per la cittadinanza
di Laura Sugamele
Osservazioni introduttive
Nel Novecento, le esperienze e le discussioni politiche si sono caratterizzate per i tratti assolutamente interdisciplinari e trasversali, a più livelli, sulle questioni di genere che, ad esempio, per quanto concerne l’Italia dal 1946, hanno avuto la portata più incisiva intorno al feminist debate dei diritti, convergendo con le lotte dell’emancipazione e dell’acquisizione del voto. A tal proposito, come osserva Barbara Pezzini, lo Statuto albertino, che nei suoi contenuti prevedeva l’estensione del voto, affermava l’uguaglianza davanti alla legge e consentiva:
«le differenze di trattamento stabilite dalla legge (deliberate dal parlamento rappresentativo e dotate di efficacia generale); in materia elettorale la legge, che inizialmente escludeva dalla cittadinanza politica attiva tutti coloro che non possedessero i prescritti requisiti di età (25 anni), di istruzione (alfabetismo), di censo (40 lire), aveva via via incluso categorie di elettori in base a requisiti meno restrittivi, sino alla completa abolizione dei requisiti di censo e istruzione per chi avesse superato i 30 anni (quello che abitualmente ricordiamo con il curioso ossimoro di suffragio universale … maschile)» (Pezzini 2019: 4).
Lo stesso Statuto, tuttavia, non permise tale progressione per le donne, tanto che, nemmeno la proposta di legge del 1867 di Salvatore Morelli, – politico di idee mazziniane e libertarie e anticipatore di posizioni sull’emancipazione femminile con il suo libro del 1869, La donna e la scienza o la soluzione del problema sociale (Morelli 1869) – poté modificare la situazione e addirittura, la relazione per la riforma della legge elettorale della commissione Zanardelli, ribadì l’inappropriatezza del suffragio femminile, pur riconoscendo il valore che, all’epoca, ebbe la petizione promossa da Anna Maria Mozzoni in merito all’estensione femminile del voto.
È appena il caso di sottolineare che, già a partire dagli ideali illuministi della ragione, della libertà e del progresso, tale condizione viene messa in discussione e si rivendica l’inganno di una presunta subalternità femminile, laddove la questione dell’autonomia giuridica, di fatto converge con le battaglie politiche e parlamentari, identificate come uniche ed effettive modalità di riconoscimento per l’acquisizione delle condizioni economiche, professionali e giuridiche delle donne (Pace 2010: 5). All’interno della questione di una conquista dei diritti politici, pertanto, diviene naturale che la ri-definizione giuridica tenda a posizionarsi sul superamento di una “illegittima” ed errata disuguaglianza uomo-donna, travalicamento che conduce ad una nuova coordinata morale, capace di sancire una sostanziale idoneità politica delle donne.
D’altronde, la critica femminista – sin dalle sue originarie istanze teoriche – si è focalizzata sul dibattito della cittadinanza relativamente all’accesso ai diritti civili, sociali, economici e politici, ossia rispetto a tutto ciò che concerne, sino ad oggi, l’ambito del gender capacity e delle sue dilatazioni nel gender mainstreaming. Ed è partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, che la prassi politica femminista ha sviluppato una prospettiva della “differenza”, la quale, si è definita in corrispondenza ad una concettualizzazione “sessuata” della cittadinanza. A questo proposito, secondo Elena Poddighe, il superamento
«della concezione androcentrica e maschilista, pertanto, poteva essere attuato soltanto in una prospettiva che muovesse dalla donna, non in un rapporto di inferiorità o superiorità rispetto all’uomo, ma soltanto in quanto tale, come essere umano dotato di peculiarità e caratteristiche proprie, così come l’uomo è dotato delle sue. Non diversa dall’uomo, ma essere autonomo e peculiare […] In questa prospettiva la donna, storicamente ‘sesso debole’, analogamente ad altri soggetti tradizionalmente considerati ‘deboli’ e pertanto bisognosi di un’attenzione particolare – quali i minori, le minoranze etniche, linguistiche, i soggetti che necessitano di particolari cure –, viene presa in considerazione in quanto soggetto che, portatore di un diritto della personalità fondamentale, quale quello della dignità umana, deve essere tutelato e protetto in quanto tale» (Poddighe 2018: 22-23).
In tali termini, la connotazione del concetto di cittadinanza è gendered giacché, sia l’esclusione storica delle donne che le caratteristiche della loro inclusione sociale, intrinsecamente, sono connesse a presupposti di genere e anche gli argomenti adoperati con il fine di giustificare l’esclusione delle donne, nel tempo, sono stati trasferiti in intricate essenzializzazioni categoriche di qualità maschili e femminili divergenti, in relazione a due specifici costrutti: da una parte, l’individuo astratto e titolare della cittadinanza; dall’altra, il soggetto-oggetto femminile le cui “qualità riproduttive” sono considerate come inconciliabili ed incompatibili con l’esercizio della cittadinanza (Lister 1997: 69). Sempre Poddighe aggiunge che la tutela
«della dignità femminile poggia sulla conclusione che la donna non debba essere uguale all’uomo, ma che ad essa debbano – al contrario – essere riconosciuti diritti, prerogative e facoltà differenti rispetto a quelli propri del genere maschile […]. Il riconoscimento della dignità dell’essere umano di sesso femminile consente, esemplificativamente, di tutelarne il corpo in quanto tale, a prescindere dai riverberi che la sua violazione può avere sulla morale o l’ordine pubblico. Così l’inviolabilità del corpo femminile, il divieto di molestie o violenze verbali, fisiche o sotto qualsiasi altra forma, esistono in quanto offese alla dignità della donna; il diritto all’inviolabilità del corpo femminile riguardo al reato di stupro, alla violenza sessuale e alla pornografia; il diritto all’aspettativa per la maternità, la tutela della maternità, l’ausilio nella cura dei figli, tanto sul lavoro quanto sul piano sociale vengono riconosciuti in quanto parte della dignità dell’individuo-donna che assolve la funzione materna, e che per questo non deve essere pregiudicato nelle sue aspirazioni e aspettative di svolgimento di un ruolo politico, pubblico o professionale da pre-concezioni qualificabili come ‘sessiste’» (Poddighe 2018: 23).
I diritti delle donne tra criticità e complessità
Il tema dei diritti sociali diventa dunque una parte centrale nella questione dello status di cittadinanza ed è così strettamente concatenato ad una prospettiva di genere, la cui portata, davvero significativa, è quella di mettere in discussione il valore universale del concetto stesso di “diritto” sociale, dal momento che, come sottolinea Thomas Marshall (Marshall 1963), il carattere “sessuato” è presente negli stessi concetti di autonomia, dipendenza e acquisizione dei diritti.
In tal senso, proprio il discorso sui diritti femminili – e su tutto ciò che incide sul piano della tutela – certamente, ha ricevuto un decisivo impulso, soprattutto negli anni Novanta, con l’impegno adempiuto dalle Nazioni Unite in favore della protezione delle donne; peraltro, è necessario rilevare che, i riflessi di questo impegno, sono evidenti sotto il profilo di una più attenta sensibilità che, a livello internazionale, si è determinata in relazione ad una codificazione e ad un riferimento delle problematiche femminili entro l’ambito normativo della soft law (Degani 2001: 5). Oltre a questo, non si possono non citare le Strategie quadro per la parità tra donne e uomini del 2000, adottate dall’Unione Europea, il cui merito è stato quello di garantire l’uguaglianza tra i generi e la tutela da ogni tipologia di atti volti alla discriminazione (Pace 2010: 134).
Il discorso sui diritti e l’autonomia, naturalmente, ne apre un altro rivolto ad enfatizzare la posizione delle donne – come quella delle minoranze etniche, delle persone con un diverso orientamento sessuale, o di quelle che hanno bisogno di cure – la cui condizione economica e sociale deve essere considerata con un riferimento alle disuguaglianze, relativamente ad un “accaparramento” delle risorse[1], situazione determinante di una “vulnerabilità” sociale indotta, poiché effetto e conseguenza di una ineguale suddivisione, ripartizione e distribuzione delle condizioni economiche essenziali per “esistere” politicamente. Va chiarito che, quando si parla di vulnerabilità, il termine viene inteso nel riferimento al grande rimosso compiuto dalla tradizione liberale, sul piano politico, filosofico e del diritto moderno (Fanlo Cortés, Ferrari 2020: 2).
Joan Tronto, voce autorevole della politologia e degli studi di genere, con il suo libro Moral Boundaries. A Political Argument for an Ethic of Care del 1993, si inserisce pienamente nel quadro di una rivisitazione critico-analitica dei paradigmi dominanti ed egemoni (quali il principio di autonomia), prevalentemente strutturati attorno al paradigma della razionalità individuale, soggettiva e maschile, incapace di includere la “differenza” femminile all’interno di tale scenario. In tal senso, secondo Tronto, la discussione sulle criticità e sulle contraddizioni che tendono a connotare l’autonomia, impongono la necessità di affrontare il “dilemma” della differenza alla luce di una rivisitazione delle teorie classiche, capace di dare ampio spazio ad una teoria giusfemminista, intesa come interazione tra le correnti del diritto.
Questa apertura di ampio respiro, conduce ad una critica di quel “mito” dell’autonomia, proponendo invece una politica della dinamicità partecipativa, sia per quanto riguarda la cittadinanza, sia in relazione alle riflessioni sul welfare state, mettendo in evidenza come, per esempio, il diritto che ognuno ha di poter soddisfare le proprie esigenze di cura o di prestare cura, sia centrale non solo per le donne, bensì per tutti gli individui, in quanto tale realizzazione è parte integrante di una concezione della cittadinanza sociale (Casalini 2012: 226). Così, la categoria della vulnerabilità, che afferisce ad un pensiero attinente femminismo ed ecofemminismo, prendendo soluzioni distanti da quelle forme capitalistiche e neocapitalistiche oppressive sulle esistenze dei singoli individui, introduce la questione urgente che è quella di incrementare l’ingresso delle donne nel lavoro, questione che, in considerazione dell’ambito del care deficit, esige in maniera ancora più doverosa di incrementare un’etica della cura come atto centrale per la realizzazione di una società “buona” (Casalini 2012: 226).
Orizzonte della vulnerabilità “positiva” e riconoscimento multiculturale
Nei termini precedentemente sostenuti, si presuppongono allora le condizioni per determinare che la vulnerabilità possa essere intesa come termine concettualmente liberatorio, laddove alcuni autori[2] intravedono nella categoria una caratteristica intrisa di forza e apertura radicale alla fragilità umana ed interiore, vulnerabilità che non rinvia a chiusura ma che, invece, porta con sé gli effetti di un modello alternativo volto alla comprensione delle discriminanti culturali, sociali, economiche, giuridiche e politiche, le quali costituiscono aspetti connaturati alla stessa vulnerabilità e che consentono di rimodellare la soggettività femminile su una nuova umanità volta a riconoscere ed incorporare tale vulnerabilità (Casadei 2018: 85). La vulnerabilità, come scrive Thomas Casadei,
«non rimanda a un concetto solido e compatto, ma a qualcosa di più “morbido”, di modulabile, a qualcosa di plurale e differenziato, che, strato dopo strato, può appesantirsi o alleggerirsi. Questo permette di evitare etichettature, che conferirebbero alla vulnerabilità l’idea di qualcosa di permanente e immutabile e, soprattutto, evita i rischi di una tassonomia che include o esclude singoli o gruppi in modo troppo rigido. […] La vulnerabilità può presentarsi pertanto, assumendo consapevolezza di questa dimensione contestuale, come la premessa per un nuovo umanitarismo centrato sulla persona umana non più intesa come individuo isolato, ma come soggettività in relazione, interconnessa e interdipendente, situata in contesti e entro dinamiche di riconoscimento, oltre che di distribuzione e allocazione di beni. Il tema del riconoscimento è collegato direttamente alla rivendicazione dei bisogni sociali ma anche alla loro traduzione in diritti effettivi» (Casadei 2018: 83-84).
In questa linea, uno dei tentativi di definizione “positiva” della vulnerabilità, è quello attuato dalla filosofa politica Martha Albertson Fineman, la quale propone la vulnerabilità quale principale condizione per una sostanziale eguaglianza, in base a cui il “bisogno” viene attribuito a coloro che sono meritevoli di solidarietà, finalità che dovrebbe essere garantita dallo Stato (Callegari 2018: 7). In questa prospettiva, la categoria va ripensata travalicando i concetti di genere e identità, sviluppando una idea di vulnerabilità affine alla philia, dunque finalizzata al riconoscimento e al sostegno reciproco, una vulnerabilità intesa come condizione universale e condivisa dell’essere umano.
Fineman, in tal senso, suggerisce un approccio alla vulnerabilità, non centrato su specifici individui, piuttosto che su determinanti gruppi, diritti umani e civili, quanto invece su una capacità di richiamare l’attenzione sui non trascurabili aspetti della vita che, in quanto essere umani, dovremmo condividere, ossia le leggi e le strutture sociali sottostanti, le quali andrebbero sempre fondate sulle relazioni umane, poiché sono queste che, realmente, presuppongono l’organizzazione della società influenzando la vita di coloro che ne fanno parte (Fineman 2019: 342). Sono quindi le relazioni umane che riflettono i valori, le norme e le aspettative degli individui nelle loro interconnesse e reciproche interazioni. Come sottolinea Maria Giulia Bernardini:
«la vulnerabilità non è più considerata esclusivamente nei termini di una hobbesiana esposizione alle azioni altrui o ad eventi esterni non dipendenti dalla propria volontà, ma è inserita all’interno della struttura ontologica del soggetto. Per tale via, invero, la fragilità e la finitudine dell’esistenza assurgono ad aspetti non eliminabili dell’umanità, e ad esse si lega quella dipendenza che – intesa come espressione della condizione stessa di vulnerabilità – contribuisce a dispiegare l’orizzonte della costitutiva relazionalità del soggetto. Sotto l’espressione “modello relazionale”, in realtà, possono essere rubricate posizioni teoriche anche assai eterogenee, accomunate dal fatto di puntare alla rivalutazione delle relazioni attraverso il ripensamento di una soggettività che – appunto – è contrassegnata da esposizione, vulnerabilità e dipendenza» (Bernardini 2015: 196-197).
Nei termini delineati da Martha Fineman, il concetto di cittadinanza – dal latino civis che vuol dire “cittadino” e dall’autrice identificata nell’accezione di cittadinanza attiva –postula il concetto di “appartenenza” e condivisione. Analoga posizione è quella esposta dalla filosofa turco-statunitense Seyla Benhabib, interessante e raffinata voce del dibattitto sulle differenze e sul multiculturalismo, il cui pensiero è di grande rilevanza nel discorso sulla cittadinanza che, secondo la filosofa, si definisce nella consapevolezza dell’identità dell’altro, laddove con “consapevolezza” si intende la comprensione della cultura dell’altro e i due termini, dunque, sono complementari ad una “produzione narrativa negoziata”.
Nel saggio La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale (Benhabib 2005), inserendosi nelle discussioni politiche sul multiculturalismo, guardando in particolare alla prospettiva della cittadinanza quale appartenenza collettiva e di riconoscimento delle identità, razza, genere, etnia, lingua e orientamento sessuale, Seyla Benhabib sottolinea l’importanza del claim of culture, ossia, di una rivendicazione delle culture, il cui significato si riferisce ad una visione “narrativa” della cultura che consenta di riconoscere le culture “altre” come differenti, ma, pur sempre, uguali alla nostra, all’interno di un processo dinamico che si pone come “tensione” tra una continuità culturale e una inclusione democratica. D’altra parte, si tenta di non scivolare – osserva Benhabib – in una cristallizzazione dell’ibridità che, alla fine, produce una certa difficoltà, che è quella di non essere in grado di individuare una cultura da un’altra e di dotare di reale sostanza l’inclusione (Benhabib 2006: 384).
In tal modo, la concezione del riconoscimento multiculturale si pone in connessione con una prospettiva dell’anti-subordinazione, la quale consente di pensare la “differenza” identitaria, culturale, di genere, in modo del tutto originale. Rivolgendosi alle strutture sociali determinanti delle asimmetrie sociali, culturali ed economico-politiche, la definizione dell’uguaglianza, quindi, non può procedere nella direzione di una politica orientata soltanto all’eliminazione delle discriminazioni eventualmente presenti e a carico di persone con diversa etnia, razza, lingua o delle donne, in quanto dovrebbe essere presa invece, come riferimento principale al fine di rimuovere qualsiasi forma di subordinazione sociale (Pezzini 2019: 11).
Nella questione si inserisce il tema delle donne immigrate, le quali rappresentano, con la loro “presenza”, di fatto, uno stimolo concreto per il ripensamento delle categorie e dei limiti teorici del cosiddetto “femminismo occidentale”, alla luce di una prospettiva attenta al riconoscimento delle differenze, ma che sia anche capace di sollecitare una considerazione accurata e di carattere globale verso tutte quelle forme di discriminazione. In effetti, proprio il “dare” una maggiore attenzione alle diversità culturali, permette di comprendere che tali diversità possono congiungersi fra loro, aumentando e rafforzando le stigmatizzazioni sociali (Lunghi 2003: 18). Nell’aspetto qui considerato, si colloca il pensiero dell’antropologa Françoise Héritier (Héritier 2019) la cui posizione sulla differenza femminile-maschile, sia nei sistemi sociali chiusi sia in quelli aperti, ha consentito nell’ambito degli studi di genere ad una revisione prospettica rispetto a ciò che è differenza, disuguaglianza o discriminazione, sul piano corporeo e linguistico, dato che la riflessione umana ha da sempre esercitato le sue attenzioni attorno al corpo, parametro immediato e diretto di valutazione (Fabietti 2015: 184-185).
Come si è sottolineato, questo ri-direzionamento del concetto di cittadinanza, in una chiave di lettura attiva e multidimensionale, fa in modo che vi sia un riconoscimento del multiculturalismo, il quale, posto in convergenza all’interculturalismo, permette di garantire coesione e uguaglianza nelle società diversificate culturalmente. John Cogan e Ray Derricott (Cogan, Derricott 1998) hanno formulato un approccio di cittadinanza partecipativo e multidimensionale, capace di “guardare” attentamente e in modo globale ai problemi, laddove “guardare” – in linea con Fineman e Benhabib – riconduce ad un elevato senso di assunzione di responsabilità, relativamente alla comprensione e alla valorizzazione delle differenze culturali (Sicurello 2016: 78).
Come propone Joan Tronto, si tratta di una cittadinanza che – per essere tale – va concepita in termini di azioni concrete ed effettive: «democracy is about assigning caring responsibilities» (Tronto 2013: 31). In quest’ottica, il concetto di cittadinanza coincide con quello di cura, quest’ultimo da intendere come volto ad un ripensamento dei valori, i quali vanno rimodulati in funzione del “dare” sostegno alla vita, poiché il concetto di cura – al di là, della sua connotazione specifica ed interna all’ambito della bioetica – nelle intenzioni di Tronto, nelle modalità del “prendersi cura”, del “prestare cura a” e del “ricevere cura”, si apre ad una dimensione democratica e politica della cura, collegandola di fatto alla cittadinanza, nel momento in cui il ripensamento di tale nozione si realizza pienamente in un equilibrio fra doveri e diritti dei cittadini (Paternò 2021: 192).
Nella delineazione teorica di Tronto, il valore pubblico della cura è di indubbia rilevanza per la teoria politica democratica che, pertanto, non può prescindere dalla cura stessa, se non vuole rimanere incompleta e distante dai cittadini; al contrario, le questioni politiche arricchite dell’approfondimento di tale comprensione, «renderebbero immediatamente evidente la loro connessione con la qualità della vita di tutti e di ciascuno» (Paternò 2021: 195). Il risultato di questo approccio inclusivo delle “differenze” – con uno sguardo ai diritti di genere – è quello di rafforzare il loro riconoscimento e inserimento nelle “maglie” dell’appartenenza intesa come “attecchimento” della diversità, quale unicità culturale, nei princìpi della democrazia e della libertà.
Etica della cura e cittadinanza. Conclusioni
Il “prisma” della cura consente di trasformare la critica dell’individualismo liberale con un’attenzione verso una realtà dell’interazione e dell’interrelazione di diverse inquadrature di genere, razza, classe, nell’intento di fornire un’immagine olistica che si contrappone alla chiusura comunicazionale e che si apre, invece, alla reciprocità.
A essere rilevante nell’ottica della cura è, quindi, il rispetto dell’altro e dei diritti individuali, dato che la sua intrinseca articolazione si esplica non come emozione o disposizione, piuttosto quale pratica che spinge a prendersi cura di qualcuno, ossia ad assumere con responsabilità un comportamento determinato. In questi termini, la responsabilità diventa fulcro di una configurazione sociale connotata da una forte partecipazione democratica, nel momento in cui le pratiche di cura, sostegno e – per inciso – di responsabilità, vengono interiorizzate nella loro sostanza partecipativa, quale fondamento della formazione democratica.
L’etica della cura, così rimodulata in termini politicamente rilevanti, viene ad essere ancorata agli stessi contenuti della cittadinanza che, in tale delineazione, consiste nella “cura di sé” e nella “cura degli altri”. La configurazione della cura come concezione completa ed integrale, sia sul piano politico che su quello morale, di fatto la connota di una caratteristica pratico-pubblica, la quale protende per la costituzione di valori essenziali e contestuali ai bisogni del cittadino. Da qui il ripensamento di quelle consolidate strutture di potere, di cui il patriarcato costituisce il “substrato”.
Da questo punto di vista, l’etica della cura come etica di riflessione su ciò che concerne la persona umana, in tutte le sue possibilità, integra la prospettiva sui diritti in relazione ai mutamenti che hanno alterato, piuttosto che rivoluzionato, i legami sociali con ricadute sul piano politico-istituzionale. In quest’ottica, la cura non sembra necessariamente legata al genere, in quanto la sua dimensione sembra estendersi alla politica e ad una riflessione critica sul potere che ad essa sottintende.
Per di più, la dimensione della cura, quale “mutua dipendenza” e “interdipendenza”, proprio per tale caratteristica è strumentale alla consapevolezza dei nostri limiti: per il modo in cui “io mi relazione con l’altro” e la complessità relazionale, nel caso in cui il discorso si rivolga a donne, disabili, persone di colore, anziani non autonomi, si rivela in tutta la sua espressività, nel momento in cui, siamo “noi” che in concreto ci confrontiamo con una determinata esistenza, esistenza che rimanda ad un orizzonte sociale, culturale, economico nonché religioso, il quale, a sua volta, può influire sulla comunicazione. In tal modo, lo statuto relazionale che connota la cura, conduce a definirne lo spessore etico sulla base dell’attenzione prestata da “chi ascolta” nei confronti di colui/colei che “sta raccontando di sé” ed è tale aspetto che, dunque, tende a trasformare la comunicazione in una dimensione intrinseca all’empatia. A questo proposito sono di rilievo le parole di Simone Weil:
«Attention consists of suspending our thought, leaving it detached, empty, and ready to be penetrated by the object; it means holding in our minds, within reach of this thought, but on a lower level and not in contact with it, the diverse knowledge we have acquired which we are forced to make use of. Our thought should be in relation to all particular and already formulated thoughts, as a man on a mountai who, as he looks forward, sees also below him, without actually looking at them, a great many forests and plains. Above all our thought should be empty, waiting, not seeking anything, but ready to receive in its naked truth the object that is to penetrate it» (Weil 1951: 111-112).
Per come viene enunciato dalla filosofa e scrittrice francese, l’attenzione – in quanto legata alla capacità di relazione e comunicazione – consiste nell’atto intenzionale di sospendere il pensiero, quindi i pregiudizi, i preconcetti, gli schemi concettuali acquisiti che possono alterare la comunicazione con l’altro.
È a partire dall’illuminismo, che il progetto della modernità è stato diretto al tentativo di eliminare dalla società ciò che concorre a “creare” vulnerabilità; dalla malattia alla morte sino alle problematiche sociali ed economiche, tentando di ridurla a qualcosa di contingente e di removibile attraverso il progresso scientifico. Al contrario, l’attuale formulazione della vulnerabilità, in connessione alla dimensione relazionale della cura, sostanzialmente rappresenta il riconoscimento degli errori e dei limiti del progetto illuministico della ragione, in quanto la vulnerabilità non può essere eliminabile, poiché fa parte della stessa natura umana. In tali termini, pervenire ad un ripensamento critico della capacità indiscussa e determinata dal progresso sociale e scientifico richiama, quindi, l’attenzione su un analogo ripensamento della vita politica e morale laddove, in conclusione, queste notazioni conducono ad aprire delle riflessioni in merito alla presenza politica delle donne, la cui “presenzialità” è definita nella possibilità concreta che ogni persona ha di comunicare ed esprimere,
«la propria ricerca di “senso”, la propria vitalità identitaria ed espansiva, la propria capacità di trascendere l’empirico per significare il mondo e dunque l’apertura al mondo, è pur vero che la ricerca di autonomia espressiva è anche richiesta di legami di “senso”, un costante e implicito appello agli altri per comunicare la propria identità e forza vitale e dunque la propria vulnerabilità, il proprio bisogno di ‘cura’ che è innanzitutto bisogno di “riconoscimento» (Savona 2019: 336).
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Note
[1] Da Françoise d’Eaubonne, Sherry Ortner, Susan Griffin, Carolyn Merchant, e anche in autrici come Maria Mies e Silvia Federici, il concetto di “accaparramento”, quindi considerato nell’ambito della teoria politica femminista, dell’ecofemminismo, oltre che del femminismo post-coloniale, viene ricondotto ad una oppressione che, dal corpo femminile, viene fatta convergere con lo sfruttamento della terra e della natura.
[2] Come Hélène Cixous ed Emmanuel Lévinas.
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Laura Sugamele, dottoressa di ricerca in Studi Politici (Università “La Sapienza”), i suoi interessi di ricerca si rivolgono agli studi di genere, filosofia politica, storia del pensiero femminista con un focus sullo studio del femminismo postcoloniale. È autrice di Bioetica e femminismo. Rivisitazione dell’etica dei principi e sviluppo della competenza dell’autonomia (Stamen 2016) e Percorsi e teorie del femminismo tra storia, sviluppi e traiettorie concettuali (Aracne 2019).
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