Stampa Articolo

Due popoli, due Stati: Dio non lo vuole

3c7e9afa32effa81280589dad2774a81di Enzo Pace 

Si è tornati a parlare dell’ipotesi di due popoli e due Stati per la soluzione del conflitto israeliano-palestinese. La domanda che molti di noi si pongono è se tale programma sia ancora realistico. Se ne parla da quasi novanta anni, da quando la commissione Peel (dal nome del suo Presidente) ridisegnò la mappa del territorio palestinese, allora sotto mandato britannico: una terra rispettivamente per lo Stato d’Israele e un’altra per quello della Palestina. Gerusalemme avrebbe avuto uno statuto internazionale.

C’è molto scetticismo oggi rispetto a chi ripropone la soluzione dei due Stati. Soprattutto tra le due popolazioni interessate, se dobbiamo dare retta ai sondaggi effettuati tra ottobre e novembre da alcuni istituti di ricerca americani (riportati in modo scarno da The Guardian il 18 ottobre scorso). È calato molto, non c’è da stupirsi, il numero di quanti ci credevano sino al 7 ottobre. Del resto le forze in campo, sia tra gli israeliani sia tra i palestinesi apertamente ostili a tale soluzione, hanno occupato sempre più la scena politica e quella militare, lottando in ogni modo per chiudere ogni possibile strada per un negoziato tale da pacificare l’area e porre le premesse per realizzare l’ipotesi dei due Stati. Il fattore-religione ha contribuito in entrambi i  fronti a radicalizzare le rispettive posizioni, rendendo ancor più complicato uno scenario di guerra permanente, che dura a fasi alterne da settantacinque anni.

Le riflessioni che seguono cercano di pesare quanto conti tale fattore nell’attuale ripresa del conflitto armato sia per quanto riguarda il già disunito fronte palestinese sia per quanto attiene alla polarizzazione crescente tra partiti nazional-religiosi e partiti democratici in Israele. In particolare, in questo secondo campo, il sionismo religioso si configura come un movimento etno-nazionalista che considera i territori della Palestina parte integrante e inalienabile di Eretz Israel, la biblica Terra promessa. Non c’è spazio, allora, per uno Stato palestinese. Per i palestinesi l’alternativa, secondo il sionismo religioso intransigente, che oggi è al potere in Israele, è “togliere la terra sotto i piedi” a chi è considerato indesiderato (e ormai odiato) nemico in patria, stabilizzando sempre più un regime di apartheid (più volte e da tempo paventato da David Grossman, come nell’intervista del 10 dicembre del 2021 al Jerusalem Post), di segregazione in ristrette aree supercontrollate militarmente dall’esercito israeliano di quanti volessero ancora restare come ospiti guardati a vista e con sospetto. Un paradosso storico per un popolo come quello ebraico che ha vissuto l’esodo, la diaspora, i ghetti, la persecuzione, la pulizia etnica e, infine, la Shoah.

yom_kippur_war_map-it-svgL’irruzione del fattore-religione nel conflitto è segnata dalla guerra dei Sei Giorni (1967); segna uno spartiacque. I territori occupati dall’esercito israeliano dalla Cisgiordania sino a Gaza, dal Sinai egiziano sino alle Alture del Golan siriano non sono solo il prezzo a tutt’oggi pagato dai vinti (i palestinesi), ma sono diventati negli ultimi trenta anni un luogo speciale nella mente di gruppi di ebrei che avevano sino ad allora ritenuto empio lo Stato d’Israele. Per una minoranza di ebrei della diaspora, infatti, il progetto politico del movimento sionista di fondare uno Stato secolare e non confessionale appariva un grave tradimento rispetto alla Terra promessa da Dio al suo popolo. Tant’è che alcuni gruppi di ebrei si rifiutarono di tornare in Israele all’indomani della creazione dello Stato nel 1948. Inizieranno a farlo dopo vittoriosa guerra del 1967. Altri, pur avendo lottato assieme ai sionisti della prima ora per realizzare il sogno di uno Stato per gli ebrei in Palestina, avevano contestato l’idea di Ben Gurion e dei maggiori leader sionisti di scrivere una Costituzione. Perché redigere una carta fondamentale, quando l’unica vera costituzione, sostenevano questi ebrei, era la Torah, i libri sacri che facevano memoria della parola divina?

Lo Stato d’Israele ancor oggi non ha una Costituzione; continua ad aver valore il compromesso raggiunto nel 1948 (lo status quo), in base al quale i sionisti laici concessero ai gruppi di ebrei intransigenti il riconoscimento pubblico da parte dello Stato dello shabbat (che prevede che tutte le attività quotidiane siano sospese, compreso l’uso degli ascensori e gli spostamenti in auto), l’esenzione dal servizio militare per i giovani che frequentano le scuole rabbiniche e la possibilità di rivolgersi ai tribunali religiosi in materia di diritto matrimoniale.

Mappa di Eretz Israel, 1695 (di Abraham Bar Jocob)

Mappa di Eretz Israel, 1695 (di Abraham Bar Jocob)

Dunque, lo Stato d’Israele nasce diviso: tra chi intende modellarlo come una democrazia laica e moderna, inclusiva e pluralista e chi, invece, sogna uno Stato ebraico, dove diventa labile il confine tra identità nazionale e identificazione religiosa. Per chi questo confine non lo sente affatto è il sionismo nazional-religioso. I movimenti che si rifanno a tale visione ideologica hanno iniziato presto a colonizzare i territori occupati dopo il 1967. Per la precisione, nel 1974 nascerà il Gush Emunim (lett. Il Blocco dei Fedeli, sottinteso di coloro che sono fedeli alla Terra Promessa), ispirato da un rabbino di origini russe, rav Yehuda Kook e vicino a quello che è stato uno dei primi partiti dichiaratamente religiosi (che oggi si sono moltiplicati e rafforzati nelle ultime elezioni del Parlamento israeliano), il Mafdal. I militanti di tale movimento costruiranno i primi insediamenti nella West Bank, a Gaza e nelle Alture del Golan.

Almeno metà dei duecento villaggi sino a oggi edificati è stata voluta dal Gush Emunim. Spesso tirati su illegalmente (non solo in base alle risoluzioni dell’ONU, ma anche rispetto alle leggi dei governi israeliani o delle decisioni prese dalla Corte Suprema che, per inciso, il governo Netanyau ha in animo di limitarne i poteri). La frastagliata geografia dei villaggi (kfar) edificati in tutti questi anni nei territori occupati riflette una mappa cognitivo-religiosa di ebrei osservanti e intransigenti. Si potrebbe dire una mappa escatologica oltre che pratica di espansione territoriale per una popolazione che, soprattutto negli ambienti degli ebrei ortodossi, continua a crescere a un ritmo nettamente superiore alla media nazionale di figli per donna. Nel 2019, a fronte di un tasso di fertilità mediana di 3,1 della popolazione totale, le comunità degli ebrei ortodossi hanno fatto registrare 6,5 (dieci anni, 7,5).

Il territorio occupato e colonizzato, a macchia di leopardo, nella Cisgiodania (ma anche a Gaza prima che nel 2005 Ariel Sharon imponesse lo smantellamento dei ventuno insediamenti, spostando con la forza quasi quindicimila persone), per i militanti del Gush è l’avvio di quel processo tanto agognato di ricomposizione dei confini biblici della Terra Promessa (Eretz Israel) cui farà seguito la riconversione di tutti gli ebrei all’osservanza dei 613 precetti (mizvot) della Legge di Dio. Quando tutto ciò si compirà, sarà il tempo dell’arrivo del Messia e della redenzione finale. Come si comprende, con tale aspettativa messianica non c’è compromesso che possa essere raggiunto con la controparte palestinese. I palestinesi vivono su una Terra santa, cara agli ebrei, come stranieri e non possono rivendicarne nemmeno un lembo per l’eventuale loro Stato.

Ahmed Yassin

Ahmed Yassin

Tredici anni dopo la nascita del Gust Emunim, veniva creato nei campi profughi di Gaza il movimento Hamas (lett.: movimento della resistenza islamica, Harakat al-Mukawama al-Islamiyya). Nel 1987, un infermo (paraplegico dall’età di 14 anni) e inerme maestro spirituale (uno sheykh), Ahmed Yassin lanciava con successo l’idea di un movimento che, ispirato dall’ideologia dei Fratelli Musulmani (che Yassin aveva conosciuto da vicino quando era stato all’università Al-Azhar al Cairo per iniziare i suoi studi di scienze religiose), unisse la lotta per la liberazione della Palestina al progetto di costruzione di uno Stato islamico. La Palestina era considerata, come si legge nello Statuto del movimento, terra donata da Dio al suo popolo, dunque, sacra, inviolabile e indivisibile. Nessuno poteva arrogarsi il diritto di negoziarne la cessione di una sola zolla pur di ottenere la pace con l’odiato nemico sionista. Lo Stato d’Israele, perciò, andava distrutto. Yassin faceva appello al dovere religioso dello jihad che gravava su ogni credente, incitando a formare milizie di combattenti pronti al sacrificio della propria vita. Il corpo del martire diventava così un’arma, non impropria, per colpire indiscriminatamente la popolazione civile. Non potendo competere militarmente con un esercito più potente, l’ideologia militarista di Hamas ha così adottato sin dalla sua nascita il metodo terroristico di fare la guerra.

Tale pretesa che ha guadagnato proseliti sino alla vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 (le prime uniche celebrate in terra palestinese, due anni dopo la morte di Arafat e l’eliminazione fisica di Yassin con un missile lanciato dall’esercito israeliano sulla sua auto mentre rientrava dalla moschea), ha prodotto sino a oggi due importanti conseguenze traumatiche nel fronte palestinese. In primo luogo, oltre alla divisione profonda e violenta che si è verificata al suo interno, il movimento ha sempre contestato la natura unitaria e laica dell’OLP. Nel nome stesso, questo movimento parla di islam e si configura come un movimento etno-religioso alla pari di quello che è comparso dagli inizi degli anni Settanta nel fronte israeliano. In secondo luogo, Hamas, come il Gush Emunim, ideologicamente affida al fervore (che in arabo si dice hamas, appunto, alludendo alla passione eroica per il sacrificio e il martirio) la funzione di compensare le frustrazioni e le oppressioni subite, accusando di fallimento politico prima l’OLP di Arafat e ora l’Autorità Nazionale di Mahmoud Abbas.

Hamas, così come il Gush Emunim, sono le avanguardie politico-religiose delle contraddizioni profonde vissute sia dai palestinesi sia dagli israeliani. Apparentemente entrambi hanno interpretato in modo radicale la volontà di prendere possesso della terra di Palestina, dal Giordano al mare. Nel confronto armato ci sono oggi i vincitori (gli israeliani) e i vinti (i palestinesi). I primi sono in disaccordo su come arrivare a una soluzione negoziale. Essi sono divisi fra chi crede ancora all’ipotesi di due popoli e due Stati, chi si richiama allo spirito degli accordi di Oslo del 1993, chi pensa non sia più ripetibile l’esperienza di pacificazione avviata da Rabin (ucciso per le sue scelte politiche da un estremista ebreo, appartenente a un gruppo di ultraortodossi nazionalisti, che accusò allora Rabin di essere un traditore della causa di Dio) e chi, infine, giudica ogni compromesso sulla terra (cessione di una parte della Palestina in cambio di pace duratura) un atto empio ed eretico. Ma anche i secondi – i palestinesi – sono polarizzati su posizioni sinora inconciliabili, tra chi sostiene la lotta armata a oltranza sino alla distruzione del nemico israeliano e chi, invece, ritiene che si debba trattare con quest’ultimo.

Ben Civc

Ben Gvir

Nel frattempo, è cresciuto il fronte dei partiti nazional-religiosi nel Parlamento israeliano. Il sistema proporzionale puro in vigore non consente allo storico partito di centro-destra, il Likud, di formare governi di maggioranza. Netanyau, che ha ricordato più volte, nei giorni della distruzione di Gaza, di aver contribuito a bloccare il processo di pace avviato con gli accordi di Oslo, ha così costruito una maggioranza in cui i leader di alcuni dei partiti intransigenti del sionismo religioso controllano ministeri chiave. Itama Ben Gvir del partito sionista religioso è ministro della Sicurezza nazionale e il più giovane leader del partito della Casa ebraica, Bezalel Smotrich (dal nome di una città ucraina, dove vivevano i suoi antenati, mentre lui è nato in un insediamento in Cisgiordania) è diventato ministro delle Finanze. Quest’ultimo ha sempre sostenuto che l’unica soluzione della questione palestinese è la cacciata definitiva dalla terra di Dio dagli stranieri che la contaminano.  

Mahmoud Abbas

Mahmoud Abbas

Nel campo palestinese, il quadro politico è altrettanto inquietante. Da più parti si afferma la necessità di rafforzare l’autorità nazionale palestinese. Non è un mistero per nessuno, tuttavia, che l’attuale classe dirigente, stretta attorno all’anziano Mahmood Abbas, è molto debole. Allo stesso modo, che cosa resterà dopo la distruzione delle infrastrutture belliche e l’eliminazione del gruppo dirigente di Hamas in corso a Gaza e Cisgiordania? Nessuno oggi lo sa realisticamente immaginare. La sconfitta non è detto che scoraggerà milioni di giovani palestinesi, che hanno vissuto direttamente l’esperienza della distruzione delle loro case nella striscia di Gaza, a ricandidarsi appena possibile quali future reclute di nuove brigate di combattenti pronti a tutto, che si chiami Hamas o con un altro modo. I palestinesi, anche questa volta sperimenteranno amaramente come ormai la loro “questione” non mobiliti più né le masse arabe né soprattutto gli Stati arabi. Le reazioni verbali più ferme e quelle militari – limitate – vengono sinora da due Stati non arabi, la Turchia e l’Iran. Come la crisi siriana ha già mostrato, l’Iran, che ispira le azioni degli Hezbollah libanesi e degli Houthi yemeniti, può contare sulla solidarietà della Russia.

Il pessimismo della ragione prevale, dunque, sull’ottimismo della volontà. Le ragioni che spingono a considerare improbabile la formazione di uno Stato palestinese sono, infatti, a questo punto della storia di una nuova lunga guerra di quasi cento anni, molte e troppo gravi per sperare che il sonno della ragione finisca presto. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024

 _____________________________________________________________

Enzo Pace, è stato professore ordinario di sociologia e sociologia delle religioni all’Università di Padova. Directeur d’études invité all’EHESS (Parigi), è stato Presidente dell’International Society for the Sociology of Religion (ISSR). Ha istituito e diretto il Master sugli studi sull’islam europeo e ha tenuto il corso Islam and Human Rights all’European Master’s Programme in Human Rights and Democratisation.  Ha tenuto corsi nell’ambito del programma Erasmus Teaching Staff Mobility presso le Università di Eskishehir (Turchia) (2010 e 2012), Porto (2009), Complutense di Madrid (2008), Jagiellonia di Cracovia (2007). Collabora con le riviste Archives de Sciences Sociales des Religions, Social Compass, Socijalna Ekologija, Horizontes Antropologicos, Religiologiques e Religioni & Società. Co-editor della Annual review of the Socioklogy of Religion, edito dalla Brill, Leiden-Boston, è autore di numerosi studi. Tra le recenti pubblicazioni si segnalano: Cristianesimo extra-large (EDB, 2018) e Introduzione alla sociologia delle religioni (Carocci, 2021, nuova edizione).

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Attualità, Religioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>