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Civis europaeus: una scommessa (quasi) perduta?

cittadinanza-europeaper la cittadinanza

di Lauso Zagato

1. Alla metà dello scorso decennio chi scrive aveva avuto modo di svolgere riflessioni sulla cittadinanza europea [1], ipotizzando l’opportunità di distinguere tra la cittadinanza dell’Unione europea (UE), sorta di Giano bifronte, e il progressivo emergere di una nozione più ricca ed articolata del nostro essere “cittadini d’Europa”, legata alla possibile conquista di una dimensione ampia di spazio culturale-politico europeo.  Il ragionamento era improntato ad un certo ottimismo di fondo, malgrado le crisi apertesi in successione dopo il 2008, e i loro pesanti effetti sul tessuto connettivo europeo. Certo, dal 2015 ad oggi sembra passato un secolo: non c’era stata ancora la presidenza Trump, la campagna per la Brexit, da poco iniziata, era interpretata nel continente in termini folklorici, che inducevano al sorriso, mentre suscitava malcelato imbarazzo, davanti agli altri europei, tra le élites britanniche. Più in generale il culmine dell’ondata c.d. sovranista era di là da venire. E naturalmente, a proposito di (ondate di) disastri, non vi era traccia, sull’orizzonte degli eventi possibili, della sindemia [2] in cui siamo tuttora attanagliati.

Date le premesse, è legittimo chiedersi se, ed eventualmente entro quali limiti, quella apertura di credito nei confronti della dimensione europea del nostro vivere, sia ancora valida. Ricordiamo che la cittadinanza UE non può essere per sua natura di tipo verticale, legata cioè ad una identità simil-nazionale, anticipatoria di una sorta di super-Stato europeo. I timori diffusi ad arte al riguardo, negli scorsi anni, dai sovranisti non hanno mai avuto senso. Ciò data la natura “seconda” per definizione di tale cittadinanza, inestricabilmente legata al godimento della cittadinanza nazionale di uno degli Stati membri SM). Se vi è accordo diffuso sul fatto che la radice della cittadinanza UE vada ricercata nel concetto di “unità nella diversità” [3], è tuttavia rimasto non determinato in che cosa consista tale unitas multiplex, di cui molto si è discusso in passato; ciò ha spinto tanti a parlare di concetto sfuggente, vacuo [4]. In tal modo, peraltro, si perdono di vista gli elementi di originalità contenuti nell’istituto della cittadinanza europea. Il quesito è piuttosto questo: una volta individuati e portati a galla, tali elementi consentono di individuare «cristalli di identità europea operanti qui ed ora?» (Zagato, 2015: 151).

Prima di provare a rispondere a tale domanda, fa d’uopo richiamare, succintamente, alcune nozioni giuridiche basilari.

slide_12. La cittadinanza europea, istituita dal trattato di Maastricht del 1992 come complemento della cittadinanza nazionale è oggi disciplinata dal Trattato sull’Unione europea (TUE, artt. 9-11), dal Trattato sul funzionamento della Unione europea (TFUE, artt. 20-25), e dalla Carta dei diritti fondamentali (artt. 39-46) [5]. L’art. 9 TUE, nella versione vigente (c.d. trattato di Lisbona), confermato che per avere la cittadinanza europea è imprescindibile godere della cittadinanza di uno SM, stabilisce che la cittadinanza europea si aggiunge a quella nazionale, senza sostituirla. È condivisibile l’opinione secondo cui tale formulazione vuole rafforzare una nozione di cittadinanza europea non come cittadinanza meramente sussidiaria di quella nazionale, ma come seconda cittadinanza, «avente un proprio autonomo status giuridico» dal quale nascono diritti e obblighi stabiliti dal diritto UE [6]. Tra i primi, interessa sottolineare il diritto di cui all’art. 20.2 a), il quale inserisce, tra quelli legati al godimento della cittadinanza europea, il «diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri». Nel Trattato originario, ricordiamo, la libertà di circolazione caratterizzava l’homo oeconomicus (il prestatore di servizi, il lavoratore autonomo, il lavoratore dipendente), estendendosi alla sua famiglia, non certo i cittadini degli SM in quanto tali.  

Le disposizioni collegate alla cittadinanza UE si applicano peraltro agli Stati membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (art. 51 Carta dei diritti). Sappiamo dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (CGUE) che solo le situazioni puramente interne e le attività non economiche rientrano tra quelle cui il diritto UE non si applica (sentenza ERT, giugno 1991). Va da sé che, a seconda della portata attribuita alla nozione di “attività non economiche” e, rispettivamente, a quella di “situazioni puramente interne”, è lecito parlare della cittadinanza europea come di niente più che di una sorta di quinta libertà [7] – in aggiunta a quelle di circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali – offerta a determinate condizioni dal diritto UE, oppure più su, fino ad ipotizzare una cittadinanza europea che avrebbe conseguito uno status di ordine superiore rispetto alle cittadinanze nazionali, e sarebbe in grado di modificare la «natura della cittadinanza degli Stati membri», nel senso di renderla più inclusiva [8]. Ad avviso di chi scrive, nessuna di tali alternative meramente “quantitative” ha saputo cogliere il cuore della nozione di cittadinanza europea.

fhcn7hwnf0refklrqh5ypg3. Il rapido susseguirsi di sentenze della Corte di giustizia (CGUE) dal profilo fortemente innovativo a cavallo del secondo decennio, in particolare la pronuncia Zambrano (8 marzo 2011), sembravano aprire la via ad una autentica rivoluzione.

Già la sentenza Rottmann (2 marzo 2010) aveva l’anno precedente fatto scalpore. Si trattava di un caso bizzarro. Un truffatore austriaco, tacendo i procedimenti penali in corso a suo carico in Austria, aveva chiesto e ottenuto la cittadinanza tedesca; ciò comportava la rinuncia a quella austriaca, dal momento che l’ordinamento di quest’ultimo Stato non prevede la doppia cittadinanza. La successiva scoperta da parte delle autorità tedesche dell’effettiva situazione giudiziaria del personaggio portava peraltro ad annullare la concessione della cittadinanza di tale Paese; ciò nel mentre l’Austria rifiutava risolutamente, dal canto suo, di riaccogliere l’ex cittadino.  Era come si vede una situazione del tutto priva di profili di diritto UE, che stava portando inevitabilmente come esito al configurarsi di una situazione di apolidia in capo al Rottmann. La CGUE, considerando che la dichiarazione di apolidia avrebbe fatto venir meno anche la cittadinanza UE della persona, fondava su ciò la propria competenza, ed interveniva richiedendo ai due Stati di trovare un accordo perché una delle due cittadinanze venisse attribuita. Insomma, uno dei due ordinamenti si doveva riprendere in carico il Rottmann, evitando così che andasse perduta una cittadinanza UE. In occasione di quel processo l’avvocato generale Maduro aveva fatto valere, per la prima volta, che «l’identità europea è il portato di uno spazio politico europeo anche in assenza di un popolo europeo». L’importanza (e i limiti) dell’assunto, il primo caso in cui istituzioni ufficiali abbiano parlato di identità europea, saranno discussi in seguito.

Nel caso Zambrano veniva affermata con forza l’esistenza di un nucleo essenziale di diritti in capo al cittadino UE in quanto tale; le conseguenze erano particolarmente forti nel caso di un Paese che fonda la cittadinanza sullo jus soli, quale il Belgio. Gli Zambrano, esuli colombiani in tale Paese dove avevano avuto figli, non potevano perdere il diritto di residenza, perché in tal caso i figli, minori, avrebbero dovuto seguirli in uno Stato terzo, perdendo il diritto garantito dalla cittadinanza belga, e quindi UE. Sembrava una apertura senza ripensamenti, che creò in effetti entusiasmo negli ambienti che definiremmo “unionisti” (e di converso smarrimento nei settori, per così dire, “sovranisti”) delle opinioni pubbliche degli Stati UE.

La successiva giurisprudenza della stessa CGUE avrebbe peraltro posto una serie crescente di distinguo, donde il diffondersi di una serie di teorie, più o meno ingegnose, volte a riportare ad unità la costruzione giurisprudenziale, teorie sulle quali non ci soffermiamo qui. Sostanzialmente la Corte ha via via precisato che solo nei casi che porterebbero alla totale privazione dei diritti connessi alla cittadinanza UE (v. Zambrano), tali diritti trovano applicazione anche in assenza del previo espletamento della libertà di circolazione da parte dell’interessato, condizione perché si rientri nella situazione contemplata dal citato art. 51 della Carta. Insomma, i diritti connessi alla cittadinanza  UE si applicano, di norma, a chi si sia già avvalso di una delle libertà indicate dal Trattato; nel caso invece di cittadini di uno Stato membro assolutamente stanziali, cioè che non si siano mai recati in altri Paesi membri (per trovarvi lavoro, per svolgervi attività economiche autonome, per prestare servizi o riceverne in qualità di turisti), né abbiano prestato servizi per operatori di altri Paesi membri a partire dal proprio Stato, solo il rischio di assoluta e totale deprivazione dei diritti connessi alla cittadinanza europea ne impone l’applicazione. Per tornare al caso Zambrano: se vi fossero stati parenti prossimi della coppia dotati di regolare permesso di soggiorno in Belgio, i figli, cittadini belgi per jus soli, avrebbero potuto essere affidati a costoro, il loro diritto di godere della cittadinanza UE sarebbe stato comunque loro garantito anche nel caso di espulsione dei genitori, e il diritto UE non si sarebbe intromesso in una questione puramente interna al Belgio, quale l’eventuale decisione di non rinnovare il permesso di soggiorno ai coniugi Zambrano.

golden-visa1-768x7534. A ben vedere dunque la cittadinanza europea si distingue per qualcosa di profondamente originale, non solo per essere cittadinanza seconda, aggiuntiva, rispetto a quella dello Stato di appartenenza. La costruzione di uno spazio politico e giuridico della cittadinanza UE, è stato osservato, appare volta a «ricostruire questa categoria non attorno ad una supposta ‘sedentarietà’ dei membri delle comunità politiche (nazionali, monolitiche) ma attorno alla mobilità delle donne e degli uomini che ne fanno parte» [9].

Siamo di fronte ad una cittadinanza a geometria variabile, che non si articola però lungo diversi cerchi di importanza gerarchica delle rispettive cittadinanze nazionali, né – almeno formalmente, giacché i problemi legati a minoranze e genere non sono superati, tutt’altro – si applica a diverse categorie di fruizione dei diritti da parte di differenti categorie di cittadini (la République era una e indivisibile, ma i suoi cittadini algerini erano un po’ meno eguali di quelli metropolitani, per capirci). Innovando in profondità, la cittadinanza UE privilegia i cittadini europei mobili da quelli che non si muovono, creando un sistema di diritti che ha «come destinatario privilegiato il migrante interno» (Zagato, 2015b: 150-151). Ciò, beninteso, nel mentre ritiene il tratto tipico di ogni cittadinanza, distinguere chi è cittadino, e gode dei diritti, da chi non lo è e resta escluso, o vi accede in modo estremamente limitato: il cittadino non-UE che vive all’interno del territorio unionista.

Alle origini di questa Europa, possiamo osservare, esiste un retaggio oggettivo, che ne costituisce nel contempo il fascino, e la rende più reale – potenzialmente – della serie di artificiali costruzioni statuali impostesi con la modernità. L’identità storica dell’Europa è infatti legata alle sue vie di transumanza e ai percorsi fluviali [10], insomma ai suoi pastori, barcaioli navigatori delle acque interne, commercianti che hanno creato un intreccio di comunità circolanti «pronte a scambiare le rispettive pratiche culturali e produttive» (Zagato, 2015b: 151) lungo i millenni, fino a quando le barriere imposte dagli Enti-apparato stanziali, nel frattempo costituitisi, hanno avuto la meglio. Si presenta dunque tendenzialmente, con la cittadinanza UE, il ritorno di una Europa mobile, potremmo azzardare neo-nomadica, certo piena di contraddizioni interne, ma anche di fascino e, in astratto, di possibilità di sviluppo; tale perciò da spaventare vari gruppi e ambienti sociali e da mettere in moto processi di opposizione rabbiosa difficilmente reversibili, come sempre avviene quando la resistenza di importanti frazioni degli apparati statuali si incontra con un atteggiamento diffuso di paura in strati non secondari dell’opinione pubblica, rinsaldandosi e  traendo linfa l’una con l’altra. È ciò che sarebbe successo in occasione della Brexit [11].

Invero questa cittadinanza mobile, da sogno, ha la consistenza di certi delicati cristalli. Prima di tutto, la geometria variabile si rivela un labirinto scarsamente decifrabile. Già l’appartenenza o meno alla categoria di cittadini europei protetta dal diritto UE (anche e soprattutto rispetto a politiche discriminatorie da parte del proprio Stato di appartenenza) risulta come abbiamo visto incerta, di scarsa decifrabilità, e soprattutto oggetto nel tempo di un gioco al ribasso, sotto la spinta di specifici settori dell’opinione pubblica. C’è poi, vi si accennava, la presenza di minoranze, solennemente tutelate dall’art. 2 TUE, ma in termini indeterminati [12]. Tale indeterminatezza peraltro costituisce una scelta obbligata da parte dell’ordinamento UE, in una situazione caratterizzata da ampia circolazione interna. Ciò può condurre a situazioni in cui cittadini di Stati membri, appartenessero o meno a minoranze nello Stato UE di provenienza, una volta esercitata la libertà di circolazione e trasferitisi in altro Stato membro, si trovano ad essere parte di minoranze identificate, anche non volendolo. Facile capire, ove ci si riferisca per esempio al divieto di discriminazioni per orientamento sessuale, che l’esercizio della libertà di circolazione e trasferimento può portare con sé notevoli modifiche dello status delle persone.

Il problema si complica ulteriormente con la presente crisi; la sindemia si accinge a fornire (all’apparato UE come anche) agli Stati membri, strumenti ulteriori di controllo e frammentazione del godimento del diritto. Mi riferisco in primo luogo alle decisioni prese a fine aprile con l’approvazione del Green pass sanitario, e confermate definitivamente nel secondo fine settimana di giugno. Lo strumento dovrebbe essere in funzione a livello europeo dal primo luglio, pur se non è ancora chiaro come potrà essere aggirato il nodo del rispetto della privacy di cui godono i cittadini dell’Unione. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo visto in questi giorni come, in risposta ad alcune misure poste dal governo, vi sia stato un passo importante del Garante della privacy a imporre il rispetto di diritti minimi dei cittadini [13].

Certo, il comportamento delle autorità comunitarie è formalmente ineccepibile: la UE indica una soglia minima di tutela del diritto di circolazione sotto la quale gli SM, depositari dei poteri in campo sanitario, non possono scendere riguardo ai cittadini provenienti da altri SM, a pena di porre in atto discriminazioni che violano il diritto UE.  Per fare un esempio: l’Italia non potrebbe, una volta passata in zona bianca (o gialla), bloccare l’ingresso dei cittadini sloveni, o danesi (o anche italiani, se provenienti da altri Stati dell’UE); solo qualora fosse dichiarato, ed applicato all’interno, lo stato di emergenza per motivi sanitari, sarebbe possibile applicare anche ai cittadini UE provenienti da altri Stati membri le stesse restrizioni che si applicano ai cittadini residenti. In base al nuovo strumento, i cittadini di un qualsiasi Stato membro che risultano vaccinati con uno dei vaccini approvati dall’EMA (o siano in grado di esibire un tampone svolto con esito negativo secondo determinate procedure) devono poter circolare liberamente negli altri Paesi membri (esclusi ovviamente quelli che si trovino in situazione di lock-down interno). Di per sé si tratta di uno strumento di armonizzazione minima, che si giustifica per il fatto di evitare l’eccessiva discrezionalità da parte degli apparati statuali nelle misure di controllo [14]; non possiamo peraltro dimenticare come in questi casi il livello minimo si trasformi facilmente in livello standard, o addirittura in soglia massima consentita.

Resta poi la singolare quanto preoccupante sovrapposizione con un altro, assai più invasivo strumento, e con le forme radicali di controllo che questo consente sulla circolazione delle informazioni e dei dati, e di conseguenza sulle persone. Il riferimento è al Regolamento sul contrasto alla diffusione di contenuti terroristici on line, approvato in tutta fretta tra marzo e aprile 2021, che al di là del titolo, ingannevole, risulta volto a influire (assai) pesantemente sul godimento dei diritti connessi alla cittadinanza UE; non è il caso di parlarne oltre in questa sede data la complessità del testo, che preannuncia – è da augurarsi – l’aprirsi di una stagione di profondi contrasti (politici ma anche davanti ai giudici, nazionali e non) nei prossimi anni, a tutela di diritti umani basici delle persone.

Con amaro realismo dobbiamo peraltro constatare come questa linea assunta dai poteri forti europei, a livello dell’UE come a livello nazionale, stia pagando: nel senso che il ripristino, talora la costruzione ex novo di controlli ficcanti sulla libertà di circolazione dei cittadini di Paesi membri, riduce d’incanto il peso delle tensioni c.d. sovraniste e localiste che avevano riempito le piazze fino a poco tempo fa.

img-15. La situazione ora delineata si presenta ben più drammatica se facciamo riferimento alla situazione, in Europa, di chi cittadino di uno Stato membro non è: su ciò solo un rapido cenno, giusto per completare il quadro. In questo caso la quota dei diritti di cui godono le diverse categorie di persone (in possesso di regolare permesso di soggiorno s’intende) varia molto. Varia intanto ratione personarum (familiari non-UE di cittadini UE; ingressi per motivi di studio e di ricerca; richiedenti asilo) ratione materiae (visti e ricongiungimento familiare), ratione temporis (soggiornanti di lungo periodo); intrecciata con queste ragioni, la quota di diritti varia poi ratione loci originis, nel senso che a seconda della provenienza e degli accordi internazionali tra Paese di origine e UE, le citate categorie di godimento di diritti si modificano a loro volta in capo ai singoli cittadini non UE.

Da ultimo, va considerata la marea dei clandestini: marea nel senso prima di tutto letterale, del prezzo che paga ad un mare, il Mediterraneo, trasformatosi in lago di morte; senza che per questo i ranghi si riducano, venendo gli inabissati nella traversata sostituiti da quanti, nei Paesi membri di arrivo, abbiano nel frattempo perso i requisiti necessari per il soggiorno legale, ricadendo (o cadendo per la prima volta) nello status di semi-clandestinità. Due sole osservazioni al riguardo: per molti di costoro il divieto di réfoulement, cioè di essere rinviati nel Paese di origine dove potrebbero venire torturati, è l’unica possibile àncora di salvezza, il principio cui la Corte europea dei diritti umani (CEDU) non è venuta meno; il quadro peraltro è venuto cambiando nel tempo, e sempre in modo peggiorativo. Si pensi al parere dell’avvocato generale Shapston nel caso X, Y e Z, discusso davanti alla CGUE (novembre 2013); costei dichiarava espressamente quanto fino a quel momento era rimasto sotteso nei discorsi di vari esponenti dell’élite europea, sorta di convenuto di pietra nel dibattito giuridico-politico sui migranti. Affermava l’Avvocato generale Shapston come ciò che costituisce lesione di diritti umani all’interno della UE (si intende: per i cittadini) non vale per chi viene dall’esterno. Si trattava, nella fattispecie, dell’espulsione di donne africane omosessuali che rischiavano dure condanne, al limite della pena di morte, se rimandate nei Paesi d’origine. Gli standard europei previsti per i cittadini europei non si applicano insomma a cittadini non UE; ciò, ben s’intende, in segno di rispetto della autonomia culturale di tali persone e dei loro Paesi di provenienza, altrimenti saremmo in presenza di una forma di “cultural imperialism” (!) [15].

La seconda osservazione riguarda la risposta alla “eventuale” curiosità su quale sia la categoria di cittadini-non-UE che risulta in effetti “più tutelata” all’interno della geometria variabile ora delineata. La risposta è facile: si tratta dei familiari non-UE di cittadini UE. Insomma, non vi sono qualificazioni professionali o meriti speciali, civili o intellettuali, conquistati sul campo che tengano, l’unica cosa davvero importante è riuscire a farsi sposare da chi goda della cittadinanza UE, e rimanerlo abbastanza a lungo da acquisire in proprio il diritto di restare in Europa.

unnamed6. Il quadro così sommariamente presentato – lasciando comunque sullo sfondo, dato il tema dell’intervento, l’autentico capitolo degli orrori costituito dal trattamento dei richiedenti asilo e migranti in fuga da mille insidie – smentisce intanto ogni «facile semplificazione della società della globalizzazione fondata sulla alternativa esclusione/inclusione, segregazione/integrazione)»[16]. Al contrario, il neo-liberismo vede all’opera in una versione adattata le tecniche di «imbrigliamento della libera circolazione del lavoro» che già avevano caratterizzato le formazioni capitalistiche precedenti [17]. Il governo della società della fabbrica fordista, ci insegna un grande maestro [18], era attraversato in profondità dalla gerarchizzazione/strutturazione della forza lavoro per linee etniche. Nella globalizzazione neo-liberista a questo modello rigido si sostituisce piuttosto una giuridicizzazione, per così dire, del controllo, fondata, nella versione europea, su una accentuata procedimentalizzazione del meccanismo (Zagato, 2015b: 184) [19]

Possiamo e dobbiamo confermare le conseguenze tratte a suo tempo: lo spazio politico europeo di cui parlava l’avvocato generale nel caso Rottmann è attraversato da un reticolo normativo che in termini generali favorisce una certa fascia di cittadini (i migranti interni, e questa è la sua originalità), mentre per altri aspetti è volto ad una funzione di differenziazione e controllo rispetto al quale sono costrette ad atteggiarsi variamente le diverse minoranze interne alla UE. I più recenti sviluppi vedono anzi un ispessirsi ulteriore di tale reticolo normativo di controllo, e autorizzano un giudizio severo.

 Non resterebbe allora che valutare la cittadinanza UE e il suo apporto alla civiltà del nostro continente come un sogno di breve durata, in un quadro aggravato dall’emergere, di recente, di profili distopici. Ma è solo questo?

maxresdefault7. La nozione di spazio politico (o politico-giuridico) europeo in relazione alla cittadinanza UE era stata per più versi anticipata ed insieme approfondita da chi aveva provato a definire il territorio UE come «a common cultural resource» [20]. L’autrice di tale definizione proponeva di considerare la politica culturale europea in termini che guardano «beyond familiar nationally oriented conception of culture» [21]. Con questa concezione di cultura e patrimonio culturale proviamo allora a fare i conti.

Sappiamo che la politica culturale UE svolge un ruolo di sostegno alla politica condotta in tale materia dagli SM. Se questo è il chiaro dettato dell’art. 167 par. 1 TFUE, resta che il successivo par. 4 vuole che la UE tenga conto degli aspetti culturali nelle politiche che sviluppa ai sensi di altre disposizioni del Trattato. Si tratta della clausola di cultural mainstreaming; all’interno delle “altre politiche” coinvolte distinguiamo quelle che presentano strumenti premiali (coesione economica e sociale, formazione e istruzione professionale in primis), da quelle (politica di concorrenza; circolazione delle merci e dei servizi) i cui strumenti applicativi vedono i profili culturali costituire un limite allo sviluppo di altre politiche. Un esempio di quest’ultimo tipo: gli aiuti di Stato in materia culturale sfuggono, a certe condizioni, al divieto generale imposto dalla politica UE di concorrenza. Va dato atto di come a far data dal Trattato di Maastricht (1991), e con più determinazione nel passato decennio le istituzioni UE abbiano ben interpretato la centralità del profilo culturale/patrimoniale europeo. Ciò dando sostanza all’affermazione innovativa, contenuta all’art. 3.3 u.c. TUE (Lisbona) secondo la quale «l’Unione rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica, e vigila sulla salvaguardia e lo sviluppo del patrimonio culturale europeo». La prima parte della definizione supera decisamente le precedenti nozioni centrate sulle diversità culturali tra Stati membri (quasi ognuno di questi fosse caratterizzato da una e una sola identità culturale) per affrontare uno scenario più confacente al reale: esiste una pluralità di culture e di identità nel territorio UE, talune delle quali a portata transnazionale, mentre altre (la più parte) proprie di profili specifici, territoriali o meno, all’interno degli Stati membri.

Punto di autentica svolta è stata la Comunicazione della Commissione del 2014 dal titolo “Verso un approccio integrato al patrimonio culturale in Europa”. Lo strumento si concentra su tre aspetti: promozione della diversità culturale e del dialogo interculturale, promozione della cultura come catalizzatore della creatività, protezione della cultura come elemento vitale della vita culturale della UE. Non si può sottacere peraltro la contraddittorietà del percorso seguito dalla Unione-apparato, allora ed ancor più negli anni successivi.

In primo luogo, gli sforzi del biennio 2014-2015 sono coevi ai primi tentativi di portare a termine l’accordo di partenariato transatlantico con gli Stati Uniti [22] (poi abortito), la cui versione finale risultava totalmente contraddittoria con detti sforzi: peggio, le istituzioni UE replicavano alle critiche montanti nei confronti del progetto di partenariato affermando che tale ventilato accordo non avrebbe influito sulla cultura perché … non destinato ad avere specifiche conseguenze sui settori  cinema e audiovisivo. Con ciò venivano buttati alle ortiche il senso della citata Comunicazione della Commissione e i risultati dei lavori del Consiglio Cultura di quel periodo. Di pari passo, nel campo educativo, il lodevole sforzo di sviluppare una dimensione europea dell’istruzione, dando applicazione a quanto previsto dall’art. 165 TFUE, si scontra con l’assenza nel più ambizioso di tali programmi, l’Erasmus+, di qualsiasi accenno alla dimensione europea della formazione, tranne che .. in materia di educazione allo sport. L’obiettivo indicato all’art. 5d) del programma è solo quello di favorire «la dimensione internazionale dell’istruzione e della formazione». A distanza di anni lo scrivente non può che riproporre il proprio sbigottito commento a caldo, secondo cui destava «sconcerto l’annegamento del richiamo alla dimensione europea della formazione in un banale omaggio al pensiero unico della globalizzazione» neo-liberista (Zagato, 2015a: 170). A posteriori, appare lecito vedere in tale formulazione, in nuce, il primo tassello vincente dell’ideologia che guiderà la Brexit e quanto la ha accompagnata nel continente [23].

Sempre intorno alla metà del decennio, i conati identitari della UE si condensavano in un atto assai significativo, la Risoluzione del Parlamento europeo (PE, 12 marzo 2014) sul patrimonio culturale europeo e il suo impatto culturale ed educativo. La Risoluzione delinea la gastronomia, «insieme di conoscenze, esperienze, arte e artigianalità, come parte della nostra identità, in quanto elemento essenziale del patrimonio culturale europeo e di quello degli Stati membri». Di conseguenze il PE approvava tutte le iniziative (a partire da Slow Food) volte a promuovere il patrimonio gastronomico europeo, e quindi la conservazione di riti ed usanze della gastronomia locale, rappresentativa del territorio e del paesaggio europeo. Il documento, con rigore, richiama la necessità di rafforzare i regimi di indicazioni geografiche e di specialità tradizionali, visti (correttamente) in stretto rapporto con l’obiettivo di difendere la consapevolezza del patrimonio rurale e paesaggistico europeo [24].

La rottura rispetto alla prassi tradizionale della politica agricola comune, che aveva visto nel tempo le istituzioni europee, ivi compreso il PE, legiferare sempre a favore della grande impresa agro-industriale a scapito dei piccoli produttori e dei prodotti tipici, era talmente enorme da causare sorpresa e scetticismo negli ambienti più sensibili. In realtà se ne poteva trovare la base proprio nei conati identitari che abbiamo accennato esprimersi in quegli anni in relazione al patrimonio culturale europeo, e che in qualche modo sono condensati nel citato art. 3.3 u.c. TUE. Resta il fatto che comunque qualche anno più tardi il progetto di accordo trans-atlantico con gli Stati Uniti avrebbe visto l’apparato dell’Unione pronto a rinunciare, con il previsto smantellamento delle tutele alla gastronomia e viticoltura, alla difesa dell’elemento centrale di quello che è stato definito l’European Lifestyle (Zagato, L’identità culturale .. 171-174).

18. Insomma, se pur approfondendo il profilo della politica culturale e patrimoniale UE emergono interessanti spunti lato sensu identitari, essi restano avviluppati in contraddizioni insuperabili, a loro volta aggravatesi con il tempo; non idonei quindi, quegli spunti, a costruire una base adeguata per una cittadinanza UE da leggere in termini cultural-politici, oltre che giuridici.

L’analisi si apre su scenari affatto inediti ove si riesca ad integrare il discorso sullo spazio politico-giuridico europeo in «una più ampia nozione di spazio culturale-politico europeo» (Zagato, 2015a: 175), e questa sinergia si dimostrasse in grado di funzionare. Passaggio obbligato in tale direzione è l’inserire nel quadro la fresca linfa costituita dagli strumenti emanati nel nuovo secolo dal CoE, dalla Convenzione di Firenze sul paesaggio europeo (European Landscape Convention, ELC, Firenze 2000) alla Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale per la società (CF, Faro 2005) alla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Istanbul 2011; quest’ultima, entrata in vigore a livello internazionale il 1 agosto 2014, ha visto di recente il ritiro da parte della Turchia, che pure era stata il primo Paese a ratificarla). Entriamo così in una dimensione più ampia (anche geograficamente) di Europa, che ci consente di posizionarci oltre il “reticolo normativo” che abbiamo visto tenere in ostaggio la cittadinanza UE.

Possiamo davvero riuscire a vedere noi stessi come cittadini europei nel senso di cittadini dell’Europa, oltre i legacci che avviliscono la cittadinanza UE? Vi è ancora da sperarlo, e il simbolo forte e commovente di questa più ampia Europa sono proprio le donne di Istanbul, Ankara, Smirne ed altre città turche scese in piazza (e sappiamo che questo comporta un prezzo drammatico nella Turchia di oggi) con le bandiere viola della piattaforma “Noi fermeremo il femminicidio”, per protestare contro l’atto vergognoso del loro governo. Chi più di loro merita oggi il riconoscimento, glorioso, di “soldati di Salamina”? [25].

Resta che questo spazio culturale-politico di Europa, che tra mille difficoltà intuiamo esistente, deve ancora acquistare profili giuridici sufficientemente riconoscibili, per poter trasformarsi in un discorso di cittadinanza. In buona misura ciò dipenderà da come funzioneranno nel prossimo futuro gli strumenti giuridici indicati; le premesse, va da sé, non inducono all’ottimismo. 

Certo, è giusto sottolineare non solo come il numero di Stati ratificanti tali strumenti sia significativamente aumentato, ma anche come il rapporto tra Ue e CoE si sia fatto assai più stretto nel corso degli anni, tanto da portare il secondo, in ragione del suo «much more fully cultural approach to Europeanization»[26], a giocare un ruolo di avanguardia marciante in materia di costruzione di una identità europea. In particolare la CF, primo strumento giuridico a definire (nel preambolo) il patrimonio culturale oggetto di un vero e proprio diritto umano esistente in capo alle comunità di riferimento, getta le basi per lo sviluppo di una identità a grandi linee comune tra tutti i Paesi che partecipano del patrimonio culturale europeo: non solo quindi gli SM della UE, ma anche gli altri Stati europei e i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e della cerniera euro-asiatica che intrattengono rapporti di cooperazione internazionale con UE e CoE.

L’art. 3 della CF contiene la definizione chiave di common heritage of Europe: l’eredità comune del continente consiste nell’insieme delle forme di patrimonio in Europa che costituiscono una «fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività», nonché quegli ideali, principi e valori che derivano dalle passate esperienze, anche «facendo tesoro dei conflitti passati», che promuovono lo sviluppo di una società fondata «sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto». Giova leggere la disposizione in una con il preambolo alla ELC, laddove gli Stati parte si dichiarano «consapevoli del fatto che il paesaggio coopera all’elaborazione delle culture locali» e costituisce una componente primaria del patrimonio culturale e naturale dell’Europa. Dal rapporto fra i due strumenti, il patrimonio culturale e (quindi anche) naturale dell’Europa emerge come «fonte condivisa, che aiuta a fare tesoro del passato e delle lacrime e sangue provate anche dai suoi recenti orrori» (Zagato, 2015a: 177).

Ancora, la nozione chiave della CF è quella di comunità patrimoniale, costituita (art. 2b) da un insieme di persone che «attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di una azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future». Tale nozione, priva di parametri spaziali e temporali, come pure di riferimenti a scale di valori locali, sub-nazionali, nazionali, regionali [27], universali, porta naturalmente con sé il concetto di identità plurale, consentendo ad ogni individuo di identificarsi contemporaneamente con varie comunità, sfuggendo alla desolazione della mono-identificazione identitaria (sia essa basata sulla etnia vera o supposta, sul sangue, sulla lingua, in certo senso anche il genere). Le comunità e gli individui che le compongono possono quindi muoversi, ed in effetti lo fanno, trasversalmente attraverso i diversi territori, i diversi gruppi sociali, il tempo. Di converso, le stesse persone possono appartenere – anzi appartengono, ne siano coscienti o meno – non solo in successione ma anche contemporaneamente, a più comunità patrimoniali [28].

Non resta che ribadirlo: unica identità europea possibile è quella che emerge dalla consapevolezza dell’intreccio tra le espressioni che definiscono le molteplici comunità patrimoniali che popolano lo spazio culturale-politico (del continente) europeo; ovviamente, riferendoci a quante, tra le une e le altre, rispettino i diritti umani, degli individui e collettivi, e siano parte del processo culturale-politico democratico. L’obiettivo è raggiungere la consapevolezza di essere cittadini dell’Europa in un senso ampio, e ancor più delle conseguenze di ciò. La prima di tali conseguenze è (dovrebbe essere ..) il considerare l’Europa di oggi come un grande laboratorio di apprendimento, «officina a cielo aperto» [29]; e all’interno di tale laboratorio tentare la difficile convergenza tra la nozione di comunità patrimoniale, composta da gruppi «who can move cross-culturally and through territories, social groups, time», in sequenza o contemporaneamente, e il profilo caratterizzante la cittadinanza UE, quella mobilità che si è provato a chiamare neo-nomadica. In termini giuridici, un simile processo comporterebbe la necessità di ancorare l’istituto della cittadinanza UE a criteri meno formali di quelli vigenti, e di riuscire a ragionare in termini di «integrazione giuridica e operativa paneuropea» [30] capace di riconoscersi nel diritto al patrimonio come diritto umano, e nella necessità di aiutare e proteggere il processo di sviluppo della rete (pan-)europea di comunità patrimoniali.   

La Cittadinanza europea9. Dovremmo dunque concludere nel senso che, di per sè, quella apertura di credito operata alcuni anni fa risulta degna di venire confermata. Di più, la via della conquista di una identità europea possibile è solo quella che passa attraverso sinergie – quelle indicate – che sappiano innestare un percorso fecondo di spazio culturale-politico europeo. Resta il problema del se, e come, queste sinergie saranno in condizione di operare negli anni così difficili che si preparano, godendo della indispensabile – come dire? – leggerezza e libertà; in altre parole, si manifesta in tutta la sua durezza il problema dei limiti di questa appena intravista conquista di «una dimensione europea del nostro vivere».  Non basta notare che vi sia fermento in vari Paesi del continente, e che ci si potrebbe spingere a parlare, con una certa dose di prudenza, e chiarendo non potersi trattare certo di attestato di fiducia in queste istituzioni UE, della (rinascita, dopo anni, di una) “voglia di Europa”.

Non è però meno vero che sentiamo stringersi sempre più attorno a noi la mano ferrea della rete dei poteri forti che nella sindemia si è venuta costituendo, annunciata dalle grida sguaiate dei suoi sostenitori, che hanno praticamente monopolizzato i canali di informazioni ad un livello sconosciuto nel continente del dopoguerra. Lo stesso allentarsi della presa del localismo più gretto, della distopia sovranista, che fino a poco tempo fa pareva obiettivo luminoso quanto lontano ed incerto nella possibilità di conseguimento, pare avviato ad assumere un segno ben diverso; invero, non la disintegrazione del progetto europeo tout court con la conseguente fine di ogni ipotesi di cittadinanza UE (e a maggior ragione quindi della dimensione di cittadini d’Europa in senso ampio), ma la cattura della dimensione culturale-politica oltre che giuridica del continente da parte di una rete di poteri cresciuta in intensità e potenza – ma anche quanto a qualità e tipologie di soggetti coinvolti (argomento che non si può affrontare qui) – e che a tutto è interessata, ed in particolare al rilancio di una piattaforma di potere di scala continentale (precondizione per contare nei nuovi equilibri internazionali)  ma non certo al conseguimento da parte dei popoli del continente (e della regione di confine) di quella dimensione europea del vivere di cui abbiamo parlato.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021 
Note
[1] Il riferimento è a: Zagato L., L’identità europea come spazio culturale-politico: oltre i limiti della cittadinanza europea?, in Zagato L., Vecco M. (a cura di), Citizens of Europe. Culture e diritti, Venezia, Ed. Ca’ Foscari Digital Publishing, 2015a: 145-184 e Zagato L., Cittadini a geometria variabile, in Id. (a cura di), Introduzione ai diritti di cittadinanza, IV ed., Venezia, Cafoscarina, 2015b: 147-188. Per evitare appesantimenti non verranno riproposti in nota riferimenti a questi scritti; ci si limiterà a richiamarli tra parentesi nel testo con l’inizio dei rispettivi titoli. In caso invece di citazione del contributo di altri autori negli stessi volumi, si provvederà con note, di dimensioni ridotte.
[2] V. Zagato L., Chi ha paura di Faro?, in Dialoghi Mediterranei, n. 47, 1 gennaio 2021 ( nella nota 6, si spiega il perché dell’utilizzo del termine sindemia).
[3] Morin E., Penser à l’Europe, 1987, Parigi, Folio.
[4] Sul punto, diffusamente, Sassatelli M., Becoming Europeans, 2009, Londra, Pangrave MacMillan.
[5] A monte, l’art. 2 TUE stabilisce il divieto di discriminazione, le cui cause sono individuate dall’ art. 19 TFUE come fondate “sul sesso, la razza e l’origine etnica, la religione e le convinzioni personali, la disabilità, l’età e l’orientamento sessuale”.
[6] V. Nicolin S., La cittadinanza europea, in Zagato L. (a cura di), Introduzione .., cit.: 111-125, 111-112.
[7] Stanisoupoulos P., European Citizenship as a Battle of Concepts, in European Journal of Legal Studies, 4, 2011: 74-103.
[8] Besson S., Utzingher A., Towards European Citizenship, in The Journal of Social Philosophy, 39, 2013: 185 ss.
[9] Rigo E., Cittadinanza. Trasformazioni e crisi di un concetto, in Zagato L. (a cura di), Introduzione .., cit.: 11-36, 33).
[10] Braudel F., La Mediterranée, 1985, trad. it. Il Mediterraneo – lo spazio la storia gli uomini e le tradizioni, 2017, Milano, Bompiani.
[11] Va segnalato, in proposito, il tentativo, per certi aspetti commovente, di manipolare la cittadinanza europea onde tentare di garantirne la eventuale prosecuzione del godimento in capo a cittadini britannici (residenti nel continente) dopo la Brexit. Ciò naturalmente è escluso dall’art. 50 par. 3 TUE, per cui i Trattati cessano di applicarsi allo Stati recedente (e quindi ai suoi cittadini) «dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso». Tuttavia la vicenda è significativa, trattandosi di un dibattito, comprensivo anche di percorsi giudiziari temerari, che ha avuto il suo culmine nel 2018-2019. Essa sta a significare quanto radicata, fino praticamente ad ieri, fosse l’illusione nelle élites britanniche più legate al processo di costruzione europeo, di poter, se non bloccare, quantomeno governare e attutire gli effetti del processo di Brexit. V. Garner O., The Existential Crisis of Citizenship of the European Union: the Argument for an Autonomous Status, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 20, 2018: 116-146.
[12] Sul permanere ad es. di discriminazioni di genere anche tra chi gode della cittadinanza UE cfr. Del Re A., Per una cittadinanza europea delle donne, in Costantini D., Perocco F., Zagato L. (a cura di), Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale, Venezia, Ed. Ca’ Foscari Digital Publishing, 2014: 153-166.
[13] Il riferimento è al D.L. n. 52 del 22 aprile 2021, che prevede e disciplina la certificazione verde per Covid-19 (insomma, il Green-pass nazionale). Il garante, individuando subito gravi criticità in relazione ai “pass vaccinali”, emanava il giorno successivo un avvertimento formale al governo. L’aspetto forse più grave è che l’art. 6 del D.L. assumeva come avvenuta la consultazione del garante, cosa assolutamente non rispondente a verità. Il silenzio degli organi di informazione è stato completo, e nel contempo assordante.
[14] In questo momento in cui i Paesi europei hanno massimo desiderio di aprirsi al turismo estivo, il problema appare sfumato. Ove, con l’autunno, il virus tornasse a farsi vivo in termini significativi, le disposizioni del Green pass costituirebbero il parametro di liceità delle misure di controllo prese a livello nazionale.
[15] Sul tema Zagato L., Le nuove forme della persecuzione. Gli effetti sul regime della protezione, con particolare riguardo all’Europa, in Cataldi G., Del Guercio A., Liguori A (a cura di), Il diritto di asilo in Europa, Napoli, Photocity, 2014: 111-138 (in part. l’ultima parte)
[16] V. Mezzadra S., Migrazioni, in Zanini A. e Fanini U., Lessico postfordista, Milano, Feltrinelli, 2001: 206-211, in particolare là dove afferma (210) che il ricorso esclusivo alla nozione di esclusione espone l’interprete ad errori di comprensione «dove sia assunto come riferimento esclusivo per caratterizzare la posizione dei migranti nella società contemporanea». Cfr. anche Sciurba A., Malta, movimenti migratori e contesto internazionale, in Diritto, immigrazione, cittadinanza, 2007: 13-30.
[17] Ivi: 208.
[18] Rawick G., Anni ’30: lotte operaie USA, in Aa.Vv., Operai e Stato, Milano, Feltrinelli, 1972: 135-146.
[19] Cfr Rigo E., Confini e frontiere.  Un discorso sul confine ‘come metodo’ a partire dalla critica del diritto, in Rivista critica del diritto civile, 2013: 485-494, in part. 490: «si pensi a come le gerarchie imposte ai diversi regini di libertà di movimento riconosciuta in Europa a ‘vecchi’ e ‘nuovo’, o ai migranti di Paesi terzi che necessitano o meno del visto di ingresso, si riflettano sulle gerarchie di sfruttamento del lavoro».
[20] Craufurd Smith R., Culture and European Union Law, Oxford, OUP, 2004: 64.
[21] Ibidem.
[22] Transatlantic Trade and Investments Partnership (TTIP). Si tratta di un negoziato iniziato ancora nel 2013, bloccatosi più volte e definitivamente arenatosi a seguito dell’elezione di Trump.
[23] Sui profili culturali/patrimoniali della Brexit cfr. Zagato L., Considerazioni sul rapporto tra Brexit e patrimonio culturale, in Tempi moderni, 11 marzo 2020, http://www.tempi-moderni.net/2020/03/11/considerazioni-sul-rapporto-tra-brexit-e-patrimonio-culturale/. Il tema è affrontato soprattutto nella Parte III (Brexit as Heritage). 
[24] Nelle conclusioni, il PE invita (punti 38 e 39) gli Stati membri e le regioni a promuovere territori, paesaggi e prodotti che costituiscono il patrimonio gastronomico locale e a prendere misure necessarie per tutelare il patrimonio legato alla gastronomia, in particolare “la tutela del patrimonio architettonico dei mercati tradizionali di alimenti, delle aziende vitivinicole, nonché dei macchinari e degli alimenti destinati alla gastronomia.”
[25] Cercas J., Soldati di Salamina, Guanda, 2001. A conclusione di un mirabile processo di ricerca costruito lungo le pagine del romanzo, l’autore giunge a rovesciare l’espressione, coniata a suo tempo dai falangisti, nel suo opposto, individuando il soldato di Salamina, il difensore degli autentici valori europei cioè, nel vecchio, quasi sconosciuto miliziano repubblicano che attraverso varie peripezie egli giunge a intervistare quasi in punto di morte: costui, riparato in Francia alla caduta della Repubblica, era poi entrato nella legione straniera, aveva aderito alla Francia libera di De Gaulle, ed era stato l’autore, ignoto, del primo attacco in Libia ad una base periferica di truppe dell’asse (italiane nel caso), che aveva consentito di innalzare la bandiera del nuovo soggetto politico-militare nello scacchiere africano: «Rividi Miralles <il personaggio>  che camminava con la bandiera della Francia libera sull’infinita distesa di sabbia rovente della Libia, marciando verso l’oasi di .., mentre la gente camminava .. piazza di Francia e in tutte le piazze d’Europa badando ai propri affari, senza sapere che il suo destino e il destino della civiltà dalla quale aveva abdicato dipendeva dal fatto che Miralles continuava a camminare in avanti..».  
[26] Sassatelli M., Becoming Europeans (supra, nota 4): 13.
[27] Così Dolff-Bonekämoer G., The Social and Spatial Frameworks of Heritage – What is New in the Frao Convention?, in CoE (ed.), Heritage and beyond, Strasburgo,  CoE Publishing, 2009: 69-74 (71).
[28] Zagato L., Heritage Communities: un contributo al tema della verità in una società globale?, in Ruggenini M., Dreon R., Paltrinieri G., Verità in una società plurale, Milano, Mimesis, 2013: 103-124. V. anche Pinton S., The Faro Convention, the Legal European Environment, and the Challenge of Commons in Cultural Heritage, in Pinton S. e Zagato L. (a cura di), Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017, Venezia, ed. Ca’ Foscari Digital Publishing, 2017: 315-333; Zagato L., Chi ha paura di Faro?, cit., in Dialoghi Mediterranei, n. 47.
[29] Goisis G., I tre anelli della cittadinanza: nazionale, europea e cosmopolita, in Zagato L., Vecco M. (a cura di), Citizens of Europe .., cit.: 115-147.
[30] Rinoldi D., Cittadinanze: dalle merci alle persone. Collegamenti con lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel diritto dell’integrazione europea al tempo delle mistificazioni, in Costantini D., Perocco F., Zagato L. (a cura di), Trasformazioni e crisi della cittadinanza sociale, Venezia, Ed. Ca’ Foscari Digital Publishing, 2014: 117-150 (in part. 121-122).

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Lauso Zagato, giurista, già docente di Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato anche titolare del corso di Diritti umani e politiche di cittadinanza presso il Corso di laurea specialistica in Interculturalità e cittadinanza sociale della stessa Università. Si è occupato in particolare di problemi legati ai profili internazionali e comunitari della protezione della proprietà intellettuale, di diritto umanitario e di tutela dei beni culturali nei conflitti armati, nonché del patrimonio culturale intangibile e delle identità culturali delle minoranze e dei popoli indigeni. Tra i suoi lavori: La politica di ricerca della Comunità europea (1993); La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato all’alba del secondo Protocollo 1999 (2007). Ha curato il volume collettaneo Verso una disciplina comune europea del diritto d’asilo (2006) e, più recentemente: Le culture dell’Europa, l’Europa della cultura (2012 con M. Vecco); Citizens of Europe. Culture e diritti (con M. Vecco); Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017 (con S. Pinton); Il genocidio. Declinazioni e risposte di inizio secolo (2018); Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale (2019, con S. Pinton e M. Giampieretti). È stato tra fondatori, e poi Direttore, del Centro studi sui diritti umani. Attualmente coordina il gruppo di ricerca su “La difesa del patrimonio e delle identità/differenze culturali in caso di conflitto armato”, che opera sotto l’egida della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace.

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