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EDITORIALE

Gli Yazidi (ph. Eugenio Grosso)

Gli Yazidi, una minoranza religiosa perseguitata in Iraq (ph. Eugenio Grosso)

Nel suo smilzo e vibrante pamphlet sugli Intellettuali (Il Mulino 2021), Sabino Cassese ha descritto gli effetti devastanti dell’epidemia dell’ignoranza sulla società e sulla democrazia e tra le cause della “morte delle competenze” ha citato «in primo luogo, la mercificazione dell’istruzione superiore con la diffusione di false università, la concezione dello studente come cliente da soddisfare, l’aumento del numero dei corsi di insegnamento che è facile superare, l’inflazione dei voti agli esami. In secondo luogo l’irrilevanza degli intellettuali pubblici la cui voce diventa sempre più flebile, mentre aumenta la fiducia acritica nell’oracolo elettronico Google».

Forse non si è mai parlato così tanto di scuola e università come nel tempo della pandemia, che sembra aver fatto deflagrare le criticità incubate, le contraddizioni strutturali del coacervo di riforme giustapposte destinate a produrre spoliazioni e dequalificazioni. Abbiamo avuto modo di constatare come lo scompaginarsi della routine e dei rituali collettivi che governano e sincronizzano da sempre i gesti e le azioni degli italiani – studenti, genitori, insegnanti e operatori, ma non solo – secondo i tempi e gli spazi del calendario scolastico abbia scoperchiato e notificato in tutta la sua evidente rilevanza il delicato e complesso intreccio di correlazioni e interdipendenze tra scuola e società, tra il mondo della pubblica istruzione e quello della vita quotidiana dell’intero Paese. Da qui l’attenzione critica emersa sull’organizzazione non sempre efficace del sistema e sul precario stato di salute della scuola che invece di contribuire a rimuovere le diseguaglianze tenderebbe piuttosto a riprodurle, a ratificarle, a esacerbarle.

La morte dei giovani Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, vittime di fatali incidenti durante l’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro, spostando la cronaca sulle piazze e sulle manifestazioni di protesta degli studenti contrastate con inutili violenze dalle forze dell’ordine, ha sicuramente posto in primo piano non solo le questioni dei rapporti tra gli adolescenti e le istituzioni scolastiche, ma più in generale e in forme più radicali tra il mondo dell’istruzione, la politica e la democrazia. Una disarticolazione e uno scollamento che sembrano accompagnarsi alla crescente distanza, accentuata e acutizzata dalla crisi pandemica, tra giovani e adulti, tra indifesi da una parte e garantiti dall’altra. Diseguaglianze dunque profonde tra i ceti ma anche contrapposizioni per genere e per generazioni attraversano il corpo sociale del nostro Paese, e di questi inquieti processi la scuola è la cartina di tornasole, il nervo scoperto, il luogo dove le vulnerabilità all’influenza epidemica hanno mostrato i danni più eclatanti.

Di scuola si discute in questo numero di Dialoghi Mediterranei, sulla scia degli interventi di Fabio Dei e Antonio Pioletti già pubblicati a gennaio e nel contesto di un dibattito che muove dalla constatazione dell’impoverimento delle competenze di espressione scritta negli allievi dell’università e dalla riflessione sul passaggio da un’istruzione con contenuti prevalentemente classici della cultura umanistica verso una scuola-corporation, con obiettivi di successo performativo connessi alle dinamiche del mercato. In questa progressiva mutazione di segno e di paradigma la politica scolastica ha via via svuotato o cancellato conoscenze, saperi, tradizioni intellettuali, sbiadendo per certi aspetti l’identità di servizio pubblico e assumendo una dimensione ibrida e ambigua. Da una parte proclama l’inclusione, dall’altra pratica l’esclusione. «La scuola, in effetti, – scrive Chiara Amoruso – sembra caratterizzata da una notevole dicotomia tra intenzioni e applicazioni, tra buoni princìpi e prassi. Una dicotomia che dipende in buona parte dalle grosse carenze nella formazione degli insegnanti». Una schizofrenia tra astratta consapevolezza teorica, fondata su «propositi pedagogici altisonanti e di etichette didattiche inglesizzanti che corrispondono ai metodi più innovativi: cooperative learning, project work, problem solving, learning by doing, peer education, flipped classroom», e disarmante deficit di competenze operative in grado di gestire le sfide quotidiane rappresentate dai bisogni dei ragazzi che provengono da contesti deprivati.

Amoruso denuncia l’ipocrisia di una scuola che non boccia perché boccerebbe se stessa, riprendendo la reticenza e l’ambiguità su corrive programmazioni didattiche compilate come esercizi burocratici di non senso: «una cosa che tutti sanno bene ma che non si può dire», per usare le schiette parole di Fabio Dei. Il nodo della formazione dei docenti è al centro anche dei ragionamenti di Augusto Cavadi e di Piero Di Giorgi. Il primo ipotizza una riforma non solo del sistema di selezione e reclutamento ma anche delle carriere nella loro differenziazione e progressione; il secondo, dopo aver ripercorso la storia delle leggi da Gentile a Renzi, annota che «non si è mai intervenuto su aspetti sostanziali, quali la formazione iniziale e continua degli insegnanti, non si è fatto nulla per rendere attrattiva la funzione docente, ridando la massima dignità a questa professione anche in termini di retribuzione, e soprattutto niente è stato fatto sulla necessità e l’urgenza del cambiamento delle metodologie didattiche».

Nel quadro di un’ampia e puntuale rassegna degli orientamenti scientifici acquisiti negli studi di pedagogia, Linda Armano richiama le sollecitazioni di Antonio Pioletti per sottolineare quanto sia importante e risolutivo il rapporto di coerenza e conformità fra ricerca educativa e governance pubblica, fra indirizzi metodologici e scelte di politiche attive. E a proposito della percezione sociale sempre più degradata o distorta Valeria Dell’Orzo osserva che la scuola, perduta la sua immagine di «rampa di lancio per la ascesa sociale», è oggi diventata «il luogo preposto all’accudimento dei giovani non solo sotto il profilo didattico-educativo ma anche nella gestione dei tempi quotidiani, molte volte utile a ridurre l’incombenza dei genitori del monitorare e allevare i propri figli, demandandone l’intero dovere agli insegnanti». Giuseppe Sorce, infine, oppone alla vetusta struttura della scuola-istituzione «la scuola fatta di carne, docenti lavoratori, studenti e studentesse», così rimarcando lo scollamento tra due mondi generazionali e culturali che non comunicano e non si comprendono. Più ottimista nella saggezza dei suoi anni Lombardi Satriani in un breve intervento ci invita ad avere speranza nei giovani e a «guardare con relativa fiducia al destino del pensiero critico nelle nostre università e nel nostro Paese». 

Il dibattito sulla scuola è complementare e connesso a quello sulla cittadinanza che anche in questo numero presenta nuovi e notevoli contributi di riflessione. Federico Costanza ne ridefinisce il concetto in rapporto all’evoluzione delle società globalizzate, evidenziando l’obsolescenza della normativa italiana attardata su modelli di un anacronistico privilegio o di una aristocratica concessione. Vincenzo Pace ironizza sulla “ragionevolezza” di quanti assumono lo jus culturae delle famiglie d’origine straniera come «un impedimento dirimente all’accesso alla cittadinanza individuale». Da qui «la ragionevole discriminazione che immagina una società inevitabilmente stratificata, in modo gerarchico, per sub-culture: da quelle vicine alla nostra a quelle lontane (…), concepite, in tale ragionamento, come abiti morali di una sola taglia, che tutti i componenti di questo o quel gruppo culturale finiscono per indossare». C’è un retaggio coloniale in questa interpretazione etnocentrica della cittadinanza che chiama in causa – come scrive Mariangela Vitrano nella sua lettura semiotica – una certa retorica dei diritti umani declinati secondo criteri di appartenenza alla nostra semiosfera. Il superamento di queste categorie passa attraverso la decolonizzazione del pensiero. Così come ad un rovesciamento femminile di prospettiva esorta a guardare Laura Sugamele «rispetto a ciò che è differenza, disuguaglianza o discriminazione, sul piano corporeo e linguistico, dato che la riflessione umana ha da sempre esercitato le sue attenzioni attorno al corpo». 

Sia ispirata a ragioni etniche o di genere, culturali, ideologiche o politiche, la cittadinanza va oggi soprattutto ripensata in rapporto al fenomeno delle diaspore e delle migrazioni e, nel generale moto di dislocazione collettiva e di tumultuoso rimescolamento dei popoli, va risignificata in una accezione non più divisiva ma inclusiva, in una dimensione plurale, transnazionale e globale. Continueremo a discuterne su queste pagine con l’obiettivo di difendere il diritto dei giovani delle seconde generazioni nati da genitori stranieri ad essere e a sentirsi nuovi italiani, avendo scelto di studiare, crescere e vivere nel nostro Paese. Che il comune di Bologna abbia di recente modificato lo Statuto per riconoscere come cittadini 11 mila bambini nati in città è un apprezzabile atto simbolico che se imitato da altri municipi potrebbe riportare la questione in primo piano nell’agenda politica nazionale. Testimonianze di figli di famiglie miste residenti da tempo in Emilia Romagna raccolte da Lella Di Marco aprono uno squarcio su questo mondo in movimento ancora poco indagato. Come quasi del tutto inedito è lo studio speculare sull’invecchiamento degli immigrati condotto da Paolo Attanasio, che pone all’attenzione «l’esigenza di ridisegnare, nella misura del possibile, la mappa dei servizi, adeguandola alla nuova evoluzione demografica». La condizione di anziano sommata a quella di straniero moltiplica fragilità e disagi e riconduce inevitabilmente al nodo irrisolto della cittadinanza, alla necessità di «riconoscere ed accettare il fenomeno immigratorio come parte integrante della contemporaneità italiana, e farlo a 360 gradi, considerando quindi lo straniero in tutto l’arco della propria vita, da bambino, da studente, da lavoratore, da anziano. In una parola, da cittadino». 

L’esperienza dell’emigrazione italiana in Belgio, ricostruita con cura storiografica da Franco Pittau che – dopo Francia, Germania, Svizzera, Regno Unito, Stati Uniti, Argentina, Brasile, America latina, Tunisia, Marocco e Sudafrica – aggiunge un’altra tessera al mosaico delle ricerche fin qui condotte sulla nostra presenza all’estero, offre una lezione politica da tenere in conto se è vero che da minatori emarginati siamo diventati cittadini e funzionari europei. Percorso di riconoscimento sociale e d’integrazione umana tanto remoto quanto inimmaginabile rispetto al contesto rappresentato nel contributo di Giovanni Cordova che descrive e commenta la condizione di esasperazione, di sofferenza e di mobilitazione dei lavoratori stranieri marginalizzati nei ghetti della Piana di Gioia Tauro. La rimozione delle memorie delle nostre secolari vicende di emigranti esorcizza e tiene lontana dal nostro sguardo la realtà scandalosa di questa schiavitù, restando immagini sbiadite di vite ai margini delle periferie del nostro mondo, di dannati della terra per i quali – scrive Sergio Todesco nel suo contributo  sul caso di Lucano a Riace – «vige, crudelmente, quella che Martin Heidegger riteneva fosse la cifra costitutiva della condizione umana, un “essere scagliati nel mondo” privo di qualunque speranza di riscatto. Cosa farebbe ognuno di noi al posto di questi dannati della terra? Rimarremmo buoni a subire pazientemente guerre, malattie, carestie, persecuzioni, fame? O non cercheremmo, piuttosto, di trovare nuove terre e nuovi contesti umani entro cui iniziare una nuova e meno tribolata esistenza?». 

Interrogativi che si poneva anche Vincenzo Consolo, scrittore e intellettuale di grande impegno civile, consapevole come amava ripetere che «la storia della civiltà è storia di emigrazione e di reciproco arricchimento». Nel decennale della morte Dialoghi Mediterranei lo ricorda con le testimonianze affettuose e sentimentali di due poeti: Sebastiano Burgaretta e Nicola Grato. Su questo numero, nell’omaggio in occasione di anniversari per il centenario, sono presenti anche altri illustri autori della letteratura: Giovanni Verga, Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini, Luigi Meneghello nonché Angelo Fiore e Dario Bellezza. Vi troviamo infine tre indimenticabili figure di antropologi: Hermann Bausinger nel contributo di Luca Renzi, Gian Luigi Bravo con l’ultima intervista rilasciata a Piercarlo Grimaldi e Antonino Buttitta nella recensione di Francesco Faeta al libro postumo stampato a cinque anni dalla morte. Uomini, scrittori, intellettuali, maestri la cui memoria presentificata nelle opere resta – come ci hanno insegnato – «l’unico orizzonte di senso che sconfigge la morte». 

Pietro Clemente nel suo intervento ricorda la nascita della rubrica Il centro in periferia che dal 2017 è parte significativa della rivista, qualcosa di più di una «rassegna di esperienze e progetti del mondo dei piccoli paesi», un nodo importante di una rete di associazioni, di comunità locali, di istituti culturali, di organismi editoriali, uno spazio di riflessione e di elaborazione intellettuale e progettuale che ha anticipato, promosso e rilanciato l’attenzione sulle questioni connesse al destino delle aree interne del nostro Paese, ai temi del “Riabitare l’Italia”, al recupero dei luoghi e della coscienza dei luoghi. Ascoltare i territori, le periferie, quanto accade ai margini delle grandi città che hanno perduto la loro funzione direzionale, intercettare le effervescenze e i sussulti di vita democratica, le sperimentazioni di nuove forme di economie ambientali animate da minoranze attive o da mobilitazioni collettive, documentare i piccoli segni in controtendenza di restanza o di reinsediamento anche sulla spinta delle costrizioni pandemiche, “invertire lo sguardo” insomma è l’impegno assunto da Clemente nel suo primo editoriale di cinque anni fa, la strategia che su queste pagine continua a perseguire, pur nei limiti di un coordinamento tra le diverse esperienze non ancora pienamente raggiunto. «Vedo – scrive – un caleidoscopio che non ha ancora trovato la forma di insieme». Ci pare tuttavia che la eterogeneità dei contributi e la loro apparente disomogeneità siano coerenti con lo stile dialogico delle connessioni tra connessioni e delle contaminazioni feconde cui si ispira da sempre la rivista. 

Scrivere di musei, di mestieri, di paesaggi, ricordare Cirese o Guatelli, disegnare mappe di comunità, ragionare sulla patrimonializzazione dei beni comuni o descrivere riti e feste tradizionali nelle loro trasformazioni antropologiche, battersi per arginare desertificazione e spopolamento non è forse in consonanza con i dibattiti sulle migrazioni, sulla scuola, sulla cittadinanza, sul rapporto tra potere e cultura, tra intellettuali e società? In fondo, alla prospettiva del cambiamento e allo sforzo di “riabitare l’Italia” concorrono tutti i tentativi volti a contrastare le diseguaglianze e a salvaguardare le diversità rispettose della natura policentrica del nostro Paese, le pagine scritte per promuovere la conoscenza e difendere le bellezze dei tanti paesi che lo compongono. Se è presto forse per fare un bilancio complessivo di quanto è stato pubblicato fin qui, va tuttavia riconosciuto che la indiscutibile crescita negli anni di questo spazio curato da Pietro Clemente è sicuro indizio di arricchimento di apporti e di espansione dell’auspicata volontà a invertire lo sguardo “dal centro alla periferia”. 

Mentre non cessa l’impegno a decostruire le irriducibili dicotomie del senso comune e a connettere voci diverse e lontane, mettendo insieme una straordinaria pluralità di testi, di autori, di immagini, Dialoghi Mediterranei ha nel frattempo generato una nuova collana editoriale di scritti raccolti in “Quaderni” che pubblicati online riordineranno e riproporranno in volumi unitari i molteplici contributi dei collaboratori o i diversi interventi tematici su singoli dibattiti a carattere monografico. Il primo “Quaderno” di questa collana, già in rete sotto le insegne della casa editrice universitaria CISU in partenariato con l’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo (https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/quaderni-di-dm/), raccoglie i saggi di Annalisa Di Nuzzo, studiosa attenta agli aspetti antropologici delle migrazioni e delle ibridazioni e pertanto accorta interprete dello statuto dialogico fondativo della rivista, che anche in questo numero offre idee, proposte e strumenti per leggere le dinamiche del mondo contemporaneo, per riflettere sui fenomeni culturali della storia e della cronaca, per approfondire questioni che interrogano e chiamano in causa le nostre responsabilità. Di “cultura delle riviste” abbiamo bisogno ha scritto Sabino Cassese nel libro già citato, di intellettuali che «non devono fare geremiadi ma assumere un atteggiamento cooperativo», perché si facciano interpreti della coscienza critica collettiva e aiutino a «fornire una prospettiva, spiegare quel che sta sullo sfondo, permettere di capire in quale direzione ci si muove, illustrare i significati, tradurre il linguaggio di una tradizione culturale nel linguaggio di altre tradizioni».

Un impegno etico e un ruolo civile ancor più cogente oggi che, non ancora liberi dalla pandemia, siamo coinvolti in una guerra – la vecchia sporca guerra del ‘900 – che ha fatto irruzione nel cuore dell’Europa del terzo millennio, ricostituendo, sulla scia di sangue di Sarajevo di trent’anni fa, trincee e truppe d’assalto, bombardamenti e carri armati, offensive e controffensive, territori da occupare palmo a palmo, strada per strada, casa per casa, dopo strenue resistenze e drammatiche capitolazioni. Un paesaggio e un lessico militare che dopo la caduta del muro di Berlino pensavamo riguardasse soltanto aree remote e regioni pressoché ignote. L’orrore di quanto sta accadendo a pochi chilometri da noi muove la nostra indignazione e forse la nostra solidarietà ma sollecita anche lo sforzo di capire davvero cosa si stia preparando tra le faglie profonde delle tensioni continentali nel disordine geopolitico globale. Tra i rischi del conflitto nucleare e la sfida dei regimi autoritari alle democrazie occidentali c’è il destino non solo dell’Ucraina ma dell’intera Europa che, se non vuole essere una semplice espressione geografica segnata da confini e frontiere, deve dare luogo e voce a quella idea di patria dei diritti e delle libertà civili, politiche e personali ereditata dalla sua storia culturale e spesso vantata e più spesso tradita dalla pochezza dei retori, dalla pavidità dei burocrati e dall’imbroglio dei cosiddetti  “patrioti”.

A guardar bene, alla fine della guerra, di tutte le guerre, l’unica certezza è quella che l’esperienza del passato ci insegna. Non ci saranno davvero vincitori. Ci saranno invece centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. L’Europa può riscattare se stessa se dalla lezione di questa tragedia trarrà finalmente la spinta  a far prevalere sugli egoismi nazionali degli Stati i principi universali dell’accoglienza, del dialogo, della libera circolazione dei popoli, se contro la linea fin qui adottata di respingimento o di restrizioni darà ospitalità e protezione non soltanto agli esuli ucraini ma a tutti i rifugiati del mondo, a partire da quelli sopravvissuti alle guerre subsahariane e alle terribili traversate del Mediterraneo. Perché – come affermava Camus – «dalle coste dell’Africa si vede meglio il volto dell’Europa».

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022

 

 

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