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C’era una volta un’isola. Un libro per dieci millenni

9788858144497_0_350_0_75di Pietro Clemente 

Luciano Marrocu ha un’attività poliedrica: è docente universitario, autore di libri e di saggi di storia oltre che scrittore di letteratura di vario genere. Le prime cose sue che ho letto erano libri gialli ambientati a Roma in cui il protagonista era un carabiniere sardo. Nel filone letterario è stato uno degli interpreti della nouvelle vague degli scrittori sardi anni Novanta. Scrittori che, talora già in età, si sono cimentati nella scrittura per passione e – in prevalenza – come secondo mestiere in un clima vivacissimo che ha lasciato il segno.

I miei studi riguardano l’antropologia e quindi non sono un lettore sistematico di libri di storia. Riconosco che è un grave difetto non solo mio ma dell’accademia che lavora a compartimenti stagni, fenomeno che si è accentuato lungo e dopo gli anni Ottanta, dopo la fine delle ‘grandi narrazioni’.

Nel 1997 partecipai al Convegno sui Falsi d’Arborea, promosso proprio da Luciano e fu allora che ebbi modo di capire che le sue scritture storiche erano per me preziose e di grande interesse. Nei suoi scritti sulla Sardegna ho ritrovato i protagonisti di vicende della storia sarda che davano i nomi ad alcune vie di Cagliari dove avevo abitato senza mai pormi, colpevolmente, il problema di chi fossero. Nella mia attività mi sono spesso avvalso delle sue scritture originali, e talora audaci, per orientarmi su varie questioni. In occasione de Sa die de sa Sardigna ho tenuto una relazione al Circolo dei Sardi Peppinu Mereu di Siena, dove ho tratto il racconto di fondazione da un suo ampio saggio [1]. Saggio che dimostra che le classi dirigenti sarde che protestavano si erano formate attraverso l’Università e le cariche pubbliche, e dove, tra l’altro, si racconta che i francesi erano sbarcati nel 1793 al Margine Rosso sulla costa di Quartu [2], luogo dove mio padre – del tutto inconsapevole di ciò – aveva acquistato nel 1967 una striscia di terra e costruito una casetta che ancora oggi frequento con figlie e nipoti e dove recentemente è apparso il cartello Mraxini arrubiu.

9788868435639_0_536_0_75Luciano Marrocu ama avere una mappa larga di conoscenze, di saperi e di confronti per meglio orientarsi. Ho partecipato al volume da lui curato Sardegna contemporanea, in cui mi è stato attribuito l’arduo compito di parlare dal punto di vista antropologico della Costa Smeralda, compito che ho accettato un po’ per sfida e un po’ perché Luciano confidava che potesse uscire un buon lavoro. Questo perché Luciano apprezza molto le incursioni fuori dai confini, come nella figura ‘simbolica ’ della volpe, citata dall’antropologo americano Clifford Geertz. Ne è un esempio il suo bel racconto Deledda. Una vita come un romanzo (Donzelli, 2016) a mezza via tra storia della cultura e romanzo. Negli ultimi anni Luciano non ha mai smesso di scrivere, quasi fosse una condanna o al contrario uno stato di grazia dal quale non può uscire. Ci si potrebbe costruire un racconto.

Quando ho saputo che era intenzionato a scrivere una Storia popolare dei sardi e della Sardegna, mi sono domandato come avrebbe potuto affrontare in un solo libro la preistoria, il mondo nuragico, e poi Eleonora d’Arborea, la rivoluzione sarda di fine Settecento, i moti de Su connottu, Lussu e la brigata Sassari, i Berlinguer fino al 2000: luoghi del tempo tra loro lontanissimi ma che toccano grandi mitologie dei sardi e della loro isola.

Per la verità va detto che Marrocu non è nuovo a questo genere di sfide perché già nel 2019 aveva pubblicato La sonnambula. Italia nel Novecento (Laterza, 2019), un libro che abbracciava un intero secolo. Mi domandavo se sarebbe stato possibile trovare la giusta misura per un libro che avrebbe dovuto descrivere diversi millenni. L’impresa è stata audacissima ma è riuscita. A pagina 1 scrive: «La svolta si ebbe alla fine del X millennio a.C.». Il volume che scorre i millenni successivi finisce con queste parole:

«È anche attraverso lo studio della storia che una comunità può riconoscersi come tale. Rispettare il passato, riconoscerne l’alterità, liberarlo dal mito, è il compito, appassionante e difficile, degli storici. Ed anche ciò a cui vorrebbe contribuire questo libro».

9788858136157_0_536_0_75L’autore, insomma, è riuscito nel suo intento grazie alla sua grande esperienza di scrittura storica e di comunicazione tramite la scrittura. Il libro infatti non è popolare nel senso di narrativo o di facile lettura. Anzi non si tratta di un libro semplice, ma è popolare nel senso di mettere a disposizione dei sardi (che da sempre lamentano di essere collocati dagli storici in spazi subalterni) e dei lettori italiani e stranieri, un racconto unitario, un unico libro, in cui anche le cesure e le contraddizioni sono contenute all’interno delle pagine di un’opera. Il lavoro di Marrocu ha una missione specifica: «non mi sono assunto il compito di celebrare (ma in fondo neppure quello di respingere) una visione in chiave nazionale della storia sarda, bensì di esercitare intorno ad essa un approccio critico».

Il libro ha una struttura unitaria ed è scritto tenendo conto della saggistica più recente e accreditata nei vari settori che hanno attraversato la vicenda sarda. Si va dalla paletnologia, all’archeologia, alla storia fino alla linguistica e all’antropologia, non trascurando la narrativa che viene assunta come un pezzo significativo della storia sarda recente. A questo proposito si vedano le pagine dedicate a Giulio Angioni tra studi antropologici e scritture romanzesche. Il racconto dei primi millenni e della storia dell’età nuragica attinge a testi assai specialistici, messi in condivisione e in comunicazione sintetica. Così succede per tutto il testo fino alle età studiate da Marrocu direttamente.

A mio avviso il risultato è veramente apprezzabile perché il libro garantisce il lettore dalle esagerazioni del dilettantismo ideologico auto centrico che circola spesso nell’Isola, e al tempo stesso offre una lettura di prima mano della ricerca storica, senza escludere il tema ‘identitario’. Del resto sulla questione del sardo-centrismo Luciano si era già addentrato nel bel saggio L’isola delle storie (in Cartas de logu. Scrittori sardi allo specchio, Cuec 2007), a partire dal commento al libro di Nereide Rudas L’isola dei coralli (Carocci 1997).

9788884676252_0_536_0_75Approfittando del PDF che consente di trovare la frequenza dei lemmi in un testo, noto che alcuni luoghi classici della narrazione sarda come Eleonora d’Arborea, Amsicora (qui Hampsicora), Ospitone, Su connottu e le chiudende, non hanno grande rilevanza, sono poco presenti. Eleonora d’Arborea ha un numero più basso di riscontri che Mariano IV, Ospitone è citato una sola volta, Hampsicora in appena due pagine. Non ci sono ‘tancas serradas a muru’ e c’è un solo riferimento alle ‘chiudende’. Una certa importanza viene attribuita invece a Giovanni Maria Angioy (trattato in ben 12 dense pagine con 52 riferimenti singoli) e quasi lo stesso rilievo viene dato a Emilio Lussu. Al “cattivo” Giovan Battista Lorenzo Bogino, quello di ‘Boginu t’impicchidi’, viene riconosciuto invece un impegno riformatore antifeudale. Graziano Mesina, uno dei ‘cattivi’ sardi più popolari, non è menzionato, e nemmeno il lemma ‘Orgosolo’ è presente. Si potrebbe continuare a studiare le frequenze come indizio delle predilezioni dell’autore ma è chiaro che i capitoli più densi di Marrocu sono quelli a cui ha dedicato gran parte dei suoi studi, che riguardano la Sardegna tra modernità e contemporaneità.

Sul piano del metodo Marrocu fa sue tutte le coniugazioni della storia e della storiografia, sia attraverso il racconto degli avvenimenti (‘l’histoire événementielle’) sia attraverso la storia sociale e culturale, sia attraverso quella giuridica e istituzionale dei gruppi dirigenti, non trascurando tuttavia e anzi dando spazio ai riti arcaici degli antenati, ai tempi lunghi e agli aspetti simbolici, e insieme depotenziando i luoghi mitologici e mescolando le scritture specialistiche in una offerta unitaria. Si può dire che al centro del suo sguardo non c’è il mondo dell’immaginario della Sardegna pastorale [3], bensì le città, le istituzioni, gli scambi, i passaggi. A dimostrazione di ciò, si nota che la città di Sassari ha 106 frequenze, Cagliari 91 (105 con Karalì, Caralis e Krly), Oristano 35 e Nuoro 18.

La Sardegna nasce come un altrove ed è vista fino dall’inizio come uno spazio di transiti, di incontri, di ibridazioni:

Giovanni Maria Angioi

Giovanni Maria Angioy

«La svolta si ebbe alla fine del X millennio a.C. – quindi già ben dentro la stagione dell’Homo sapiens –, quando gruppi umani sbarcarono in Sardegna insediandosi non lontano dalla costa in siti che presto abbandonarono o comunque abitarono senza continuità: si trattava di popolazioni dedite alla caccia di piccoli mammiferi, alla pesca di pesci di taglia modesta, oltre che alla raccolta di vegetali… Una costante presenza umana in Sardegna ebbe inizio solo quando l’isola venne toccata dall’ondata migratoria che, partita dalla Mezzaluna fertile del Vicino Oriente, attraversò tutto il Mediterraneo».

D’altra parte già in altri testi Marrocu considera che il tema dell’autonomia sarda sia da collegarsi agli anni della rivoluzione sarda di fine ‘700 piuttosto che al periodo giudicale o alle rivolte popolari contro la Legge delle chiudende. Per me questa è stata una piccola lezione di storia antipopulista. Le ribellioni che hanno una missione istituzionale non si ispirano solo alle rivolte o alla nostalgia di una giustizia arcaica antecedente alle leggi dello Stato moderno, ma alla capacità di gestire la complessità e di formare gruppi dirigenti. Da questo punto di vista è chiaro che nella vicenda sarda furono molto più importanti le Università che formarono quadri giuridicamente e culturalmente consapevoli e di ampi orizzonti che non le rivolte dei pastori (di ieri e di oggi). La figura di Giovanni Maria Angioy ne è una sintesi. Le implicazioni di questa riflessione sono ancora questioni aperte. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] Luciano Marrocu, Procura d’ ‘e moderare. Racconto popolare della rivoluzione sarda, Cagliari, Aipsa; 2014
[2] «Tra il 13 e il 14 febbraio, dopo un furioso cannoneggiamento, lo sbarco ha inizio. I soldati francesi prendono terra nel litorale di fronte a Quartu, in un tratto di spiaggia che allora come oggi 45 viene chiamato Margine rosso. Protetti dai cannoni delle navi, gli assalitori possono rafforzare una prima testa di ponte con relativa tranquillità». Ivi.
 [3] Mi viene in mente la presentazione che Gianfranco Cabiddu fece ai miei studenti romani del suo film Il figlio di Bakunin: «il primo film sulla Sardegna senza pecore».

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.

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