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EDITORIALE

We always return (ph. Nella Tarantino)

We always return (ph. Nella Tarantino)

Ogni anno questo numero va in rete in mezzo a due date fondamentali del calendario laico delle feste, tra la giornata che ricorda la Liberazione del nostro Paese dal regime fascista e quella in cui nel mondo si celebrano il lavoro e i lavoratori. Due momenti cardini e simbolici, densi di significati politici e di memorie storiche. Due anniversari che per la loro ciclica iterazione convocano la solennità del rito e per ciò stesso sono occasioni per la collettività per riflettere, per riannodare fili spezzati, per ritrovare e ritrovarsi. I riti – si sa – hanno la funzione di codificare e notificare in gesti, parole e azioni una concezione e una visione, una cosmologia e una cosmogonia, una narrazione e una rappresentazione.

Che servano a fronteggiare una crisi del presente o riattraversare esperienze e vicende del passato, a rinsaldare i patti stretti da una comunità o a rinnovare valori di fondazione sociale e morale, i riti nella loro dimensione civile sono non soltanto scansioni culturali della vita collettiva, misure del tempo vissuto e strutturato, ma sono anche sfide pubbliche della democrazia, occorrenze per bilanci, valutazioni, verifiche, punti di snodo e di cesura della cronaca e della sua narrazione quotidiana.

Nel flusso degli eventi le feste civili sono dunque discretizzazioni vitali del continuum esperienziale, convertono il tempo lineare, indefinito, indifferenziato e profano nel tempo circolare, ordinato, significativamente connotato nella declinazione mitica, celebrano origini e senso dello stare insieme, testimoniano e ribadiscono le ragioni e le connessioni che fanno dell’insieme degli uomini una società, degli abitanti di un territorio una comunità che riconferma se stessa nel ciclico ripetersi dei riti. Memoria e utopia sostanziano i miti, ne costituiscono la materia storica e metastorica, i caratteri di progettualità ideale e di laica sacralità. Non una fuga dalla realtà né una sua invenzione o immaginazione ma piuttosto una sua elaborazione e proiezione culturale che concorre alla costruzione della storia degli uomini, alla loro riconoscibilità.

Il 25 aprile che ci siamo lasciati appena alle spalle e il 1 maggio che oggi ci accingiamo a festeggiare sono anniversari di fatti storici ma anche di miti storici nel senso del forte investimento di simboli e immagini, di sentimenti e aspirazioni che – come ha scritto Antonino Buttitta – «in quanto opera umana sono altrettanto veri quanto gli avvenimenti storici. Gli uni e gli altri sono prodotti storici e alla storia appartengono». Miti che nel trascorrere degli anni si sono illanguiditi, estenuati, consumati fino alla loro evanescenza retorica, alla loro inconsistenza ideologica, fino alla loro torsione semantica. La Resistenza omessa o tradita, l’antifascismo rimosso o cancellato, il lavoro sempre più povero e precario, i diritti costituzionali negati o limitati. La stagione politica che stiamo vivendo sembra averci consegnato in queste date di festa e di riti civili un sentimento collettivo di confuso smarrimento e di generale incertezza davanti a autorevoli rappresentanti del governo e delle istituzioni della Repubblica che si dichiarano afascisti, che glissano, balbettano o irridono su via Rasella o sui crimini della dittatura, che tendono a riscrivere le pagine di storia in chiave di uno sbracato e insopportabile revanscismo, volendo oscurare o sostituire il mito della Resistenza con quello della Nazione, con tutto il rovinoso armamentario di sangue, terra e popolo destinato a giustificare e corroborare il concetto di razza dissimulato in quello di etnia.

La purezza etnica degli italiani minacciata dalla Grande Sostituzione coordinata dall’Europa attraverso i migranti è il fantasma razziale che credevamo esorcizzato e che invece riemerge dal buio del passato, dal torbido fondo coloniale mai del tutto risolto nella coscienza pubblica, fili di una memoria mai davvero dipanati nella storiografia raccontata dai manuali scolastici e nella compiacente autobiografia degli “italiani brava gente”. Non c’è chi non veda il file rouge che tiene insieme in una chiara cornice l’idea di Stato etico e neocorporativo, un preciso modello di famiglia, di maternità, di scuola e di società, le teorie cospirazioniste e la strategia securitaria del controllo paranoico dei confini, il lessico cinico e spregiudicato, il “prima gli italiani” e “il carico residuale”, l’identità come endogamia, le culle dei “veri” italiani da riempire per contrastare “l’invasione” degli stranieri grazie al contributo delle donne native fattrici, “madri della nazione”, l’attacco alla libertà d’insegnamento, l’asfittico concetto di cittadinanza praticato come privilegio e non come un diritto, la difesa delle tradizioni come culto delle piccole patrie e sinonimo di reliquie da custodire, la povertà rappresentata come il destino di chi non ha “meriti” da vantare, “talenti” da mostrare.

Se tutto questo è potuto penetrare nel rassegnato senso comune della popolazione, se tutto questo è accettato e diffuso dalla propaganda politica e mediatica è forse l’esito di un grave deficit culturale che viene da lontano, di una cronica e pervasiva debolezza pedagogica, di un sostanziale e generalizzato analfabetismo antropologico. È un problema di scuola, di informazione, di democrazia. Se il Paese appare rattrappito e ingrugnito, senza memoria e senza progettualità, se perfino l’atto fondativo della Repubblica è oggetto di divisione e contrapposizione, se alcune delle parole chiave dell’antropologia – etnia, identità, tradizione, cultura, multiculturalismo, sincretismo etc – sono banalizzate e adulterate nell’uso comune dei discorsi pubblici e nel linguaggio corrente, sarà bene interrogarsi criticamente sui ritardi e le insufficienze della public anthropology, sulla fragile visibilità delle scienze sociali nel dibattito nazionale, sulle responsabilità delle istituzioni culturali delegate a trasmettere conoscenza e valori alle nuove generazioni. Da qui il lavoro di una rivista come la nostra che attraverso la rete raggiunge un’amplissima platea di lettori e può concorrere nei limiti delle proprie possibilità alla formazione di antidoti intellettuali, di argini razionali, di strumenti critici per decostruire stereotipi concettuali, ambiguità ideologiche e tentativi di legittimare, unitamente a pericolosi revisionismi storiografici, politiche xenofobe e criminali di gestione dell’immigrazione e del diritto di asilo.

Di riviste si ragiona in questo numero, del loro ruolo nel mondo accademico e nel dibattito pubblico, delle criticità e potenzialità offerte dal web, dei sistemi di classificazione e valutazione scientifica e del difficile equilibrio tra scienza e divulgazione, dell’ipotesi di coordinamento pluridisciplinare tra testate diverse, degli orientamenti editoriali e delle forme di gestione e di amministrazione redazionale. Una riflessione che ha visto la partecipazione di alcuni direttori e di studiosi responsabili di redazioni o collaboratori di riviste non solo antropologiche ma anche storiche e filosofiche. Fabio Dei, per esempio, direttore del semestrale “Rivista di antropologia contemporanea”, critica il sistema di valutazione che trasforma i lavori intellettuali in “prodotti” e piega la scrittura al preminente obiettivo di «accumulare titoli per i concorsi o per superare le mediane». La logica Anvur e la tendenza alla standardizzazione dei format confliggono – scrive – «con la funzione essenziale delle riviste che è quella di produrre idee, sollecitare la discussione, aprire nuovi scenari».

Che il tema dei criteri di valutazione scientifica sia ambiguo e scivoloso è opinione della gran parte degli intervenuti. Alberto Biuso, direttore della rivista di filosofia “Vita pensata”, si chiede quale oggettività di giudizio possa esserci nel «valutare non i contenuti che ogni singolo ricercatore crea ma le sedi nelle quali espone i risultati della sua ricerca; valutare non il che cosa ma il dove». Vi è sottesa in questo sistema, aggiunge, «una vera e propria visione del mondo, una cifra del nostro tempo che intende imporre un regime di verità dalla struttura intimamente totalitaria – la scientometria fu un’invenzione sovietica – e monoteistica rispetto alla pluralità dei metodi, degli obiettivi e delle forme di conoscenza e di vita». Così si corre il rischio – osserva Elisabetta Silvestrini, vice direttore di “Erreffe” – che i testi profondamente innovativi vengano non compresi e rifiutati dai revisori, a vantaggio di una produzione più convenzionale e omologata». Anche il condirettore di “Studi Storici Siciliani”, Gero Difrancesco, auspica «un confronto di sostanza e non di forma, che non privi il mondo culturale in genere di sollecitazioni interessanti anche se non ufficialmente validabili dagli attuali certificatori». 

Le riviste sono da tutti identificate come i luoghi elettivi della libera “conversazione” tra discipline e tra scienze, spazi privilegiati per l’esercizio del pensiero critico e svincolato rispetto alle strette e chiuse logiche accademiche, sempre più ostaggio di regolamenti ministeriali e logiche aziendali, soffocate – scrive Danilo Breschi, direttore di “Il Pensiero Storico” – «da una burocrazia ministeriale autoreferenziale e da quel conformismo ideologico che favorisce la riduzione dell’educazione a formazione immediatamente professionalizzante secondo le sempre cangianti esigenze del mercato». Le riviste, specie quelle in rete, destinate ad una larga circolazione scavalcando confini e rovesciando il rapporto centro-periferia, sono palestre preziose di apprendistato per le generazioni più giovani, «possono scommettere sulla loro agilità e sul dinamismo dei contenuti» annota Eugenio Imbriani, direttore di “Palaver”, testata sorta in contesto periferico, con un approccio di tipo interdisciplinare e uno sguardo particolare sull’Europa mediterranea. Le riviste possono recuperare il vecchio profilo ‘militante’ e, «in una società tentata dall’astensionismo, per un verso, dal populismo per un altro verso, drammaticamente frammentata dal gioco dei particolarismi che annullano la visione del bene comune e al tempo stesso omologata da mode, slogan e luoghi comuni, possono fornire gli strumenti per ricostituire in modo critico un “mondo comune”, favorendo una responsabile e intelligente partecipazione politica». Così conclude il suo intervento Giuseppe Savagnone, che traccia un ampio panorama storico delle dinamiche di orientamento e formazione dell’opinione pubblica nel tempo in cui implodono profonde crisi politiche e culturali.

Su questa stessa linea di impegno politico il sociologo delle religioni, Enzo Pace, che collabora con diversi periodici italiani e stranieri, sottolinea l’importanza della prospettiva “meridiana” e del ruolo di riviste edite nell’area mediterranea che possono in congiunture di conflitti perfino religiosi documentare e far conoscere le numerose interdipendenze e reciproche influenze storiche e culturali tra le due sponde, quell’«immaginario collettivo» che condivide simboli, stili, costumi e rappresentazioni. Nel segno del dialogo si sviluppa infine l’intervento del giovane antropologo Dario Inglese che affida alla rivista il compito di «scandagliare la contemporaneità» e di interpretare «una public anthropology sensibile, impegnata e consapevole che ciò che è può sempre essere diversamente». Con sfumature e accenti diversi, dunque, tutti gli autori riconoscono la necessità di difendere e rafforzare la presenza delle riviste nello spazio pubblico, i caratteri peculiari della loro ‘colloquialità’ con la realtà territoriale e sociale, l’arena del libero confronto fuori dalle secche degli specialismi disciplinari e dai rigidi schemi degli standard formalizzati. Su queste questioni il dibattito, in tutta evidenza, resta aperto. 

D’altra parte, intendendo muoversi in questa direzione, Dialoghi Mediterranei ambisce a praticare quell’antropologia politicamente impegnata di cui scrive Linda Armano in questo numero, nella consapevolezza che «anche il rigetto dell’impegno si configura come impegno al rigetto, allo stesso modo che il rifiuto di prese di posizioni politiche è anch’esso una presa politica di posizione», come già negli anni sessanta del secolo scorso argomentava con l’usuale rigore logico che lo caratterizzava Alberto M. Cirese. Nelle pagine di questo fascicolo così generoso di letture, di ricerche e di sollecitazioni culturali, si propone ancora una volta di incrociare e connettere attualità e memorie, discipline e linguaggi diversi, storie, voci e mondi lontani. Resta centrale come sempre l’attenzione per le migrazioni, per le strategie emergenzial-securitarie, per le dinamiche antropologiche di interazione sociale e religiosa e per le esperienze di mobilità più lontane nel tempo. Resta in primo piano l’obbligo morale di riflettere sulle istanze più inquietanti della cronaca, sulle tante Cutro che si moltiplicano nel silenzio e nell’indifferenza, su questa sorta di necropolitica che sacrifica e lascia morire le vite senza nome dei migranti, sui devastanti processi di esternalizzazione delle frontiere e sul progressivo smantellamento di ogni forma di protezione e di accoglienza dei profughi, sull’invenzione del  “reato di solidarietà” comminato alle ONG e sulla dichiarazione dello stato di emergenza per legittimare pratiche straordinarie a fronte di un fenomeno ordinario che si registra da decenni. Ognuna di queste tessere riconduce ad un puzzle preordinato, ad un metodo sperimentato, ad un’architettura politica che è anche espressione di una cultura che stabilisce gerarchie tra gruppi umani sulla base di criteri etno-razziali. Capitoli di una storia disonorevole che ci riguarda e di cui condividiamo in ogni caso le responsabilità. Ne scrivono Roberto Cipriani, Giovanni Cordova, Luca Di Sciullo e Nicola Martellozzo. Di migrazioni, sotto altri profili di osservazione, si occupano anche altri studiosi, da Bruno Genito ad Andrea Calabretta, da Lella Di Marco a Nicola Grato, a Franco Pittau, a Federico Rossin. 

Da libri, mostre, film, performance molti autori traggono ispirazione per ragionare sulla perversa e strutturale convivenza con le guerre (Palidda); sulla scuola e il disagio degli insegnanti nel contesto di una società sempre più disarmata e frammentata (Chetta, Sorce); sulla sopraffazione della burocrazia stretta tra pressioni ministeriali e oppressioni procedurali (Aledda); sulla potenza simbolica dei riti e dei culti nelle crisi esistenziali e congiunturali (Gugg, La Rocca, Melotti); sul linguaggio e sulla circolazione delle lingue e sulle loro molteplici risorse semantiche e identitarie (Dattilo, Guidantoni, Priulla, Sgroi); sulla Chiesa e i suoi affanni nella difficile transizione al cambiamento (Albanese, Cavadi, Di Simone); sulla musica nelle sue diverse espressioni e interpretazioni (Lima, Perduca, Sarica), sulle origini di Cinecittà e le conseguenti trasformazioni urbane e sociali (Isgrò), sul mondo arabo e islamico sotto differenti punti di vista (Corrao, Kortam, Marin, E. Nicolai, Nicosia). Non mancano gli inviti alle riletture di alcuni classici della letteratura del secolo scorso: Calvino (D’Alessandro), Pasolini (Pera), Vittorini (Altadonna), Sciascia (F. Virga), Zagarrio (Traina). Mentre Sergio Todesco ricorda l’antropologo Luigi Lombardi Satriani che definisce «maestro di umane dimenticate istorie», Pietro Clemente rievoca due figure straordinarie di intellettuali da indicare alle nuove generazioni come maestri, Joyce Lussu e Saverio Tutino, «testimoni del Novecento e dei suoi grandi caratteri: le ideologie, le rivoluzioni, il coraggio di lottare, la fede nelle proprie speranze, il valore dell’individuo e della solidarietà». 

Ad un altro maestro, decano della demologia abruzzese, Giuseppe Profeta, Dialoghi Mediterranei dedica in questo numero uno spazio speciale in cui amici, colleghi e allievi festeggiano i suoi novantanove anni appena compiuti. Una lunga vita di indagini sul campo e negli archivi con la produzione di un’ampia documentazione etnografica e bibliografica che si colloca – come scrive Ferdinando Mirizzi – «nel filone classico e storicista degli studi italiani sul folklore». Un esempio di fedeltà alle passioni di una instancabile ricerca sui vari aspetti della cultura popolare. Ne “Il centro in periferia” si respira l’aria di innovazione e rigenerazione che fa da controcanto alle cronache di desertificazione e invecchiamento dei piccoli paesi. Si raccontano le intense attività degli ecomusei, le buone pratiche e le esperienze didattiche realizzate nelle aree fragili delle nostre montagne e i progetti di creatività e di sviluppo locale maturati in comunità rurali e pastorali appartate come Meana Sardo in Sardegna e San Mauro Castelverde in Sicilia. In funzione del corretto investimento delle risorse del PNRR, Pietro Clemente non si stanca di ricordarci che «riequilibrare il territorio, restituire diritti a chi, per via dello spopolamento, non ha più l’ufficio postale, la chiesa, l’ospedale, talora nemmeno il bar o i negozi, è una grande questione nazionale. Non è questione che riguarda soltanto i singoli paesi ma tutti gli italiani».

Nell’album fotografico, a chiusura come sempre del numero, si raccolgono immagini che scorrono e attraversano i diversi e felici approcci alla comunicazione visuale: dalla narrazione alla investigazione, dalla sperimentazione alla rivelazione, dalla testimonianza alla interrogazione poetica, dalla ricognizione o contemplazione paesaggistica all’estetica o allo studio analitico del ritratto. Sguardi diversi di lettura e rappresentazione del mondo e della vita. Modi diversi di fare della fotografia un’arte. 

Maestri, infine, sono anche due eminenti figure della giurisprudenza, l’ex magistrato Roberto Settembre e il giurista Lauso Zagato, autori su questo numero di illuminanti contributi rispettivamente sui rapporti tra etica e giustizia e sul concetto di comunità e solidarietà. In conclusione al suo testo, rivolgendosi ai giovani in occasione di una conferenza tenuta all’università di Stoccarda, Settembre scrive: «Tocca a voi, in definitiva, decidere se la vita debba essere vissuta come una moda, o come un modo: un modo di ricerca, di conoscenza e di azione, la vita activa che una grande pensatrice del secolo appena finito ha posto all’apice della dignità e della morale: Hanna Arendt». Dal canto suo, Zagato, dopo aver ripercorso la complessa storia del diritto internazionale a protezione delle popolazioni vittime di emergenze, chiude il suo intervento appellandosi alla speranza che «nella solidarietà tra umani, si tratti di singoli o di comunità/gruppi, sia possibile individuare le radici feconde di un comportamento alternativo a quello auto-assertivo ed egoistico che sembra oggi dominare la scena». Due moniti, dunque, che sembrano indicare alle generazioni del futuro strade in controvento, percorsi in controtendenza: l’impegno civico e morale contro l’indifferenza e la disaffezione politica, la solidarietà e la coesione contro l’egoismo e la discriminazione. 

Se è vero che la Resistenza fa rima forse non per caso con l’accoglienza e la sua memoria rinnovata può contribuire a ripensare il senso autentico della democrazia e il nostro stesso modo di essere cittadini in una società aperta e plurale, la Festa dei Lavoratori che coincide con la pubblicazione di questo numero può essere occasione per recuperare oggi più che mai – nel tempo difficile della crisi dei diritti umani e sociali – il valore originario e formidabile del lavoro affinché non sia una pena né un privilegio ma, per usare le parole di Primo Levi, «la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra». Certamente la via più dritta per la piena cittadinanza, per l’emancipazione degli uomini e il rispetto della dignità della persona, «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». La via maestra della Costituzione.

Buon Primo Maggio! 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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