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EDITORIALE

Palermo (ph. L. Vazquez).

Palermo (ph. L. Vazquez)

Alla vigilia del voto lasciamo alle spalle una campagna elettorale arroventata da polemiche e isterie politiche che hanno trasformato l’immigrazione in uno sfogatoio, una straordinaria valvola di sfogo omnicomprensiva di tutte le ansie, le pulsioni e le preoccupazioni che attraversano come un nervo scoperto il nostro Paese e la nostra società. Sugli immigrati e sovente contro gli immigrati sono state ossessivamente convogliate attenzioni, enunciazioni e imprecazioni dei partiti e dei media. La retorica ansiogena sulla sicurezza ha dominato il dibattito pubblico, da tempo inquinato da un linguaggio emotivamente violento, fatto di parole d’ordine, di slogan, di formule ed espressioni profuse a vanvera (bombe sociali, invasione, sostituzione etnica, fenomeno fuori controllo) oppure usate come pallottole per intimare e confondere la mente. In pratica un lessico ad alta densità di odio sociale. E «l’odio – dice il Poeta – è analfabeta. Scrive pagine di sangue sgrammaticate».

Della violenza verbale è figlia – facilmente riconoscibile anche se ipocritamente rinnegata – la violenza fisica. Quella che si sta moltiplicando nelle nostre città. Le paure collettive – sollecitate, alimentate e perfino costruite artificiosamente – diventano fobie e sono la leva utilizzata per promuovere e autorizzare il progressivo indebolimento ovvero la totale rimozione dei freni inibitori che impedivano fino a ieri di adoperare un linguaggio apertamente razzista, oggi largamente tollerato, ostentato, sdoganato. Ciò che è accaduto a Macerata, prima, durante e soprattutto dopo, è il precipitato di una escalation cominciata da tempo, il distillato di una politica che attraverso le vicende dei migranti ha manipolato e manomesso parole come patria, civiltà, identità, sovranità, cittadinanza. Lo straniero legittima ogni forma di ripulsa, giustifica il razzismo strisciante convertito in opinione corrente, riscatta anche il neofascismo banalizzato e minimizzato, mimetizzato in mille eufemismi ma perfettamente in consonanza con la canea verbale che dissemina l’islamofobia e invoca la difesa della razza bianca e il primato della italianità.

L’immagine del tricolore sulle spalle di un assassino è l’ultimo atto di una rappresentazione degradata del nostro Paese, della inquietante torsione di simboli e valori imbrattati dalla xenofobia di ideologi eversori e ciechi giustizieri che teorizzano l’inferiorità degli altri per esorcizzare la propria. Le parole dell’odio, accumulato, incrementato e imploso, figliano gesti irresponsabili, esasperano tensioni e contraddizioni, radicalizzano lo scontro con il diverso, fino a ridurlo ad una primitiva caccia fai da te. La cronaca di queste ultime settimane ci ha consegnato una sequenza impressionante di episodi di violenza politica che non hanno nulla di episodico ma sembrano segni diversi correlati ad un unico persistente disegno, quello di destabilizzare gli equilibri sociali e acutizzare i disagi e le criticità della convivenza civile.

Anche Amnesty International denuncia nel Rapporto appena pubblicato sullo stato dei diritti umani che in Italia è cresciuta l’intolleranza, che sembrano concentrarsi più che in altri Paesi europei le dinamiche di tendenza al disprezzo e all’odio non più soltanto contro gli altri ma anche verso chi aiuta gli altri, considerati alla stregua di “collaborazionisti”: «la modalità già preoccupante del “noi contro loro” si è complicata con un altro elemento. Adesso è “noi contro loro, ma anche contro voi che state con loro”. E quel “voi” sono gli italiani che da soli, con le associazioni o con altre forme di volontariato praticano la solidarietà, l’accoglienza, la condivisione». Gli immigrati, stretti in questa tenaglia, sono poco più che merce. Per gli scafisti e gli aguzzini della tratta, per i candidati del marketing elettorale, per gli imprenditori del caporalato nelle campagne, ma anche per le cancellerie europee che nei trattati ne negoziano e barattano quote e diritti pur di tenerli lontani.

Da tempo Dialoghi Mediterranei registra e pone all’attenzione questa progressiva degenerazione della vita etica e civile nonché del linguaggio pubblico, una deriva che si consuma nell’estenuante dibattito sull’immigrazione, perenne emergenza e luogo e oggetto privilegiato delle fibrillazioni sociali e delle speculazioni politiche. La rivista, nata ad aprile del 2013 e prossima dunque ad entrare nel sesto anno di pubblicazioni, non ha mai cessato di mettere al centro il fenomeno che della contemporaneità esprime paradigmaticamente tutte le complessità e le potenzialità. Le migrazioni come cifra e metafora del nostro tempo, crocevia di passato, presente e futuro, antropologia delle connessioni, contaminazioni e sperimentazioni culturali. Incrociando locale e globale, i movimenti degli uomini producono significativi processi di trasformazione urbana e di profonda riarticolazione delle differenze. Per tutto questo sono osservatori fondamentali per capire le dinamiche di quanto accade nelle nostre città e le prospettive possibili che si delineano nell’orizzonte delle nuove generazioni.

In tutta evidenza, in questi anni, attorno alle pagine di questo bimestrale – libero da lacci e lacciuoli  accademici − si è formata una comunità sempre più numerosa che sembra voler condividere qualcosa di più di un progetto editoriale, partecipando a quel pensare in comune da cui muove il senso del dialogo, dell’impegno intellettuale e del confronto critico delle idee. Gli scritti che vedono la luce online – ad oggi più di mille articoli – sono destinati a vivere anche fuori dalla rivista, migrano nelle bacheche dei social e tessono una formidabile rete di relazioni umane. Da qui l’efficacia di uno strumento di conoscenza che ha, tra gli altri, l’obiettivo di restituire significato alle parole che usiamo, ai gesti che compiamo, ai giudizi che diamo, soprattutto quando parliamo di immigrazione. Se non si ha percezione e consapevolezza anche minima dell’oggetto dei nostri discorsi, dei fatti di cui stiamo parlando, rischiamo di aggiungere equivoci concettuali e distorsioni ideologiche all’ambiguità delle più corrive rappresentazioni.

Anche in questo trentesimo numero, che coincide con uno speciale sommario ricchissimo di contributi, il fenomeno delle migrazioni resta un tema di riflessione privilegiato. Ne scrivono  parecchi autori sulla base di ricerche inedite o di analisi interpretative che ne focalizzano aspetti diversi: le rotte e le frontiere, la dimensione di genere, il sistema dell’accoglienza e la funzione del mediatore culturale, le esperienze virtuose e le testimonianze dei richiedenti asilo, le dinamiche associative, le forme del razzismo e le metodologie antropologiche, la memoria consegnata ai musei e quella postcoloniale affidata alla letteratura, la documentazione dei dati statistici aggiornati che come sentinelle sembrano voler presidiare e difendere quel principio di realtà e di verità messo a dura prova dalle fake new e dalla sciatteria delle parole sequestrate da certa propaganda politica e  mediatica. Un quadro unitario e articolato di questioni dense di implicazioni teoriche e pratiche.

A ben guardare, tuttavia, Dialoghi Mediterranei è spazio più ampiamente plasmato dalla declinazione antropologica dello sguardo di chi vi scrive, una prospettiva inclusiva che accoglie e mette in dialogo – per esempio –  lo studio degli illustratori e narratori per l’infanzia con la lettura critica di una web series sulla conquista normanna di Sicilia, la poesia contemporanea dell’algerino Jean Sénac con i versi del siriano Abû Nuwās dell’VIII secolo, i beni culturali ecclesiastici con quelli popolari delle tradizioni festive e rituali, le donne della medina di Tetuàn in Marocco con le operaie vittime del rovinoso incendio scoppiato il 25 marzo 1911 nella fabbrica situata nel palazzo di dieci piani, l’Asch Building di Manhattan. Dentro questo stesso numero possono pertanto proficuamente convivere una suggestiva riflessione su Sorella Morte e una non meno efficace argomentazione sull’arte dell’e-sistere; la narrazione ragionata per libere associazioni sulle categorie cognitive ed emotive del pensare, del ricordare e dello scrivere e le considerazioni critiche ai margini del rapporto tra natura e cultura attraverso l’educazione linguistica del famoso ragazzo selvaggio dell’Aveyron; l’analisi dell’ambigua politica industriale dell’Eni a Gela e le puntuali osservazioni sul sempre più potente ruolo della logistica nell’organizzazione dell’impresa e del lavoro; nonché l’esame degli aspetti sociogiuridici dell’Islam nel contesto italiano unitamente al vaglio delle sentenze della Corte Europea dei diritti umani in relazione al problema dell’esposizione dei simboli religiosi in luoghi pubblici. E forse qualcosa in comune, nel segno universale del mito, hanno perfino i pupi siciliani di Cuticchio e l’attrice tedesca Marlene Dietrich in visita al museo di Antonino Uccello, l’antropologo James Clifford e la zza Pina guaritrice di Mazzarino, Muhammad ‘Abduh, intellettuale musulmano ospite a Palermo nel 1902, e Nick La Rocca, emigrato dalla Sicilia a fine Ottocento e protagonista della fortuna del Jazz a New Orleans. Una molteplicità di apporti e un complesso di temi apparentemente lontani e diversi la cui connessione è destinata ad incrementare i livelli di conoscenza e di intelligenza della realtà.

Nella sezione monografica “Il centro in periferia” Pietro Clemente continua a disegnare la mappa di «una Italia inconsueta, centrata sulle aree interne, sulla montagna, sui luoghi dai quali si va via», prende forma il paesaggio geografico ed umano dei piccoli paesi, ognuno con una propria biografia individuale, con una propria identità storica e antropologica. Dalla Barbagia alla Val D’Aosta, dalla Maremma alla Calabria, al Friuli, si tesse una trama significativa di esperienze culturali che promuovono e sostengono il rilancio di attività economiche e sociali in un contesto difficile di inarrestabile depauperamento demografico. «Sono tracce di arte e di creatività, in queste pagine, che connettono i paesi al mondo, ma sono anche segni di un radicamento e di un saper fare che vi si innestano creando nuovo abitare locale, economia produttiva». Intorno ad un piano di grande progettualità culturale Clemente esprime la convinzione che uno sguardo più attento alla vita delle piccole comunità «può cambiare il modello di pensabilità di tanti concetti, impostosi sugli scenari nazionali e mondiali», a cominciare da quelli di democrazia, di civiltà e di convivenza.

Nel dedicare questo numero a Folco Quilici, pioniere e maestro della esplorazione e della documentazione per immagini del Mar Mediterraneo, proponiamo gli scatti ispirati alle città mediterranee della fotografa spagnola, Luisa Vazquez, in permanente viaggio itinerante da Gerusalemme ad Atene, a Istanbul, al Cairo, a Napoli, per fermarsi temporaneamente in Sicilia, a Palermo dove – scrive – «comincio a intravedere e capire i legami impalpabili che uniscono l’antichissima Palestina con la coltivazione dei palmeti infiorescenti a Elche (Alicante). Dove riscopro le parole dello storico Fernand Braudel». Come a voler richiamarne forse alla memoria altre, quelle famose di Goethe che invitava a trovare in Sicilia «la chiave di tutto».

Altre immagini infine di diversa suggestione sono nel testo di Nino Giaramidaro, riconducibili ad uno straordinario archivio fotografico, realizzato da un collezionista privato, volto a documentare la storia urbana e la vita quotidiana degli abitanti di una città siciliana. Se ciascuna comunità conservasse un eguale patrimonio iconografico assimilabile ad una vera e propria autobiografia collettiva, potremmo probabilmente disporre di un atlante della memoria figurata di grande rilevanza civile oltre che culturale.

E di memoria oggi come non mai abbiamo estremo bisogno. In un momento di particolare responsabilità e impegno pubblico nel regime mediatico della psicopolitica. In un Paese in cui, per strappare qualche voto in più, si giura sul Vangelo trasformato in manifesto elettorale, si raccontano tra gli applausi barzellette omofobe e si scagliano invettive contro gli immigrati che usurpano i diritti degli italiani.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018

 

 

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Una risposta a EDITORIALE

  1. Rosolino Buccheri scrive:

    Non si può che concordare in tutto, caro Antonino, nel merito e nell’appassionata esposizione, quanto hai espresso sull’argomento della immigrazione utilizzato in campagna elettorale! Naturalmente, per quanto riguarda la dissennata campagna elettorale, altri temi, anche se non di specifica pertinenza della rivista ma non privi di importanza, hanno pervaso e confuso la scena, temi spesso legati a impropri desideri personali di potere e di esibizione più che collegati all’esercizio dell’amministrazione pubblica mirato allo sviluppo positivo del Paese.

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