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Dalle encicliche contro la ricchezza in poche mani agli improvvisi fuochi nei Paesi petroliferi

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Dal libro II valzer di un giorno di Franco Carlisi, particolare

di Nino Giaramidaro

Di una magrezza esemplare, consustanziata da Alberto Sorrentino nei film di fame degli ultimi ’40 e dei primi ’50, antecedenti il miracolo economico e la progressiva dilatazione simboleggiata dall’omino Michelin, poi raggiunta e superata. Una asciuttezza specifica siciliana, senza essere di tutte brame carca come la lupa della Commedia, alimentata di pane e coltello, scarola raminga e piatto di pasta festivo, scarso d’olio.

Una “dieta” rimasta impigliata negli intimi misteri di coloro che c’erano in quei ’40-’50, naturalmente dalla parte malestante, e che ancora oggi provano gusto nel pane solo e nella pasta quasi squarata.

Sono suggerimenti provenienti dalle foto di Franco Carlisi nel suo bellissimo libro sui matrimoni in Sicilia Il valzer di un giorno, aggiornato e riedito l’anno scorso. Quel Tiberio Murgia di Grotte, essiccato dal sole della Sicilia nascosta, diffonde i sapori della calia e simenza, dei tetù, del vino d’oro dell’uva schiacciata con i piedi, dei soavi rosoli avvedutamente fabbricati da quella cosa piccola e nera che era la nonna. A guardarlo negli occhi (pagine 74-75) si sente montare il ritmo della mazurka con il colpo di tacco che significa fine e inizio delle “figure” musicali. Un valzer senza blasone, delle antiche campagne polacche, spesso suonato dal trio barbiere, ciabattino con aggiunto un falegname o un altro mastro di artigianato superiore. E alla richiesta del bastoniere di cambiare musica, non era rara l’incomparabile risposta: «Mai, Maria, allungalla putemu, canciarla mai».

Spose bellissime e felici, in quel valzer travolgente e fuggitivo, spesso atteso anni e anni, sino a quando il fidanzato non tornava con il gruzzolo per la mobilia da Milano, Charleroi (Marcinelle 1956, 136 morti italiani), La Chaux de Fonds, Dusseldorf e dalle altre lontananze dell’emigrazione siciliana.

Partiti quasi imberbi, tornavano con qualche zolla di capelli in meno. A volte non ritornavano e altre volte rimanevano nel fondo di miniere, sullo sterrato di cantieri con impalcature malsicure. Tutti siciliani che compongono più di una Sicilia in trasferta.

Anni ’50. Il Belgio offriva anche “alloggi adeguati” pure per la famiglia dell’emigrante, cioè le baracche dei lager nazisti e poi russi, infradiciati dalla conquistata inutilità. E nei paesi che l’emigrazione andava svuotando, c’erano affissi i “Manifesti rosa” che promettevano «ottimo salario sicuro, ferie pagate, assegni familiari e pensione molto prima del previsto» a chi mostrava i 32 denti alla visita medica e non aveva scavalcato i 35 anni.

Minatori-di-Marcinelle.

Minatori di Marcinelle

Non erano i “caporali delle miniere”, avi di quelli del pomodoro, a promettere quest’eldorado, ma le clausole di un accordo Liegi-Roma che impegnava l’Italia a fornire 50 mila minatori – 2.000 a settimana – in cambio della donazione di 200 chili di carbone al giorno.

Da ragazzino, nelle scorribande sino ai margini della città, sentivo cantare la canzone “Tornerai”, e non capivo perché fosse così benvoluta: «Tu sai che t’amo, non ho che te, mi stai lontano, dimmi perché, la nostalgia non senti in cuor, non ti ricordi di me. Tornerai da me…» La cantavano mogli e fidanzate sole che vibravano d’attesa, e Tonina Torrielli sui dischi Cetra. Così come negli ultimi anni Trenta e nei primi Quaranta Myriam Ferretti con un testo che parlava di guerra e soldati.

La tradussero in Francia, “J’attendrai”, e Rina Ketty, cioè Cesa-rina Pic-chetto da Sarzana, detta “La Madone de la chanson”, ne fece un grande successo, cantato da tutte le star del microfono parigino durante l’occupazione nazista e dai soldati che partivano per il fronte. Diventò la canzone contro la guerra e si diffuse in mezza Europa «Io aspetterò, il giorno e la notte, aspetterò sempre il tuo ritorno, aspetterò». Anche nel Reich cantavano Komm Zuruck.

Rina-Ketty-e-Tino-Rossi-primi-interpreti-di-Jattendrai-in-una-locandina-anni-30

Rina Ketty e Tino Rossi, primi interpreti di Jattendrai, in una locandina anni 30

Il dramma dell’emigrazione e le povertà estreme residenti dovunque in Italia erano conseguenza dell’«essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà… Si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo» (Rerum Novarum, Leone XIII, 1891). Nasceva la dottrina sociale della Chiesa un anno prima della fondazione del partito socialista. E nel 1931 Pio XI, nella sua, Quadragesimo Anno, condanna «l’imperialismo internazionale del denaro, la concentrazione della ricchezza, l’accumulo di una potenza enorme, di un potere dispotico in mano a pochi, cosicché l’economia era diventata orribilmente dura, inesorabile, crudele».

Trascorso più di un secolo, scopriamo ricchezze a due sole mani che fanno tralignare il futuro di nazioni intere. George Soros non ha avuto difficoltà ad ammettere che con le sue manovre immateriali, cioè interventi virtuali tipo questo vince-questo perde, nel 1992 ha gettato sul lastrico l’Italia – e l’Inghilterra – guadagnandoci un sacco di miliardi. In quel settembre nero, vendendo lire allo “scoperto”, Soros contribuì a causare alla Banca d’Italia una perdita valutaria di 48 miliardi di dollari. Per questa speculazione la lira perdette il 30 per cento del suo valore e si trovò fuori dallo Sme, il sistema monetario europeo. Per rientrarvi, il governo fu obbligato a una delle più pesanti manovre finanziarie della sua storia – circa 93 mila miliardi di lire – con la comparsa, per la prima volta, dell’imposta sulla casa: l’Ici oggi Imu. Moralmente ineccepibili quelle sue manovre, sostiene questo squalo speculatore ora filantropo dalle cui vesti fuoriesce un lungo pelame.

Ve ne sono altri, con nomi noti o no. Tutti in una gara senza scrupoli a chi riesce ad acchiappare di più. Con qualsiasi mezzo. Una serie di sicari dall’infallibile mirino sono le agenzie di rating. Possedute da loro, da compagnie la cui proprietà è più conturbata dei baci che Catullo chiedeva a Lesbia. Appena la politica economica di un Paese tenta una sortita che toglie un solo dollaro alle loro sfondate bisacce, si scatena il rating col segno meno, l’esplosione dello spread, che si potrebbe chiamare differenziale (fra due entità economiche) invece no perché non è una parola professionale, ha il vizio di essere italiana in Italia e, soprattutto, meno arcana.

Queste compagnie di sventura, disarmate e armate, utilizzano alluvioni di danaro per sobillare contro regimi poco redditizi o che potrebbero minare la loro geometria politico-finanziaria.

Pacifisti-manifestano-a-Caracas.

Pacifisti manifestano a Caracas

Entro nel vivo dei discorsi da barbiere per dire che moltissime orde di mercenari e milizie agiscono senza sapere chi tira i fili, ma con lauti ricavi. Col rasoio sopra il pomo di Adamo, ascolto di angosciati interrogativi sul Venezuela, l’America “Zuela” di nonni e bisnonni che sbagliavano piroscafo e sbarcavano a Caracas anziché nella quarantena di Ellis Island.

Questa bistrattata nazione, che non ha vinto nemmeno un mondiale di calcio ma ha un cambio non ufficiale di 250 mila bolivars per un dollaro, probabilmente avrebbe bisogno di una reincarnazione de “El hombre de America”, cioè Simon Bolivar con tante statue e piazze, che di sé disse: «Se non fossi rimasto vedovo, forse la mia vita sarebbe stata un’altra; non sarei il generale Bolivar, né il Libertador».

Di lui è anche rimasto il bolivarismo, il miraggio dell’unione politica dei Paesi latino-americani, la Grande Colombia, confederazione esistita  dal 1819 al 1831 e dalla cui frammentazione nacquero Colombia, Venezuela, Ecuador e Panama. Ora è contenuto nel socialismo della “rivoluzione bolivariana” dell’ex presidente Hugo Chávez.

Basterebbe questo per attirare sul Venezuela gli uragani dell’old deal di Trump e dei suoi ruffiani. Ma bisogna sapere anche che nel sottosuolo di quel Paese giace la più grande riserva di greggio del mondo, e che i Paesi esportatori di petrolio e gas antipatici sono sotto scopa.

Quasi contemporaneamente si rinfocolano le ostilità in Libia, Sudan, Nigeria. E in Algeria, contro il quinto mandato del presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto a dimettersi mentre, in Israele, la quinta elezione di Benjamin Netanyahu desta escandescenze di entusiasmo.

Manifestazione-delle-scorse-settimane-ad-Algeri.

Manifestazione delle scorse settimane ad Algeri

Viviamo in un mondo senza più fiabe, nel quale gli organismi che dovrebbero proteggere popolazioni e Paesi falliscono in modo incommensurabile, diventano poliziotti del denaro. Ad un Paese in difficoltà impongono forche caudine che lo precipitano negli abissi dei debiti e degli interessi sui debiti. E intervengono mimetizzati sotto una serie di acronimi imperscrutabili con l’inderogabilità di un esattore. L’economista Joseph Stiglitz sintetizza così: «La guerra moderna, fortemente tecnologica, mira ad eliminare il contatto umano: sganciare bombe da un’altezza di 15 mila metri permette di non sentire quello che si fa. La gestione economica moderna è simile: dalla lussuosa suite di un albergo si possono imporre con assoluta imperturbabilità politiche che distruggeranno la vita di molte persone, ma la cosa lascia tutti piuttosto indifferenti, perché nessuno le conosce».

Il Fmi per l’Italia “suggerisce” che «i patrimoni potrebbero essere tassati attraverso una tassa moderna sulle residenze primarie». Cioè le case dove si abita. E si interessa anche delle pensioni e della sostenibilità a lungo termine del sistema. Una iniziativa speculare a quella di Jeff Bezos che assegna alla moglie divorziata 36 milioni di dollari – per risparmiare: questa massa di dollari costituisce il 25 per cento di quanto la ex moglie avrebbe potuto pretendere.         Nel suo saggio Freefall del 2010, Stiglitz ha riassunto le sue teorie sul Fondo monetario nell’icastica equazione Fmi = multinazionali.

Bambini-profughi-in-Sud-Sudan.

Bambini profughi in Sud Sudan

Siamo finiti nel panorama dell’occhio del male, che ci carica di paure, pervasi del pessimismo di Theodor Wiesengrund Adorno: «Quel che temiamo più di ogni cosa, ha una proterva tendenza a succedere realmente».

Niente e nessuno ha avuto successo contro i “pescecani” di Bandiera Rossa. Ci hanno provato repubblicani, liberali, in qualche modo il fascismo, la Chiesa, i partiti entrati nella damnatio memoriae – socialisti, comunisti e democristiani: tutti sconfitti dal nemico che era la ricchezza. Ora, ci dicono, dobbiamo combattere con tutto il nostro odio la povertà terribile che viaggia sui barconi nel Mediterraneo.

Madri senza più latte, bambini con le labbra arse dall’inedia, uomini allucinati dalle sabbie e dalle angherie; e i nostri quarantenni precipitati nell’indigenza, i giovani che non sorridono più al futuro, con studi e sacrifici inutili. Fanno paura. «Tanta gente di buona volontà – sostiene papa Francesco – è presa dalla paura». La paura, un venticello come quello della calunnia che si introduce destramente nelle teste e stordisce i cervelli. «La paura – afferma ancora Francesco – è l’inizio delle dittature».

Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.
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