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Da Harward Gaza è lontana. Sull’importanza del dialogo

Harward, l'Università

Harward, l’Università

di Francesca M. Corrao 

L’escalation di violenza in Medio Oriente a cui la comunità mondiale assiste da ormai oltre sei mesi, ha visto alternarsi nel dibattito pubblico scontri verbali e commenti ‘a caldo’ molto più numerosi di analisi pacate. Queste sono utili per cercare soluzioni adeguate ad una situazione intricata che diventa sempre più grave con il passare degli anni. Nessuno ha soluzioni facili da proporre, ma il dibattito tra tifoserie contrapposte tende a radicalizzare ulteriormente le posizioni e non aiuta a ponderare la situazione da nuove prospettive. Credo che piuttosto che esacerbare le divisioni sia utile cercare gli argomenti che possano avvicinare i contendenti.

Per aprire spiragli di un possibile dialogo forse sarebbe utile partire dal mettere in evidenza gli aspetti positivi che le due parti hanno avuto in passato e che potrebbero avere nel presente piuttosto che insistere su ciò che li contrappone. Per arrivare ad una tale posizione è necessario riconoscere la dignità della vita dell’altro piuttosto che demonizzarla. L’esempio di Nelson Mandela in Sud Africa potrebbe essere uno dei tanti paradigmi a cui fare riferimento: guardare alle persone piuttosto che alle entità astratte quali la patria, l’appartenenza identitaria, la ‘terra’.

Oggi, se torniamo a leggere la propaganda che aveva causato fiumi di sangue nei secoli delle crociate, ci rendiamo conto che vite, energie e denaro non solo non hanno risolto il problema ma anzi lo hanno aggravato. Il conflitto nel Mediterraneo ha favorito l’irruzione dei Mongoli nell’area, con una destabilizzazione del Medio Oriente che ha spinto i commerci a cercare nuove vie per le Indie marginalizzando il Mediterraneo. Tale declino ha ridotto, rispetto ai Paesi atlantici, le nostre potenzialità economiche e di crescita civile. All’epoca non c’erano i potenti mezzi di comunicazione odierni, e tuttavia ancora oggi ci troviamo avviluppati in una bolla mediatica che non fa altro che ripetere gli stessi stereotipi della contrapposizione tra “noi” e il mondo islamico.

Qui a Boston, dove attualmente mi trovo, la distanza da Gerusalemme è palpabile: da una parte gli sforzi della comunità araba e musulmana nel sollecitare il supporto ai palestinesi, dall’altra la comunità ebraica che cerca consensi alla causa di Israele a fronte di un diffuso disinteresse per un problema così lontano. La gran parte delle persone ignora la questione mediorientale e ritiene che la guerra in Ucraina sia un problema europeo.

capture-decran-2023-05-12-152227Harvard, l’Ateneo che ha visto costretta la prima rettore donna e di colore a dimettersi per non aver espresso una chiara condanna nei confronti delle manifestazioni contro Israele, non ha suscitato passioni né particolari mobilitazioni. Un solo grande cartello, sino a qualche giorno fa, accusava il governo israeliano di “genocidio”, ma poca gente si fermava a guardarlo. Dall’altra parte una serie di dibattiti su argomenti correlati alla questione sono stati affrontati con toni molto meno aspri di quanto non sia accaduto da noi; qui faccio riferimento all’incontro promosso dal Cmes (Center for Middle Eastern Studies) assieme al Center for International Affairs e il Center for Jewish Studies, sui “Pregiudizi perniciosi: approcci accademici all’antisemitismo e all’islamofobia” a cui hanno preso parte il Direttore del Center for Jewish Studies dell’Università di California, e la prof. Nazita Lajevardi esperta di politiche etniche e razziali, della stessa Università e Kassra AR Oskoii dell’Università di Delaware, esperto ‘political behaviour’.

Altri eventi, più politici hanno visto oratori prendere posizioni molto più “perniciose” come ad esempio Jared Kushner, genero di Trump, convinto che il lungomare di Gaza abbia un importante futuro immobiliare. Sul fronte opposto l’influente coordinatore del network online Al-Shabaka, Tareq Baconi che ha presentato un’immagine molto diversa da quella meglio nota di Hamas, tanto da affermare che è “quasi democratico”. Quest’ultimo oratore, che ha un dottorato a Oxford, è anche convinto che l’Iran, pur sostenendo economicamente Hamas non lo influenzi politicamente. Opinioni che non hanno provocato risposte indignate da parte del pubblico, anche se, per esempio, quest’ultima è stata pronunciata due giorni dopo l’attacco iraniano su Israele.

In effetti la stampa ha spostato l’attenzione sui rischi di un conflitto tra Israele e Iran mettendo in secondo piano la crisi umanitaria in Palestina. La crescente tensione internazionale ha contribuito a fare votare insieme una maggioranza di democratici e repubblicani gli aiuti economici per un ammontare di 61 miliardi di dollari a favore di Taiwan, Ucraina, Israele e altri Paesi tra cui il Sudan (cosa che non accadeva dai tempi di Obama).

Diversamente da quanto accade in Italia, dove si tenta di ostacolare l’espressione di pareri diversi da quelli governativi, la libertà di opinione negli Stati Uniti è ancora un valore e le posizioni dei giovani hanno rilevanza. Sui media non si raccontano solo le proteste dei più radicali che finiscono coinvolti in disordini, ma giovani opinion maker sono ospitati in molti dibattiti. Tuttavia va segnalato che in California, in seguito ad una manifestazione a favore della Palestina, 50 studenti stranieri sono stati arrestati, identificati ed espulsi dagli Stati Uniti, il che ha comportato la fine del loro percorso di studi e un probabile pregiudizio al loro futuro.

71pmzsrecwlSi trovano approfondite riflessioni e aperture al dialogo in molti articoli, come quelli di Ezra Klein sul New York Times che intervista Baconi, e si interroga sul crescente distacco da parte della nuova generazione di ebrei americani dalle sorti di Israele. La stessa preoccupazione è emersa in occasione della conferenza di Geoffrey Levin della Università Emory alla presentazione del suo libro sulla posizione degli ebrei liberal americani verso Israele negli anni ’50. Per lo studioso provare empatia per la condizione dei rifugiati palestinesi, all’epoca, non comportava l’essere tacciato di anti-semitismo. L’aver ostacolato allora, un dibattito critico nei confronti delle scelte dei governi israeliani, a suo avviso non ha favorito un avvicinamento delle posizioni in vista di una possibile composizione del conflitto. Se si vuole arrivare a soluzioni pacifiche – secondo Levin – oggi è ancora più urgente essere empatici e ascoltare la diversa visione dei fatti. Peccato che il pubblico fosse avanti negli anni e molto ridotto, in confronto all’affollato evento che vedeva per protagonista Baconi.

Alcuni docenti di Harvard, memori del loro impegno sociale ai tempi della guerra nel Vietnam, si interrogano sulle cause di tanta indifferenza da parte degli studenti di oggi. I tempi sono molto cambiati: la vita nelle università è scandita dalle scadenze per le consegne dei saggi e dei compiti, dall’ansia per i voti alti e per il futuro. Questo è tanto più importante perché sovente bisogna trovare un lavoro ben remunerato per pagare i debiti contratti per studiare. Non c’è tempo per i dibattiti, lo studio della storia è irrilevante e tutto si concentra sul presente, non c’è più memoria, basta Wikipedia, le lingue non si studiano molto – salvo nelle facoltà preposte – perché si ritiene che basti usare ‘Google translate’. Pertanto si ignorano così le culture diverse, i loro valori e le loro specifiche modalità di espressione. Ciò porta a non capire i fatti all’origine degli eventi odierni e a non cercare le ragioni che possono aiutare a ristabilire un dialogo dai tratti umani.

1864-3Ad esempio, come spiegare che shalom e salam vogliono dire pace nelle due lingue araba ed ebraica, come anche la parola rabbi, signore; come non ricordare che gli arabi e gli ebrei sono entrambi semiti? Come fare capire agli ebrei che i palestinesi, diversamente da quanto si immagina, non sono a casa loro negli altri Stati arabi? Un palestinese che nasce in Egitto, come in tanti altri Stati arabi “fratelli”, è un apolide, il che vuol dire che non ha accesso ad alcuni diritti basilari come lo studio e la sanità. Mentre i palestinesi non possono capire che a partire dal 1492 gli ebrei sono stati pesantemente vessati in Europa, senza andare più indietro nella storia e ricordare le precedenti persecuzioni nell’antica Libia. Come spiegare agli Arabi, che oggi vogliono cacciare gli ebrei da Israele che i loro antenati avevano accolto la diaspora ebraica a Tunisi, in Marocco, al Cairo come a Istanbul, dopo la cacciata e la Reconquista dell’Andalus da parte della cattolicissima, ma poco compassionevole, regina Isabella di Castiglia? O come spiegare che il sionismo nasce in risposta alle persecuzioni degli ebrei prima con i pogrom in Russia e poi in Francia in seguito all’iniquo processo contro Dreyfus?

img20221031160843_1024x1024-1Gli analisti geopolitici non hanno tempo per leggere Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani (ed. Sellerio), o La porta del sole di Elias Khouri (ed. Einaudi), perché sono convinti che la letteratura non li riguardi. Peccato, perché invece li aiuterebbe ad avere una visione meno stereotipata e pregiudizievole del conflitto in atto e soprattutto potrebbe servire per individuare soluzioni alternative. La poesia è poi sovente aborrita, ma se leggiamo i versi che seguono di Mahmud Darwish possiamo capire che le posizioni politiche sono articolate e non tutti gli arabi sono terroristi che vogliono sterminare gli ebrei e gli occidentali: 

(…) Dice: da là vengo. Io qui appartengo.
E là non sono, né qui mi trovo
ho due nomi si incontrano e si separano.
Ho due lingue ma ho dimenticato
con quale delle due ho sognato,
per scrivere ho l’inglese,
dal lessico obbediente,
e un’altra lingua delle parole del cielo
con Gerusalemme, dal tono argenteo
ma non cedevole alla mia fantasia!
Ho chiesto: l’identità?
Ha detto: è una difesa del sé …
L’identità è generata dalla nascita ma
alla fine è la creazione di chi la possiede,
non si eredita dal passato. Io sono molteplice
dentro e fuori mi rinnovo … ma
appartengo alla domanda della vittima.
(…)
Egli ama paesi che poi lascia
(l’impossibile è lontano?)
Ama migrare verso ogni cosa
perché, nel viaggio libero tra le culture,
chi cerca l’essenza umana
trova spazio per tutti.
Qui avanza una periferia, o arretra un centro.
L’oriente non è del tutto oriente,
né l’occidente, è occidente.
Perché l’identità è aperta al molteplice
Non è rocca né trincea/.

9788832007473Ognuno di noi ha un proprio spazio di influenza; per quanto piccolo esso possa essere, quello che conta è fare la propria parte. Come sollecitava John F. Kennedy nel 1961, «Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese». Il nostro Paese oggi è il mondo e la nostra sicurezza non è separata da quella dei nostri vicini. Come insegna un saggio orientale «Se vi preoccupate anche solo un po’ della vostra sicurezza personale, dovreste prima di tutto pregare per l’ordine e la tranquillità in tutti e quattro i quadranti del Paese». 

PS. Sono a Cambridge (Boston) e, a oggi, non ho constatato l’atmosfera infuocata che riporta la stampa italiana. Anni fa, quando esplose la rivolta contro Gheddafi, in Italia molte testate parlarono di fosse comuni, notizia che avevano ripreso da al-Jazeera. Karim Mezran mi raccontò di aver subito chiamato dei suoi amici che risiedevano nei pressi del luogo indicato e che questi lo avevano tranquillizzato dicendo che non c’era nulla di quanto la stampa aveva affermato. Forse immaginavano quanto sarebbe seguito? Oggi, nell’impero dei Media e delle torsioni delle comunicazioni la rappresentazione della realtà è spesso diversa dalla realtà effettuale; come anche nella vita reale la realtà percepita varia a seconda dello stato d’animo delle persone: un fenomeno relativamente piccolo può suscitare molta preoccupazione. Fa quasi più notizia del perpetuarsi del disumano massacro a Gaza. Come afferma il filosofo Daisaku Ikeda: «Può non essere facile riconoscere il potere della cultura, eppure la sua è una forza fondamentale, perché è in grado di trasformare il cuore degli esseri umani. (…) Perché mai fare l’errore di considerare solo la superficie di un corso d’acqua? Le correnti più profonde sono molto più importanti per conoscere la natura di un fiume!» (Cultura, arte, natura, Esperia, Milano 2010: 3). 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024

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Francesca Maria Corrao, ordinario di Lingua e Letteratura Araba, alla Luiss Guido Carli Roma, ha studiato in Italia e al Cairo la cultura del mondo arabo e islamico. Tra le sue pubblicazioni numerosi articoli in sedi internazionali e nazionali e gli approfondimenti su: La rinascita islamica (ed. Laboratorio antropologico, Università di Palermo 1985); Poeti arabi di Sicilia (Mondadori 1987, Mesogea 2001) Le storie di Giufà (Mondadori 1989, Sellerio 2002), Adonis. Ecco il mio nome (Donzelli 2010), Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea (Mondadori università 2011). Assieme a Luciano Violante ha recentemente curato il volume edito per i tipi de Il Mulino L’Islam non è terrorismo e con Monica Ruocco i due volumi della Storia della letteratura araba, presso Le Monnier/Mondadori.

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