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Dieci anni di idee, incontri e Dialoghi

img-20230219-wa0007-1di Giovanni Gugg 

Sfogliando l’almanacco del 2013 ci si accorge che i primi mesi di quell’anno furono densi di eventi con risonanza a varie scale – individuale e collettiva, nazionale e internazionale – e che a un decennio di distanza il loro peso storico non è diminuito, anzi si è rivelato con ulteriore chiarezza. Il caso più eclatante riguardò le gerarchie vaticane: l’11 febbraio Papa Benedetto XVI annunciò le sue dimissioni dal ruolo di pontefice e dopo un mese, il 13 marzo, il Conclave elesse il suo successore, Papa Francesco. Era dal 1415 che un papa non rinunciava all’incarico a vita, per cui quella decisione ebbe un enorme clamore nella Chiesa e nel mondo cattolico, ma non solo.

Nel mese di marzo morì Hugo Chávez, che per quattordici anni aveva governato il Venezuela con un’azione e un’ideologia politica di stampo rivoluzionario bolivariano, quindi perseguendo il socialismo democratico, l’antiimperialismo e il nazionalismo di sinistra. Dopo un mese, morì Margaret Thatcher, ex Primo Ministro del Regno Unito che invece negli anni ’80 aveva rappresentato una visione radicalmente diversa, ossia di conservatorismo neoliberista, per cui le sue politiche condussero il suo Paese a una decisa deregolazione del settore finanziario e del mercato del lavoro, nonché alla privatizzazione di tante aziende statali e alla riduzione dell’influenza dei sindacati. In Italia, invece, quell’anno fu caratterizzato prima dalle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio, con la “non vittoria” del centro-sinistra e la conseguente difficoltà a formare un governo, poi dalla rielezione di Giorgio Napolitano a Presidente della Repubblica il 22 aprile, in quella che fu la prima volta nella storia repubblicana che il Capo di Stato uscente assunse l’incarico per un secondo mandato.

In quegli stessi mesi tra fine inverno e inizio primavera, un gruppo di intellettuali e animatori culturali diedero vita a “Dialoghi Mediterranei”, una rivista online nata come espressione dell’Istituto Euro Arabo di Mazara del Vallo. Nel primo rigo del primo editoriale del n. 1 dell’aprile 2013, gli autori tennero a spiegare immediatamente che la prima ragione per cui la rivista si trovava in rete era per i costi di stampa divenuti ormai proibitivi, ma il secondo motivo era la volontà di «ampliare la propria diffusione, restando indipendenti».

Le riviste di cultura sono nate spesso nell’ambito di un filone di pensiero o per promuovere un’ideologia politica, per consolidare una scuola accademica o per alimentare discussioni specialistiche all’interno di un dipartimento universitario. Negli ultimi decenni, tuttavia, quegli spazi si sono progressivamente ristretti, con la fine dei partiti come luoghi di elaborazione intellettuale e organizzazione della cultura, o con i sempre più frequenti e radicali tagli e blocchi all’università, per cui le riviste di settore hanno fatto sempre più fatica a essere realizzate, dunque a farsi leggere e, in buona sostanza, a sopravvivere. Chi lavora all’università (o ci aspira), infatti, è spinto a tenere la testa concentrata nel proprio recinto disciplinare, senza poter prestare attenzione ad altre dimensioni. Se tuttavia la crisi dell’intellettuale accademico è attestata da tempo, è altrettanto vero che è emersa una nuova figura di intellettuale pubblico, con le sue testate di riferimento, siti-web ma anche autori, argomenti, stili grafici ed eventi organizzati per finanziarsi.

freemans_robinson_page-0001Nonostante la crisi o la decadenza, dunque, negli ultimi dieci anni vi è stato un ribollire delle riviste, soprattutto in rete, che in qualche caso ha condotto addirittura ad un ritorno al cartaceo. Vi sono molti esempi in italiano, a cui Francesco Guglieri dedicò un articolo sul settimanale “Robinson” nel febbraio 2018, ma una tendenza simile è riscontrabile anche all’estero, come ad esempio nel caso della celebre rivista antropologica francese “Terrain”, di cui nel settembre 2015 Gérard Lenclud comunicò la fine delle pubblicazioni, sostenendo che una buona morte è meglio di una cattiva immortalità, anche dopo una rinomata esistenza editoriale lunga 32 anni. L’anno seguente, però, nel dicembre 2016 Vanessa Manceron ed Emmanuel de Vienne ne annunciarono la rinascita, per cui la rivista «non era morta, ma in via di metamorfosi» (Manceron, de Vienne 2016: 3). Il cuore di quel cambiamento, nonché della sfida che la nuova redazione aveva lanciato, era di assumere un nuovo aspetto, cercando di disaccoppiare il web e la carta, pur mantenendo l’originalità che ne aveva decretato il successo, cioè l’ancoraggio all’empirico, la preoccupazione di spostare lo sguardo, di contrastare le aspettative, il rifiuto del gergo. Tuttavia, come continuava quel primo nuovo editoriale di “Terrain”, «non rinasciamo mai identici a noi stessi» (Manceron, de Vienne 2016: 3), infatti la rivista cominciò a sviluppare un canale digitale in cui sperimentare nuovi formati e nuovi linguaggi, a scandagliare le virtù della fiction antropologica e a raccontare in forma condensata e accessibile lo stato delle conoscenze antropologiche su una data questione.

81vdjl2ksl-_ac_ul600_sr600600_È in questo contesto multiforme, dinamico e metamorfico che si inscrive anche “Dialoghi Mediterranei”, una rivista bimestrale completamente online basata su un approccio di scienze umane e sociali, che predilige la dimensione etnografica, ma soprattutto che rivendica la cifra artigianale della sua impresa editoriale e la sua collocazione periferica, sia in senso geografico che accademico. Essere artigiani e periferici è lo stato dell’in-between o, per dirla con il termine in lingua nahuatl usato da Gloria Anzaldúa (1987), lo stato “nepantla”, cioè quella condizione sconcertante e disorientante dell’attraversamento dei confini tra culture, tra status e generi, tra periodi temporali. La Sicilia, la provincia di Trapani, la città di Mazara del Vallo sono periferia, ma una periferia che rivendica se stessa: in quanto terra di confine, sa di essere un luogo di contraddizioni, uno spazio in cui non è confortevole vivere, ma sa anche che è un “terzo spazio”, ossia un luogo politico per eccellenza. Sempre nel primo editoriale del primo numero di “Dialoghi Mediterranei”, nell’aprile 2013, si legge che la rivista «si propone di essere un osservatorio sia sulla realtà locale in cui si trova a operare, sia su un contesto più ampio, che è quello euro-mediterraneo». Attraverso l’interazione, il confronto e il dialogo tra culture, tra punti di vista e modi di pensare diversi, quella periferia ha invece la consapevolezza di essere centrale, perché storicamente crogiuolo di civiltà e di scambi commerciali, ma anche di guerre e di pluralità.

La cronaca turbolenta di quei primi mesi del 2013 determinò buona parte dei contenuti del numero di debutto della nuova rivista: un volume di 46 pagine in cui furono pubblicati articoli sulla rinuncia di Papa Benedetto XVI al soglio pontificio e sullo stallo della politica italiana e i silenzi dell’allora Presidente Giorgio Napolitano, passando per temi che sarebbero tornati più e più volte nei dieci anni successivi, come i flussi migratori nel Mediterraneo, il conflitto israelo-palestinese, le tensioni socio-politiche nel Maghreb, il valore storico-antropologico della fotografia… A ben guardare, in quelle prime pagine “Dialoghi Mediterranei” mostrò subito la sua vocazione a partecipare al dibattito pubblico e, più in particolare, a inserirvi lo sguardo antropologico, cioè di postura critica e di osservazione trasversale.

Da allora sono usciti 60 numeri, sei all’anno, tutti puntuali il primo giorno di ogni bimestre, con una quantità di autori e collaboratori in costante crescita e con una sempre maggiore varietà disciplinare, senza contare il numero delle pagine di ogni volume, ormai stabilmente sopra le 400, ma spesso sulle 500 e, talvolta, ben oltre le 600. In altre parole, ogni due mesi la quantità e la qualità di riflessioni e osservazioni, di idee e proposte presentate e discusse su “Dialoghi Mediterranei” superano quelle di gran parte delle più note e celebrate riviste di pensiero o di settore attualmente in circolazione; non credo che in Italia oggi esista un’esperienza simile.

borofskySovente si discute dell’uso pubblico delle scienze umane e sociali, in particolare dell’antropologia culturale, e, osserva Robert Borofsky, fondatore del Center for a Public Anthropology (Borofsky 2010), questo riguarderebbe la comunicazione tra gli antropologi e la società, in modo che la disciplina possa partecipare attivamente ai dibattiti che si svolgono all’interno del corpo sociale. Evidentemente, questa comunicazione dovrebbe avvenire fuori dalla “confort zone accademica”, per cui, aggiunge Dario Basile, «se l’antropologia vuole intervenire in maniera efficace e puntuale sui grandi temi della nostra epoca, occorre riflettere sulla questione della comunicazione del sapere antropologico al di fuori dell’ambito scientifico-accademico» (Basile 2020: 130). È una questione sfaccettata e che si trascina da molto tempo, riguarda la capacità degli antropologi di occupare gli eventuali spazi offerti dai mezzi di comunicazione, ma anche una loro diffidenza nei confronti dei media come strumenti di potere, per la preoccupazione che una collaborazione con i grandi gruppi editoriali possa essere soggetta a influenze politiche o commerciali. Talvolta c’è il timore di essere travisati o di vedere il proprio messaggio eccessivamente semplificato dal linguaggio giornalistico, per cui Brian McKenna suggerisce che gli antropologi diventino loro stessi produttori di notizie, scrivendo di proprio pugno degli articoli per i giornali (McKenna 2010).

Il caso di “Dialoghi Mediterranei” dimostra che si può essere presenti sulla scena pubblica scrivendo articoli per una pubblicazione formalmente non accademica, ma che rispetta alti standard editoriali e un gran rigore scientifico. Qui, generazioni diverse di antropologi e antropologhe si incontrano e si confrontano sugli argomenti dell’attualità come sui fondamenti o i destini della disciplina. Evidentemente, l’online non è più un ghetto, ma un luogo di sperimentazione di linguaggi e scritture, come nel caso dell’uso del “personal essay”, un articolo tra riflessione e racconto che parte da un’esperienza personale, o del “longform”, un pezzo molto lungo e approfondito che può vivere solo sulla Rete. In dieci anni di “Dialoghi Mediterranei” la libertà del mezzo, rispetto a certi spazi canonici e istituzionali della politica culturale, ha permesso che la rivista si trasformasse in un laboratorio dove scrive e si forma una nuova leva di autori e di autrici, che non di rado hanno poi raccolto i loro contributi in volumi di altri editori, come nel caso della recente collana “Dialoghi” per le Edizioni del Museo Pasqualino di Palermo.

hom_0439-4216_1997_num_37_142Nel tomo 37 de “L’Homme”, del 1997, Claude Lévi-Strauss, fondatore nel 1961 della illustre rivista dell’antropologia francese insieme al linguista Émile Benveniste e al geografo Pierre Gourou, scrisse un articolo dedicato a Jean Pouillon, il direttore dei primi 35 anni del giornale, e lo intitolò in modo giocoso, ma solenne: «L’homme de L’Homme». Se la rivista era diventata un punto di riferimento intellettuale planetario lo si doveva certamente ad uno straordinario collettivo, ma soprattutto a quell’uomo, Pouillon, il quale fu vicino a Jean-Paul Sartre, eppure accolse diverse intuizioni di Lévi-Strauss, per cui, proprio rivendicando uno «strabismo intellettuale divergente (Sartre da una parte, Lévi-Strauss dall’altra)» (Jamin 1997: 79), Pouillon seppe far emergere la complessità e la pluralità dei fenomeni e per se stesso scelse il titolo di “segretario generale”, piuttosto che di “redattore capo”, manifestando anche un senso dell’humor che sarebbe diventato leggendario. Similmente, “l’uomo dei Dialoghi”, Antonino Cusumano, è la coscienza vigile del folto gruppo di autori e autrici che ogni due mesi, da dieci anni, analizzano e interpretano fatti, concetti, storie; al di là della cronaca, la profondità delle riflessioni – stimolate, discusse, coordinate dall’uomo dei Dialoghi – ha permesso che venisse tessuta una formidabile rete di relazioni, di menti, di sensibilità che rappresentano il principale risultato di questa piccola grande impresa.

Ampiamente plasmato dalla declinazione antropologica dello sguardo di chi vi scrive, “Dialoghi Mediterranei” offre una prospettiva inclusiva che accoglie e, appunto, mette in dialogo. La sua ambizione di applicare l’antropologia e le scienze umane e sociali nella decodifica della realtà è diffusa e datata, ma non molte sono le esperienze editoriali in cui si è tentata tale sfida, capace di stimolare e suscitare un pensiero critico e consapevole. Ogni due mesi, invece, da una città posta su una faglia simbolica e concreta come Mazara del Vallo, situata cioè tra mondi diversi ma che possono colloquiare e tra idee che devono confrontarsi, il direttore mette insieme voci che puntano a una contaminazione di visioni, di lingue, di culture, di memorie. E tutto questo è gratuito e accessibile direttamente su propri dispositivi tecnologici: cliccando un link o scaricando l’intero pdf, quella mescolanza di sguardi può virtualmente raggiungere chiunque e ovunque, sempre.

Le potenzialità della Rete sono note, ma il valore di un archivio di migliaia di articoli non va tralasciato o sottovalutato: la circolazione delle idee non avviene solo qui e ora, nel momento dell’uscita del volume, ma continua nel tempo, si dipana per itinerari impensati e in momenti imprevedibili. Quegli scritti vivono anche al di là della rivista, viaggiano dalle bacheche dei social alle citazioni nei saggi accademici che servono alle agognate graduatorie universitarie. “Dialoghi Mediterranei” permette un recupero delle parole e della parola, con l’ambizione di risolvere equivoci concettuali e distorsioni ideologiche; questa aspirazione è condivisa da una comunità di autori e autrici sempre più numerosa che intende continuare a partecipare a quel “pensare in comune” da cui muove il senso del dialogo, dell’impegno intellettuale e del confronto critico delle idee che può condurre a risultati inaspettati.

Nelson Mandela e Le Kerc

Nelson Mandela e Frederik de Klerk

Alla fine di quel 2013, il 5 dicembre, morì un altro simbolo politico di grande rilevanza planetaria: a 95 anni si spense Nelson Mandela, ex Presidente del Sudafrica, ma che per tutta la vita era stato innanzitutto un attivista contro la segregazione razziale, e per questo incarcerato per 27 anni, contribuendo in maniera decisiva alla fine dell’apartheid, tant’è vero che nel 1993 fu insignito del premio Nobel per la pace insieme a Frederik de Klerk. Come scrisse Piero Di Giorgi sul n. 5 di “Dialoghi Mediterranei”, uscito il 1° gennaio 2014, Mandela fu «forse l’uomo più esemplare, che ha incarnato la volontà e l’impegno di trasformare il mondo con coerenza e amore». La parola “amore”, nel suo significato più autentico, serviva a far comprendere l’eccezionale capacità di “Madiba” di perdonare i suoi carnefici e di condurre il suo Paese attraverso una transizione pacifica, ma a noi, qui, torna utile come figura esemplare con cui evocare quanto l’impegno a mantenere in piedi il dialogo – un dialogo tra alterità anche attraverso una rivista bimestrale online – sia una sorta di vocazione a cui non ci si può sottrare.

“Dialoghi Mediterranei” ha dieci anni e non è un caso che sia emersa e si sia fatta notare in un’epoca in cui la grande ideologia dello sviluppo va dimostrandosi sempre più fragile e insostenibile, ovvero in un frangente in cui l’antropologia può proporsi al mondo come un sapere collettivo capace di elaborare delle alternative allo status quo. 

Dialoghi Mediterranei, n.60, marzo 2023 
Riferimenti bibliografici
Anzaldúa Gloria, 1987: “Borderlands / La Frontera: The New Mestiza”, Spinster Aunt Lute Press, San Francisco (USA).
Basile Dario, 2020: “Buona da raccontare. Considerazioni su antropologia e giornalismo”, in “L’Uomo”, vol. X, n. 2.
Borofsky Robert, 2010: “Why a Public Anthropology?”, Hawaii Pacific University, Kailua.
Di Giorgi Piero, 2014: “La morte di Nelson Mandela, Renzi e la piazza”, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 5, gennaio: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-morte-di-nelson-mandela-renzi-e-la-piazza/ (15 febbraio 2023).
Guglieri Francesco, 2018: “Di carta o su Facebook? Chi si rivede: la rivista”, “Robinson – la Repubblica”, 11 febbraio, n. 63.
Jamin Jean, 1997: “L’air sec un peu”, in “L’Homme”, tomo 37, n. 143.
Lenclud Gérard, 2015: “À quoi Terrain a échappé”, in “Terrain”, n. 65, settembre : https://journals.openedition.org/terrain/15886 (15 febbraio 2023).
Lévi-Strauss Claude, 1997: “L’homme de L’Homme”, in “L’Homme”, tomo 37, n. 143.
Manceron Vanessa – de Vienne Emmanuel, 2016: “Pourquoi, mais pourquoi relancer Terrain ?”, in “Terrain”, n. 66, dicembre: https://journals.openedition.org/terrain/15924 (15 febbraio 2023).
McKenna Brian, 2010: “Anthropology must embrace journalism. Public pedagogy is discipline’s challenge”, in “Tsantsa – Journal of the Swiss Anthropological Association”, vol. 15.

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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale, assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) ed è docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario.

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