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EDITORIALE

Tangeri 1991 (©Tano Siracusa

Tangeri 1991 (©Tano Siracusa)

Nella ricerca di capire la realtà nelle sue dinamiche sociali più profonde ci soccorre sempre la cronaca che dissemina, solo apparentemente in modo casuale, segni da leggere come parole di un testo denso di significati. Così accade che a metà luglio muoiono di fatica e cadono sul posto di lavoro, a pochi chilometri e a pochi giorni di distanza l’una dall’altro, due braccianti: una donna, Paola, madre di tre bambini, e un sudanese, Mohammed, entrambi soggiogati al feroce sistema di mediazione del caporalato, entrambi ridotti in schiavitù per 27 euro al giorno, la metà della paga contrattuale, o peggio ancora a cottimo, a due euro a cassetta. Crollati a terra sotto il sole, stremati dal caldo e dagli stenti, lavoravano nelle vigne pugliesi, dopo essere stati prelevati a notte fonda dai camion per essere all’alba sui campi. Due storie e due vite diverse, segnate da un destino comune, una condizione di cinico sfruttamento, privi entrambi i lavoratori delle fondamentali tutele sindacali, sommersi dal silenzio complice e carico di paure, inghiottiti nella invisibilità dello Stato e nell’assenza dei media, entrambi piccole e presto dimenticate vittime della grande e secolare tragedia della questione meridionale. Nessuno nei fastosi cluster dell’Expo si ricorderà di loro e dei tanti fantasmi che raccolgono per noi i frutti della terra senza il riconoscimento di alcun diritto.

A guardare bene dentro questo fatto di cronaca, si certifica che nel contesto di questo mercato delle braccia le differenze etniche evaporano, si dissolvono e si confondono a quelle di genere, si attesta che gli italiani sono merce come gli stranieri e come gli stranieri sono clandestini, fuorilegge, reietti, dentro lo stesso racket che prevede le stesse regole di reclutamento, le stesse procedure di mercificazione dei corpi, le stesse umilianti discriminazioni. Nel mercato gestito dai caporali – gli stessi che un tempo si chiamavano campieri e soprastanti, oggi travestiti da tour operator – le donne valgono meno degli uomini e poco più dei migranti, sono docili, remissive, disperate quanto coloro che hanno attraversato il deserto e il mare per giungere fin qui, nelle campagne medioevali del Sud, dove si muore all’ombra di una moderna tratta di esseri umani, nel solco di un’antica servitù della gleba. Qui globalizzazione e paleocapitalismo convivono, postmodernità e arcaicità si sovrappongono. Quel lavoro materiale che fa piegare la schiena come secoli fa, riconducibile a quella economia primitiva che si regge sulla intermediazione parassitaria e mafiosa, sopravvive alle nuove tecnologie immateriali, penetra e si avviluppa come un rampicante negli interstizi di un sistema di collocamento che si avvale di agenzie interinali governate in rete. Nei campi i braccianti sono solo braccia, nude braccia. Sembra cadere ogni differenza, ogni concorrenza, nel pozzo delle estorsioni e dei ricatti, nel girone di un inferno in cui parafrasando le parole terribili di Primo Levi dovremmo interrogarci se questi sono uomini.

Forse c’è da domandarsi davvero su chi siamo quando ci diciamo umani, c’è da chiedersi come antropologi quale senso dell’umano esprima oggi la cultura del nostro tempo, quale antropopoiesi stiamo lentamente costruendo, quale percezione e quale concezione abbiamo della vita delle persone, della loro dignità, della loro umanità. Sulle categorie umano/non umano si gioca ancora la reificazione di una discriminante (inclusione/esclusione) che produce e riproduce i rapporti di potere. Così, mentre noi continuiamo a scrivere e a discutere su intercultura e identità ibride, sugli intrecci di locale e globale, su diaspore e transnazionalismi, i migranti affondano nelle acque del Canale (più di duemila solo quest’anno), gli Stati innalzano i loro confini blindati e moltiplicano i muri, i militari lanciano cani, lacrimogeni e granate contro chi fugge dalle guerre e chiede asilo, le società sembrano ripiegare sui propri angusti interessi e frantumarsi in cupi egoismi ed esasperati individualismi.

Cosa c’è di “umano” nelle politiche di respingimento degli uomini, delle donne, dei bambini che tentano di scavalcare i fili spinati delle frontiere? Cosa c’è di razionale nel negare il diritto alla migrazione fino a trasformarla in una vera e propria deportazione, odissea di migranti ostaggio di violenze e soprusi? Cosa c’è di cristiano nel costringerli a imbarcarsi su gommoni destinati subito dopo la partenza ad affondare, su carrette stipate fino all’inverosimile, ove sono rinchiusi dentro stive sigillate, picchiati con cinghiate dagli scafisti, intossicati dalle esalazioni dei gas di scarico dei motori? Cosa c’è di civile nelle retoriche razziste di quanti – arruffapopolo o piazzisti, demagoghi o veri e propri spacciatori di paure – cercano di trarre vantaggi elettorali speculando sulle insicurezze individuali e sulle pulsioni collettive?

La verità è che nessuno potrà fermare questo continente di uomini in movimento, perché «la Storia zappa a centimetri e gli uomini hanno i piedi di piombo» – per usare le parole del Poeta – e la marcia dei disperati, che si lasciano alle spalle le famiglie spezzate, le città e le esistenze distrutte, è inarrestabile, interminabile, irresistibile, muovendo dal destino sventurato di fame e violenze verso la fragile speranza di un mondo migliore, dalla morte sicura alla ricerca di una qualche vita possibile. Ecco perché la frontiera di Skopje tra la Grecia e la Macedonia ha finito col cedere sotto la forza d’urto di quanti provenienti dall’Iraq, dall’Afganistan, dalla Siria e dal Pakistan usano la rotta balcanica come via di fuga verso l’Europa continentale. L’immagine dei loro pellegrinaggi lungo i binari ferroviari, delle loro drammatiche peregrinazioni su treni precari e affollati non può non richiamare alla memoria altre immagini di sfollati, di fuggiaschi, di perseguitati, di sopravvissuti dell’ultima guerra mondiale. Ma la stessa tenace volontà di chi non vuole più tornare indietro spiega perché, nonostante i tanti senza nome morti annegati nella foiba del Mediterraneo, continua la sfida dei migranti sul mare, la pericolosa traversata in attesa dei soccorsi. Da qui la resistenza ostinata e silenziosa sugli scogli di Ventimiglia e nei piazzali di Calais, ove sono accampati da mesi perché i confini siano finalmente liberati dai blocchi e il passaggio dell’umanità senza più patria sia reso possibile. Se come Cristo ad Eboli l’Europa si è fermata, non solo simbolicamente, sulla barriera transalpina di Mentone o alle soglie dell’Eurotunnel tra la Francia e la Gran Bretagna, l’esodo dei profughi non può essere fermato, come non può essere arginato il mare o il vento. Soltanto da questa fondamentale consapevolezza può maturare un qualche governo dei flussi, un Piano Marshall straordinario, una politica europea dell’immigrazione, in una parola la politica fino ad oggi del tutto assente.

A fronte di una realtà sempre più drammatica Dialoghi Mediterranei continua a guardare al fenomeno delle migrazioni come alla chiave di tutto quel che la storia ci sta preparando, come ad uno snodo cruciale ed epocale della nostra contemporaneità. C’è una evidente questione culturale alla base delle inerzie e delle debolezze politiche clamorosamente dimostrate dalle istituzioni internazionali nell’affrontare e gestire il fenomeno. Il nostro contributo consiste nell’offrire analisi e ragionamenti su temi e aspetti connessi alle esperienze degli immigrati, nel tentativo di decostruire le interpretazioni essenzialiste che tendono ad oscurare i profili degli uomini e delle donne in carne e ossa, degli immigrati che arrivano, transitano, abitano, lavorano nelle nostre città, entro categorie astratte, rappresentazioni convenzionali, immagini stereotipate.

Come “fatti sociali totali” le migrazioni sono indagate nella loro pluralità di prospettive, nell’articolazione olistica di uno sguardo prevalentemente antropologico. A partire da una mostra o da uno spettacolo teatrale e musicale, sulle tracce del mondo antico ovvero nel ricordo di pagine della storia mediterranea, ma anche a proposito delle drammatiche testimonianze e narrazioni di particolari esperienze di vita oppure sulla base delle parole di noti studiosi di scienze sociali, non meno che sugli esiti di puntuali ricerche etnografiche, i movimenti migratori, pur nella diversità e molteplicità degli approcci, restano luogo di confluenza culturale e fondamentale crocevia delle riflessioni di alcuni degli autori di questo numero di Dialoghi. Che tuttavia si occupa anche di archeologia, di urbanistica, di alimentazione, di psicanalisi, di simbologia, di letteratura e di letture, di attualità politica e sociale.

Tra i numerosi e interessanti contributi dei tanti giovani laureati dell’Università di Palermo che collaborano con la nostra rivista, vale la pena segnalarne – solo a titolo esemplificativo – almeno due, rispettivamente di Eugenio Giorgianni e di Francesca Rizzo. Il primo articolo è una acuta e serrata analisi del caso di Carlo Giuliani, morto in occasione del vertice G8 a Genova nel 2001: si tratta di una ricognizione rigorosamente condotta attraverso la decostruzione delle verità proposte dalle differenti e conflittuali letture delle immagini fotografiche. Il secondo contributo è il frutto di uno studio attento svolto su un quartiere urbano abitato da più nuclei etnici di immigrati. In un contesto particolarmente denso di memorie storiche sono indagate con sensibilità etnografica le dinamiche relazionali, i processi di appropriazione e rifunzionalizzazione degli spazi, le forme di conflittualità sociale e di sincretismo culturale, le operazioni di conversione dell’etnico nell’esotico, attraverso la fascinazione turistica e mediatica prodotta dai richiami mitici di una certa mediterraneità architettonica.

Altro è il Mediterraneo descritto e illustrato, in questo numero, dal contributo fotografico di Tano Siracusa: un mosaico di città-confine, tappe di un suggestivo periplo che va da Agrigento a Tangeri, da Marsiglia a Istanbul. Fotografo che ama la realtà ritagliata in scorci obliqui, riflessa o velata, sospesa o moltiplicata nelle più diverse rifrazioni, Siracusa sa che la luce è consustanziale alla stessa materia della fotografia, e ritrova proprio nella luce la cifra identitaria del Mediterraneo.  Così scrive con indubbia efficacia: «Nelle città-confine mi sembra di avere riconosciuto la stessa luce prismatica, variata dai venti e dalle stagioni, ma riconoscibile ovunque nel nostro mare, la luce che Van Gogh aveva cercato e trovato in Provenza, su cui Cézanne aveva spalancato e chiuso per sempre i suoi occhi, quella che descrivono Choukri a Tangeri, Pirandello a Girgenti, Pamuk nella sua Istanbul. La luce del Mediterraneo, quella rimane uguale, ed è patria per un siciliano anche in Francia, in Marocco, in Turchia».

Sembrano perfettamente dialogare con le foto di Tano Siracusa le parole di Moni Ovadia, intervistato da Valentina Richichi, in occasione di uno spettacolo rappresentato nel parco di Selinunte. Nel ricordarci che «trenta milioni di italiani emigrarono in un secolo; quattro milioni e mezzo erano clandestini», l’eclettico uomo di teatro che conosce la lezione della storia affida al fare artistico il compito di «educare le generazioni che stanno crescendo al riconoscimento dell’emigrazione come fenomeno che coinvolge umanità, la quale umanità ha lo statuto pieno di titolarità alla dignità e al diritto. Non si può evadere questa questione senza riprecipitare nella barbarie nazionalista».

Jeremy Boissevain

Jeremy Boissevain

Dialoghi Mediterranei vuole infine ricordare l’eminente antropologo olandese docente emerito dell’Università di Amsterdam, Jeremy Boissevain, che è scomparso il 26 giugno scorso. Abbiamo conosciuto e incontrato Jeremy e la moglie Jnga nell’estate del 2013, in occasione di una loro visita in Sicilia dopo il consueto soggiorno stagionale a Malta. Il comune interesse per la cultura siciliana e per i temi antropologici relativi al Mediterraneo ha favorito l’avvio di un intenso dialogo e la pronta e generosa collaborazione che Jeremy ha voluto stabilire con noi e con la rivista. Non sempre accade che lo studioso stimato e affermato nell’ambito accademico trovi il tempo e l’attenzione per le piccole imprese editoriali poco note e per di più periferiche. Jeremy ha mostrato subito una disponibilità non comune, un sincero entusiasmo per il nostro lavoro e ha mandato alla redazione numerosi articoli inediti in Italia che abbiamo tradotto e pubblicato. Anche questo numero si avvale di un suo prezioso contributo ancora una volta su Malta, che è stato a lungo e fino all’ultimo il luogo privilegiato della sua ricerca etnografica. Lo aveva inviato mesi fa, accompagnandolo con la promessa che ci saremmo rivisti questa estate.

Ci rimane il ricordo di un uomo gentile e sensibile prima ancora che di uno studioso serio e impegnato a coniugare l’antropologia con l’indagine sul campo e la viva attenzione per gli aspetti sociali e civili  In una delle sue ultime interviste Boissevain ha dichiarato: «Ho sempre cercato di tenere i piedi a terra e di guardare ai problemi concreti della gente. Mi piace mescolarmi tra le persone. Per me antropologia significa essere in contatto con le persone e con quello che accade loro. È questa la cosa più importante». Autore di diversi volumi, mai tradotti in lingua italiana e in gran parte dedicati ai temi dell’antropologia sociale e alle sue applicazioni, ha studiato la presenza degli italiani a Montreal, ma soprattutto la società maltese nelle sue dinamiche storiche e culturali: le feste e i rituali tradizionali, le reti amicali e i rovinosi effetti del patronage politico e delle speculazioni turistiche sull’ambiente. In quella stessa intervista esprimeva un profondo rammarico: «quello che mi ha offeso e ancora mi offende è il modo in cui Malta si prostituisce per qualche turista in più».

Non c’è dubbio che Malta perde con Boissevain il suo più grande etnografo. Dialoghi Mediterranei ha perso un amico e uno dei suoi più prestigiosi collaboratori. A lui dedichiamo questo numero di fine estate.

Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
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