tendono a uniformare al fine di generalizzare, proprio per parlare di una cultura al posto di un’altra. Funziona, ovviamente, ma non sempre, sicuramente non funziona altrettanto bene quando si parla di Occidente oggi, e di delicate questioni come le minoranze all’interno di.., quando si parla di migranti, di diaspore, o quando si individua un fatto, un singolo avvenimento e lo si estrapola dal flusso della storia-culturale, perché si scivola nell’ideologico, nel politico, nel parere. Vogliamo farlo? Okay, ma non travestiamo il parere, la proposta, la visione (condivisibile o meno) con l’analisi critica e rigorosa.

Nel caso in questione, c’è di mezzo anche la macro-questione della violenza, culturalmente motivata che sia, che è qualcosa di molto complesso e transculturale [7]. Che poi, parliamo tanto di cultura, dovremo allora sapere che qualsiasi atto di un individuo o comunità è culturalmente motivato, ogni singola nostra azione poggia su un sostrato culturale che non si può elidere, dalla pizza ai mercati azionari, non esiste niente di dato, tutto è culturalmente costruito. Ce lo hanno detto i maestri dell’antropologia, non si può mai mettere da parte la propria cultura. Certo ogni individuo o gruppo può modificare i propri comportamenti, usi e costumi, ma ci vuole tempo, motivazioni, incontri-scontri con altre culture appunto. A tal proposito, altro punto che non mi convince dell’idea di Ciccozzi è il vedere nell’episodio in questione una motivazione culturale, e non vederla invece nei femminicidi in Occidente. In questo distinguo alberga ciò che per me è il nocciolo del problema, la differenza fra un’analisi critico-antropologica e un punto di vista, un’idea personale. Perché un femminicidio – sarebbe più corretto parlare di violenza di genere – prodotto da una famiglia con un sostrato culturale musulmano è culturalmente determinato mentre un femminicidio prodotto da una famiglia “occidentale” no? Ci si dimentica così facilmente del fatto che, qualora si possa realmente definire una cultura occidentale, patriarcato e maschilismo sono assi portanti di tale cultura? Ci si dimentica facilmente che proprio in Italia fino a qualche decennio fa era legale l’omicidio d’onore e lo stupro era considerato un reato di offesa contro la morale pubblica? Ciccozzi risponde a questi quesiti così: 

«Da noi questi casi c’erano – o possono essere presenti come remote sopravvivenze del tutto delegittimate culturalmente e normativamente e relegate a una dimensione psicopatologica e penale – perché sono pratiche che, se non ci si vuole accomodare nella generalizzazione di certe suggestioni neoprimitiviste, vanno riconosciute come presenti in gran parte del pianeta e per gran parte della storia della nostra specie. Si tratta di usi e costumi che hanno variamente fondato l’antropologia della famiglia di tanti gruppi umani, nel senso che hanno preceduto le concezioni individualistiche e secolarizzate dei rapporti di coppia [8]. 
Mazara del vallo, il porto (ph. Ivana Castronovo)

Mazara del Vallo, il portocanale (ph. Giuseppe Sorce)

Corretto. È questo vale per molte culture contemporanee, non solo per l’Occidente (ammesso che sia definibile, ripeto). Basta vivere negli Stati Uniti, o in nord Europa per accorgersi di come i rapporti di coppia, fintanto l’amore, siano concetti e pratiche ed elaborazioni culturali declinati in forme e codici molto diversi da quelli di un borgo del sud Italia [9], perché non esiste un pacchetto chiuso isolato chiamato Occidente, e poi un resto del mondo, altrettanto chiuso e isolato, soprattutto oggi. Detto ciò, non capisco però come di contro Ciccozzi arriva alla conclusione che se uno o più occidentali commettono un femminicidio, l’Occidente è culturalmente salvo perché è colpa del singolo mentre se uno o più non-occidentali commettono un femminicidio è colpa della cultura non-occidentale. Perché? Perché si salva l’Occidente e si condanna il non-Occidente? Quali sono i criteri? Siamo ancora convinti che esistono civiltà superiori e civiltà inferiori? Perché in Occidente stiamo, piano piano, molto lentamente, cercando di migliorare? E chi dice che non ci siano famiglie, correnti di pensiero, associazioni e movimenti non-occidentali che stanno facendo lo stesso nei loro luoghi? O si tratta di chi arriva prima? Di chi sviluppa prima delle idee, di chi fa le lotte cinquant’anni prima?

Scrive Ciccozzi: «poi, relativizzare certi crimini omologandoli ai femminicidi che avvengono in Occidente e ascrivendoli alla questione di genere del patriarcato significa opacizzare delle differenze connotative del tutto rilevanti»[10]. Quali sarebbero queste differenze connotative del tutto rilevanti? Stiamo parlando di usi, costumi, cucina, religione, lingua o di altro?  «È un modo per rimuovere un evento perturbante (la manifestazione della diversità culturale come alterità incompatibile, come estraneità ostile rispetto ai nostri valori) proiettandolo su una categoria rassicurante in quanto riguarda non l’altro ma anche il noi» [11]. Quali sono i nostri valori? E dove una famiglia musulmana non-omicida sarebbe portatrice di una diversità culturale incompatibile alla “nostra”? Davvero dobbiamo fare appello a qualcosa di vago, nostalgico, e privo di significato condiviso come “i nostri valori”? Quali sarebbero i nostri valori quindi, la famiglia, le libertà fondamentali, il crocifisso, la pasta a pranzo? Un’analisi ha bisogno di svincolarsi dai valori, dal bello e brutto, bisogna dire a chi appartiene cosa ecc.

Secondo Ciccozzi i femminicidi occidentali sono quindi commessi da un «io malato»[12], mentre quelli non occidentali, come il caso della famiglia in questione, no. «I delitti d’onore sono commessi da un noi culturalmente obbligato: di solito sono commissionati collettivamente da famiglie spesso disperate che sono costrette a uccidere il membro che si ribella a una legge percepita come sacra»[13]. Quindi io immagino un Occidente sano con qualche individuo spostato, e un non-Occidente vago, barbaro, in cui tutti praticano omicidi d’onore con nonchalance nel quotidiano. Da un lato abbiamo il singolo che esce fuori dal recinto dei valori, dall’altro dei soggetti senza volontà, obbligati dalla loro cultura [14]. In soldoni, Ciccozzi vede nel retaggio musulmano la motivazione, io però potrei vederla nel retaggio della famiglia, per esempio. Chi ha detto che un individuo deve essere sottomesso giuridicamente a una famiglia fino ai diciotto anni? Quale legge di natura stabilisce l’istituto della famiglia patriarcale con scadenza a 18 anni? Nessuno. Perché i bambini non possono crescere in contesti di vita, educazione e formazione collettiva come in certi gruppi di cacciatori raccoglitori? È cultura anche questo, l’istituzione della famiglia. Radicata, diffusa, ma è cultura.

Mazara del Vallo, il porto (ph. Ivana Castronovo)

Mazara del Vallo, il portocanale (ph. Giuseppe Sorce)

Che senso avrebbe però una mia invettiva contro la “famiglia” a partire da questo caso? Per questo per me ragionare in questi termini ha più a che fare con le idee personali, con il retaggio personale, con punti di vista, nostalgie, fastidi, incomprensioni personali più che con un taglio puramente antropologico, geostorico e culturale. Le lotte contro la violenza di genere sono nate proprio nel momento in cui ci si è resi conto della matrice culturale di tali fenomeni, perché la violenza di genere è un problema sistemico e culturale, non è il singolo io malato che di punto in bianco impazzisce. Se riconosciamo un movente culturale nel non-Occidente dobbiamo farlo nell’Occidente. Condannare uno e salvare l’altro è esclusivismo culturale [15]. Se oggi parliamo di femminicidio è perché se ne riconosce una matrice culturale. È scorretto analiticamente e criticamente è fazioso affermare il contrario, mentre lo stesso lo si afferma facilmente quando? Quando si tratta di una cultura non occidentale, una minoranza.

Non è tutta ricchezza la diversità culturale. Ma certo che sì, nel senso che una cultura diversa può solo aggiungere, in una situazione in cui però vigono tutele e democrazie e diritti, perché nessuno in un contesto di rispetto dei princìpi delle democrazie e dei diritti dell’uomo ti viene a togliere, al massimo modifica col tempo, plasma con la forza della cooperazione, con le giuste visioni politiche. Bisogna correggere le storture e vigilare. Bisogna combattere la violenza di genere, il maschilismo, l’esclusivismo culturale, il razzismo, sia occidentale che non, senza fare distinzioni o eccezioni. Ma bisogna sempre relativizzare le prospettive. Bisogna ricordare che anche il consumo di plastica, di prodotti usa e getta, un’industria basata sulla sovrapproduzione e sugli idrocarburi, un’economia basata sul debito, sono culturalmente motivati. La crisi climatica vede nell’Occidente dal Sette-Ottocento e nei suoi modelli economici, sociali, industriali, che arrivano fino a oggi, il principale indiziato [16].

Chissà come ci giudicheranno i nostri nipoti, chissà quanto e come condanneranno l’Occidente, quando l’acqua potabile sarà costosa, i mari diventeranno tossici, i conflitti e le sperequazioni sociali aumenteranno, le temperature diventeranno insostenibili, i flussi migratori consistenti e le crisi alimentari gravi. Chissà! Chissà se ai loro occhi saremmo stati solo dei “singoli dall’io malato” o un “noi culturalmente obbligato”!

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] Sono io stesso contrario in genere all’uso di metafore di questo tipo quando si cerca di costruire delle analisi che poggiano su critica, articoli scientifici, paradigmi concettuali affidabili, ma mi si conceda questa volta un’eccezione data la natura di quanto è stato scritto sopra, l’intenzione e il modo soprattutto.
[2] Ciccozzi, Diversità che non arricchiscono: la questione dell’estraneità ostile nei reati culturalmente motivati, Settembre 2021, in «Dialoghi Mediterranei», n. 51 (https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/diversita-che-non-arricchiscono-la-questione-dellestraneita-ostile-nei-reati-culturalmente-motivati/)
[3] Ovviamente nessuno può. Quando ci si muove nell’umano, nel culturale, nell’antropologico, non esistono strumenti quantitativi sufficientemente affinati, non ci sarà mai un modello matematico in grado di simulare o prevedere la struttura complessa anche solo di una singola persona, figuriamoci un quartiere, un concetto complesso come quello di “luogo” o una comunità. Mettetevi l’anima in pace, ma a meno che non verrà creata l’AI definitiva, quella della singolarità per intenderci, allora non resta che affidarci all’osservazione, l’immaginazione, l’analisi, la correttezza formale e scientifica di un ragionamento.
[4] Uno su tutti Said E. 1999, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli; ma anche Spivak G. H. 2016, Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, Roma, Meltemi.
[5] Mi riferisco di nuovo al contributo di Ciccozzi precedentemente citato (vedi nota 2), ma anche https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-rischio-dei-muri-degli-altri-cirese-dislivelli-di-cultura-e-rimossi-antropologici/.
[6] Ciccozzi, Diversità che non arricchiscono: la questione dell’estraneità ostile nei reati culturalmente motivati, Settembre 2021, in «Dialoghi Mediterranei», n. 51 (https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/diversita-che-non-arricchiscono-la-questione-dellestraneita-ostile-nei-reati-culturalmente-motivati/).
[7] Si rimanda per esempio a Guilaine J., Zammit J. 2004, The Origins of War: Violence in Prehistory, Blackwell Pub.
[8] Ciccozzi, Diversità che non arricchiscono: cit.
[9] Si veda per esempio Luhmann N. 2008, Amore come passione, Mondadori; De Rougemont D. 1998, L’Amore e l’Occidente, Milano, Rizzoli.
[10] Ciccozzi, Diversità che non arricchiscono: cit.
[11] ivi.
[12] Si rimanda a Ciccozzi, Diversità che non arricchiscono: cit.
[13] ivi.
[14] ivi.
[15] Ciccozzi quindi sembra contraddirsi, perché è lui stesso che scrive che i femminicidi in Occidente «sono pratiche che, se non ci si vuole accomodare nella generalizzazione di certe suggestioni neoprimitiviste, vanno riconosciute come presenti in gran parte del pianeta e per gran parte della storia della nostra specie. Si tratta di usi e costumi che hanno variamente fondato l’antropologia della famiglia di tanti gruppi umani, nel senso che hanno preceduto le concezioni individualistiche e secolarizzate dei rapporti di coppia che, dalla modernità, si sono diffuse in tutti gli strati sociali dell’Occidente (e che oggi rappresentano la cifra dell’emancipazione che in questa parte del mondo si è conquistata in merito alla libertà delle persone di decidere in autonomia con chi e come avere rapporti sessuali o metter su o meno e in che modo famiglia» (vedi nota 8, Ciccozzi, cit.). Ciccozzi stesso riconosce pertanto la matrice culturale dei femminicidi in Occidente, anche se poi, nel resto dell’articolo nega tale matrice.
[16] Bonneuil C., Fressoz J.B. 2019, La terra, la storia e noi. L’evento antropocene, Roma, Treccani. 

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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof.  Franco Farinelli.

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