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Da Parmenide alla mafia siciliana (e ritorno?)

copertinadi Augusto Cavadi

Sarà capitato anche a voi, nel corso di un viaggio all’estero, di entrare in un ristorante e di chiedere un piatto che vi era parso particolarmente invitante; di assaggiarlo e restarne delusi senza capire bene il perché. Preferireste scambiarlo con qualcosa di meno invitante, ma congeniale ai vostri gusti abituali. Una sensazione simile ho avvertito accostandomi al poderoso volume di Ines Testoni, La frattura originaria. La psicologia della mafia tra nichilismo e omnicrazia (Liguori, Napoli 2008).

Fascino e riserve

Le ragioni del fascino: finalmente un libro che prova a leggere un dato storico-sociale (il sistema mafioso) alla luce di una visione-del-mondo complessiva e comprensiva (l’ontologia di Emanuele Severino). La letteratura sulla mafia è ormai sterminata e contiene, tra tanti titoli pleonastici, dei testi davvero irrinunciabili dal punto di vista della storia, della sociologia, della psicologia, dell’economia, della politologia, della pedagogia e persino della teologia. La prospettiva decisamente meno frequentata resta proprio la filosofica. È comprensibile, dunque, che avendo io stesso tentato in altri tempi qualche rapida sortita in questo territorio desertico mi sia fiondato sulle pagine della Testoni con notevoli aspettative.

Che cosa, dunque, ha attenuato il mio entusiasmo iniziale? Innanzitutto il registro linguistico. Mi riferisco alla struttura sintattica del periodare, ma anche alle scelte semantiche per esprimere i concetti elementari: termini quali ‘escludere’, ‘rimuovere’, ‘cancellare’ … sono considerati, evidentemente, inadeguati dall’autrice dal momento che li ha sostituiti (in più passaggi) con il neologismo lacaniano ‘forcludere’. Stessa sorte a “indecifrabile” (o “non indicabile”) che è diventato l’esotico “indessicabile”. E la corsa della tecnica per la costruzione del mondo è stata qualificata con un prezioso “tachistoscopica”, quasi non fossero sufficienti “velocissima” o “travolgente”…

Tra l’altro questa barriera comunicativa mi rende difficile confrontarmi con l’autentico pensiero dell’autrice, mettendomi in una condizione due volte sgradevole: di non saper valutare le sue pagine con la lucidità e la correttezza di cui il lettore è debitore verso ogni autore e, conseguentemente, di non saper raccogliere i contributi positivi e istruttivi da lei certamente offerti.

Con tutte le riserve e le cautele del caso, provo dunque a ridire che cosa ho colto su filosofia e mafia dalle pagine della Testori (indubbiamente favorito dall’aver letto, in varie circostanze della mia esistenza, qualche libro di Emanuele Severino).

Parmenide

Parmenide

Il plesso Errore ontologico maschilismo patriarcale – vizio originale della democrazia

Secondo il pensatore italiano la filosofia occidentale è nata “grande”: con Parmenide, infatti, ha intuito la Verità originaria e incontrovertibile secondo cui l’Essere è (e non può non essere) e il Non-essere non è (e non può essere). Questa Verità basilare ci è consegnata dalla ragione, ma viene smentita momento per momento dai sensi. Osservando noi stessi e il mondo in cui siamo immersi, infatti, non abbiamo la percezione di far parte di una “ben rotonda sfera”, compatta, immobile: al contrario ci percepiamo affetti dall’alterità (“io non sono tu”, “noi non siamo gli stranieri”…) e, soprattutto, dal divenire (“io non sono più un bambino, ma non sono neppure ancora un vecchio”; “i nemici non sono più alle porte della città perché non sono più vivi”…). Di fronte al bivio, l’Occidente ha scelto: ha rinunziato alla Verità (l’ente non viene dal nulla né va verso il nulla) e ha abbracciato l’Errore (gli enti sono molti e, soprattutto, in continuo radicale mutamento: pro-vengono dal nulla e vanno verso il nulla).

Nell’orizzonte dell’Errore, quasi come in una concatenazione maledettamente logica, tutto è possibile: la guerra, l’odio, la violenza, la sopraffazione, lo sfruttamento capitalistico, l’enfatizzazione della tecnica…la mafia. Già: la mafia. Che non va considerata dunque come un fenomeno residuale del passato, bensì come la punta avanzata della corsa suicida, perché illusoria, dell’Occidente.

Se il discorso della Testoni si fosse limitato a questo nesso, fra metafisica dell’opinione (fallace) e organizzazione criminale mafiosa, sarebbe stato già molto impegnativo da esaminare. Esso si fonda, infatti, su una concezione generale dell’Essere molto antica, molto suggestiva e molto diffusa sul pianeta, secondo la quale ciò-che-veramente-è non coincide con ciò-che-appare-fenomenicamente: l’Essere è ben più ampio del Mondo visibile, come l’Oceano è ben più ampio delle onde registrabili in superficie. In questa prospettiva, si potrebbe ripetere con Spinoza, non ha senso né ridere né piangere: né rallegrarsi alla nascita di qualcuno né piangere la morte di qualche altro dal momento che in realtà, in re, nessuno nasce veramente e nessuno muore veramente. La Sostanza è una, ingenerata, incorruttibile: ciò che chiamiamo enti, eventi, persone, animali, piante, minerali, istituzioni sono leggere increspature della superficie marina che né accrescono né diminuiscono l’Oceano. Il mafioso che intimidisce, corrompe, minaccia, uccide è tutto dentro la Grande “fede” (nichilistica) nella molteplicità e nel mutamento.

Ma, come se la questione non fosse da sola abbastanza pesante, l’autrice del libro la intreccia con altre questioni, provando – sempre alla luce della weltanschauung severiniana che, a suo avviso, fonderebbe in maniera rigorosa la teoria della nonviolenza – a dipanare almeno altre due problematiche: la condizione della donna e i limiti strutturali della democrazia. Il gioco si fa allora davvero complesso perché già il nesso principio di (non)contraddizione e condizione femminile, da una parte, e il nesso principio di (non)contraddizione e democrazia, dall’altra, meriterebbero ciascuno una trattazione a parte.

A tutto ciò si aggiunga una caratteristica della trattazione che, in generale, apprezzo moltissimo ma che, nel caso concreto, mi pare aggrovigli una matassa sin troppo aggrovigliata di suo: la trans-disciplinarità. Testoni, infatti, non si chiude in un’angolazione accademicamente specialistica ma ha l’ampiezza di sguardo, supportata da letture adeguate, necessaria a esaminare le sue tre questioni (mafia, donna, democrazia) facendo tesoro di ricerche realizzate nei campi più svariati: dalla filosofia alle scienze sociali, dalla letteratura alla psicologia, dalla storia al diritto. A mio sommesso avviso, però, è come se avesse voluto travasare in un solo volume l’insieme delle sue conoscenze, senza tenere abbastanza in conto le esigenze del lettore ‘medio’ (come me) che rischia di rimanere sommerso da eccesso di informazioni e riferimenti. Ogni insegnante – più in generale ogni comunicatore – sa, invece, che l’incisività della sua esposizione dipende da ciò che sa omettere piuttosto che da ciò che sa esporre.

Provo comunque a ipotizzare un filo rosso del volume che Severino, nella Prefazione, definisce “vertiginoso e poderoso”. Abbiamo già osservato una prima frattura originaria: l’essere umano si concepisce (erroneamente) come un ente – un essente – separato dall’Essere, dalla Totalità: anzi, addirittura, come proveniente dal nulla e destinato a ritornarvi. Questa consapevolezza (falsa) gli provoca un’angoscia indomabile che egli tenta invano di sopire accumulando altri enti (cose) e uccidendo (animali e altri esseri umani). Ma, per così dire, all’interno di questa frattura, se ne verifica un’altra (che è poi la “frattura originaria”) che dà il titolo al libro: fra il maschio e la femmina. È il prototipo di ogni rapporto di dominio e sudditanza: l’uomo si autointerpreta come il principio lungimirante, che guida, che dà la vita e la donna accetta di essere il principio miope, che va guidato e che offre il grembo alla fertilizzazione maschile.

In questa condizione strutturale, sistemica, patriarcale (di cui le donne non sono meno responsabili dei maschi: basti pensare alla cattiva educazione che molti uomini ricevono in proposito proprio dalle madri), la democrazia nasce monca: è lo spazio del confronto dialettico e delle votazioni di maschi, adulti, liberi, possidenti, autoctoni fuori dal quale restano confinate le donne, i minori, gli schiavi, gli indigenti, gli stranieri. La violenza nichilistica, il maschilismo patriarcale, la riduzione della democrazia a farsa costituiscono – tutti e tre – i segmenti concatenati di quella sequenza che sfocia nella cultura (ma Testoni preferisce “anti-cultura”) mafiosa siciliana: che, dunque, sarebbe come una sorta di anticipazione profetica del suicidio dell’Occidente.

L’unica alternativa possibile sarebbe risalire il fiume millenario, ricominciare dall’inizio, smascherando la falsità della frattura ontologica (l’Essere è uno e indivisibile), l’infondatezza razionale di ogni violenza storica (se nessuno proviene dal nulla, nessuno può esservi ricacciato da alcuno), l’illegittimità della “frattura originaria” fra maschile e femminile, l’inganno della democrazia elitaria. In positivo questo iter significherebbe riscoprire il monismo parmenideo-severiano; dunque una fondazione ontologica della nonviolenza (inclusiva della critica radicale alla violenza sottile ma pervasiva costituita dal primato della tecnica sulla politica e sulla filosofia); conseguentemente un femminismo adeguatamente attrezzato anche dal punto di vista intellettuale; infine una “omnicrazia” quale l’ha prefigurata – senza saperla fondare filosoficamente – Aldo Capitini.

Ammettendo che questa mia ricostruzione del pensiero della Testoni sia sostanzialmente corretta, provo a discutere i singoli passaggi.

 Ritratto di Jean Paul Sartre, di Gerard Fromanger, 2009.

Ritratto di Jean Paul Sartre, di Gerard Fromanger, 2009.

Interrogativi sul monismo ontologico

Il primo gradino, su cui si regge l’intero edificio, è ovviamente il monismo ontologico parmenideo. Severino, come è noto, vi è giunto con un coraggioso abbandono dell’orizzonte cattolico (in particolare tomistico) che, per altro, comportava una confortevole sistemazione accademica all’Università del Sacro Cuore di Milano. Perché? Perché, a suo parere, il creazionismo (di un Tommaso d’Aquino) e il nichilismo (di un Jean-Paul Sartre o di un Edgar Morin) si equivalgono. Ma è così? A me non pare. Quando Tommaso sostiene che le cose sono state create dal nulla afferma che sono state create da Dio e da null’altro; che esistono in quanto Dio ‘presta’ una qualche ‘porzione’ del proprio essere; che nell’atto creativo Dio attinge alla propria fonte e a nessun’altra. Laddove Sartre, o Morin, intendono affermare proprio ciò che Tommaso ritiene inconcepibile: quella “madre di tutte le follie” che consiste nell’ammettere la «forma radicale del diventar altro che è il diventare essere, uscendo dal nulla, e il diventar nulla, uscendo dall’essere».

Secondo step: è vero che il monismo ontologico può fondare un’etica della nonviolenza? Sì. È vero che solo il monismo ontologico può fondare un’etica della nonviolenza? No. Anche su una qualsiasi prospettiva teoretica (teologica o filosofica) che assuma seriamente l’alterità dell’altro può fondarsi il rispetto ‘sacro’ per uomini e altri animali, per alberi e fiori, per sorella Luna e per fratello Fuoco.

Terzo passo: è vero che il monismo ontologico, dal momento che nega in radice ogni “frattura” fra ente e ente (essendo essi “modi” dell’unico Essere), può sradicare la “frattura originaria” fra maschio e femmina (anche laddove, in coppie omosessuali, si configuri come preponderanza di uno dei due principi sull’altro)? Sì. È vero che solo il monismo ontologico può sradicare la “frattura originaria” fra maschio e femmina? No. La differenza ontologica (con annessi e connessi sul piano mentale, psicologico, relazionale…) è stata giocata storicamente, de facto, come predominanza unilaterale (delle donne in regime di matriarcato e, molto più spesso, dai maschi in regime di patriarcato), ma de iure (e anche in numerosi casi della grande storia e delle piccole storie familiari) può essere giocata come complementarietà sinergica. Mi pare esagerato, anzi ingiusto, affermare che il movimento femminista non ha una fondazione filosofica adeguata solo perché non ha una fondazione filosofica severiniana.

Quarto (e ultimo) scalino: è vero che la democrazia occidentale nasce zoppa se non addirittura monca di una gamba? Sì. L’esclusione delle donne è per così dire l’esclusione paradigmatica di chi non esercita il potere in tutte le sue forme (a cominciare dalla forza muscolare e dalla proprietà economica). Anche qui, però, ribadirei che il monismo ontologico potrebbe (probabilmente) giustificare teoreticamente una “omnicrazia”, ma non ritengo che sia l’unica prospettiva teoretica in grado di farlo: anzi, confesso che un pluralismo ontologico che prenda sul serio l’irriducibile molteplicità degli enti (e dunque anche delle soggettività umane) mi sembra più compatibile con l’accettazione della dialettica fra opposti (o, per citare don Tonino Bello, con la “convivialità delle differenze”) che della democrazia è il cuore pulsante.

3La mafia come compimento del capitalismo?

Come ho ricordato sopra, nella trattazione della Testori il fenomeno mafioso gioca il ruolo di suggello conclusivo della bimillenaria follia dell’Occidente. Da una parte direi che questa tesi aiuta a non supporre che la Sicilia, in quanto ancora infestata da organizzazioni criminali, sia una giungla selvaggia con una popolazione bloccata – mentalmente e nei costumi – a qualche secolo fa. La perversa genialità dei mafiosi si rivela appunto nel saper intrecciare la fedeltà alla tradizione con l’adattamento alle novità. Tecnica e capitalismo non solo non hanno sradicato la mafia, ma l’hanno resa più forte e più insidiosa.

D’altra parte, però, confesso di avvertire delle resistenze ad accettare un’interpretazione della mafia che le conferisce un rilievo eccessivo: una rilevanza che essa non merita. Una cosa, infatti, è sostenere che mafia e capitalismo mirano agli stessi traguardi (il profitto e il potere) e un’altra cosa è sostenere che la mafia sia la quintessenza del capitalismo, la sua forma adulta e per così dire ‘perfetta’. Che cosa li differenzia, nonostante le somiglianze? I mezzi. La mafia mira al denaro e al dominio ricorrendo alla violenza fisica come metodo, come strumento privilegiato (anche se non unico: cerca il consenso con la corruzione e altre forme di seduzione); un metodo, uno strumento, che al capitalismo viene precluso dalle normative statali. Certo la violenza non è solo lupara e bombe, ma mentre un capitalismo “dal volto umano”, “ben temperato” da un potere politico democratico e da una maturazione etica generale, è – almeno in linea teorica – ipotizzabile, la mafia è costitutivamente inemendabile. Questa considerazione sulla impossibilità di vedere nella mafia la forma compiuta (e in un certo senso insuperabile) del capitalismo non vuole negare che, in altri sistemi socio-economici, la mafia sarebbe più facilmente estirpabile che nel contesto capitalistico: ma identificare tout court lotta alla mafia e contestazione del capitalismo è un errore teorico che, per giunta, servirebbe solo a scoraggiare chi combatte la mafia nell’attuale sistema socio-economico.

Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
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Augusto Cavadi, tra i pionieri della filosofia-in-pratica contemporanea, già docente  presso il Liceo “G. Garibaldi” di Palermo, è fondatore della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Collabora stabilmente con La Repubblica-Palermo. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica, con particolare attenzione al fenomeno mafioso, nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti  (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018).
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