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Aporie della dottrina e verità del Cristianesimo

copertinadi Augusto Cavadi

Nel dibattito su Monoteismi e dialogo promosso e ospitato da “Dialoghi Mediterranei” (disponibile ora anche in cartaceo presso l’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, Mazara del Vallo 2017, pp. 219) alcuni di noi abbiamo sottolineato la necessità imprescindibile di un’autocritica (teologica e non solo storico-pratica) da parte delle grandi tradizioni monoteistiche ai fini di un possibile dialogo costruttivo.

Mi pare importante aggiungere che quest’opera di revisione, anche radicale, delle traduzioni dottrinarie della fede in un Dio unico è anche ai nostri giorni in corso: anzi, ai nostri giorni in una misura del tutto inedita rispetto ai secoli precedenti (dove pure i grandi pensatori hanno sempre cercato di rendere comprensibile ai propri contemporanei il nocciolo del messaggio religioso tramandato). Tale impresa, coraggiosa perché rischiosa, viene portata avanti da ebrei e cristiani più che in ambito islamico. E qui vorrei segnalare un episodio attuale e istruttivo che riguarda la tradizione cristiana cui, se non altro anagraficamente, appartengo.

Quando lessi i primi libri di teologia, nella seconda metà del secolo scorso, li trovai estremamente noiosi. Si partiva da tesi dogmatiche (formulate come indiscutibilmente certe dal magistero cattolico) e se ne ricercava, più o meno forzatamente, la legittimazione sia nella Scrittura che nella Tradizione ecclesiale. Più animate le pagine dei teologi protestanti che preferivano, soprattutto da Barth in poi, partire dalle inquietudini esistenziali diffuse per arrivare alle risposte bibliche: comunque, in genere, anche queste narrazioni avevano l’happy end assicurato. La situazione è mutata considerevolmente negli ultimi decenni. Sono sempre più frequenti i teologi che navigano a vista, senza sapere in partenza dove è previsto – anzi obbligatorio – approdare. Certo, in questi casi, le Chiese stentano a riconoscerli come teologi: se così vogliamo continuare a chiamarli, dobbiamo pensare alla teologia di Aristotele o di Plotino, di Cartesio o di Schelling, più che alla teologia di Tommaso d’Aquino o di Hans Urs von Balthasar. Sono infatti pensatori senza vincoli prestabiliti e senza reti protettive, più simili a filosofi che ad avvocati delle ortodossie.

Tra questi nuovi teologi-filosofi va annoverato senz’altro il vescovo episcopaliano John S. Spong, autore di Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo. Perché muore la fede tradizionale e come ne nasce una nuova, a cura di don Ferdinando Sudati (Massari, Bolsena 2010). Sulla scia di Dietrich Bonhoeffer e soprattutto di John Arthur Thomas Robinson (autore di Honest to God del 1963, tradotto due anni dopo in italiano col titolo Dio non è così dalla Vallecchi di Firenze) egli parte da una confessione personale che è anche l’enunciazione a voce alta di ciò che milioni di cristiani pensano e non hanno il coraggio – o semplicemente la voglia – di ammettere (neppure davanti a sé stessi): che la dottrina cristiana, così come si è andata configurando dai testi neo-testamentari a oggi, non regge al confronto con tutto ciò che le scienze naturali e umane sanno sul mondo e sulla struttura antropologica.

I punti che Spong ritiene inaccettabili (e, di fatto, sociologicamente inaccettati) sono molteplici: «una divinità che può aiutare una nazione a vincere una guerra, intervenire a curare una persona amata»; «Gesù come l’incarnazione terrea di questa divinità soprannaturale» e, in quanto tale, possessore di «tanto potere divino da fare cose miracolose come placare la tempesta, scacciare i demoni, camminare sull’acqua o moltiplicare cinque pani»; la Pasqua come «resurrezione fisica del corpo di Gesù morto da tre giorni»; la fondazione, da parte di Gesù, di «una gerarchia ecclesiastica iniziata con i dodici apostoli» e perdurante «fino ai nostri giorni»; la nascita degli esseri umani «nel peccato» sì che, «a meno di essere battezzati o in qualche modo salvati, verranno banditi per sempre dalla presenza di Dio»;  «la tradizionale esclusione ecclesiastica delle donne dalle posizioni di comando» che costituisce «non una tradizione sacra, ma una manifestazione del peccato di patriarcato»; la convinzione che «le persone omosessuali siano anormali, malate mentali o moralmente depravate»; la tesi che «tutta l’etica cristiana sia stata scolpita su tavole di pietra o nelle pagine delle Scritture cristiane e quindi definita una volta per sempre»; la ricezione della Bibbia come «parola di Dio» in senso letterale o, comunque, «la sorgente primaria della rivelazione divina».

 Ecce Homo, Antonello da Messina, 1470

Ecce Homo, di Antonello da Messina, 1470

Mostrare in che modo  il rifiuto intellettuale di tutti questi punti della dottrina cristiana possa essere compatibile con l’autocoscienza dell’autore – che si qualifica «prima di tutto e principalmente come un credente cristiano», la cui «vita personale» ha «ricevuto un’impronta intensa e decisiva non solo dalla vita di Gesù, ma anche dalla sua morte e certamente dall’esperienza pasquale che i cristiani conoscono come risurrezione» – costituirebbe un compito eccessivo nei limiti di una semplice recensione. E, per giunta, un compito più teologico che filosofico.

Di rilevanza teoretica mi pare, piuttosto, il primo di questo elenco di punti che, anche nella prospettiva di Spong, ne costituisce il fondamento e la chiave interpretativa: il rifiuto del teismo, ossia di Dio inteso come «un essere con potere soprannaturale, che dimora al di fuori di questo mondo e che invade il mondo periodicamente per realizzare la sua divina volontà». Egli contesta l’antropomorfizzazione del divino, concepito come un Ente supremo che domina da sovrano gli enti inferiori; e lamenta il fatto che, almeno in Occidente, l’identificazione di questo Dio antropomorfo  (teistico) con l’unico vero Dio fa sì che «una posizione non teista è ampiamente considerata, almeno negli ambienti religiosi, come una posizione atea». Appellandosi a Nietzsche, e soprattutto ai «teologi della morte di Dio» degli anni Sessanta del XX secolo (Thomas J. J. Altizer, Wiliam Hamilton, Paul Van Buren), Spong ritiene che la fine del teismo costituisca non tanto la morte di Dio, quanto la morte di una certa «definizione umana» di Dio concepito come «un potente alleato divino nella ricerca della sopravvivenza e nel processo sia di dare uno scopo all’esistenza sia di trovare un significato alla vita umana».

Quando passa dalla pars destruens alla pars costruens, a mio avviso, l’autore oscilla equivocamente su due posizioni. In certi passaggi sembrerebbe che egli sposi una visione panteistica in cui Dio – o meglio la divinità – non sia nient’altro che la natura, la forza evolutiva dell’universo, rivelantesi esclusivamente «nell’io che sta emergendo come coscienza in espansione». In altri passaggi questo immanentismo, sottilmente antropocentrico (e in quanto tale – almeno ai miei occhi – poco convincente), sembra spezzarsi per aprirsi alla possibilità che Dio, o il divino, sia anche immanente ma non solo tale: «non potrebbe la nostra sempre maggiore autocoscienza permetterci di entrare in rapporto con ciò su cui il nostro essere è fondato, che è più di ciò che siamo, ma anche parte di ciò che siamo? Non potremmo cominciare a intravedere una trascendenza che entra nella nostra vita, ma che ci chiama anche oltre i limiti della nostra umanità, non verso un essere esterno ma verso il Fondamento di tutto l’essere, compreso il nostro, una trascendenza che ci chiama verso una nuova umanità?».

La domanda sulla possibile trascendenza divina è legata a doppio filo alla domanda sulla sua personalità. Se è vera la prospettiva immanentistico-panteistica, allora va eliminata senza rimpianti «la ricerca di un essere soprannaturale che ci faccia da genitore, che si prenda cura di noi, vigili su di noi e ci protegga». Ma se Dio, pur essendo intimo a ogni atomo, fosse un Logos che raccoglie i frammenti e li convoglia secondo un progetto irriducibile alla loro somma matematica, perché escludere che possa relazionarsi in qualche modo con ciascun frammento? Indubbiamente non si può pensare Dio come una persona umana e neppure come un Super-uomo; indubbiamente si devono abbandonare «quei modelli servili del nostro passato con i quali abbiamo cercato di piacere alla divinità teistica nei primi anni della storia evolutiva». Ma ciò implica l’impossibilità di ammettere che, in modalità assolutamente inconcepibili per la mente umana, in un Dio «sorgente della vita», «sorgente dell’amore» e «Fondamento dell’essere», ci sia qualcosa che assomigli a una Soggettività, a una Consapevolezza, a una Responsabilità? Perché, invece di negare alla Fonte ciò che troviamo nei miliardi di rivoli autocoscienti, non ipotizzare che in essa la Coscienza si sperimenti a un grado sommo e dunque ineffabile? Se la dimensione personale è solo un’illusione (come sostengono i buddhismi), è logico supporre che l’Assoluto ne sia privo; ma se fosse una ricchezza, un privilegio sia pur oneroso, perché negare al Tutto ciò che constatiamo in alcune parti? Perché l’infinitamente piccolo potrebbe pensare – e cercare il rapporto con – l’infinitamente grande, ma non anche l’inverso?

.Statua di Cristo su monte Toro Ano, (ph. P. Thomson)

Statua di Cristo su monte Toro Ano (ph. P. Thomson)

Insomma: la critica all’antropomorfismo non ha come esiti esclusivi l’ateismo e il panteismo. C’è anche un apofatismo talmente rigoroso da non escludere neppure una qualche trascendenza del Fondamento rispetto al fondato. A patto, però, che questa trascendenza non la si immagini spazialmente come ‘sopra’ e ‘lontana’, ma – al di là di ogni immagine – ontologicamente come ‘altra’. Dio è l’Al di là di tutto, d’accordo, come «la sorgente e il fondamento di tutto. Ma  è precisamente perciò che vi è al fondo di ogni essere in quanto essere, e più in particolare di ogni spirito in quanto spirito, un’intima affinità con Lui – non rappresentabile, non esprimibile in concetti proporzionati – che assicura alle nostre affermazioni su Dio il sovrappiù di significato necessario alla loro verità» (J. de Finance, Au-delà de tout. Per un Dio senza antropomorfismi, a cura di A. Cavadi, Ila Palma, Palermo 1984: 51-52). In una simile prospettiva saremmo certamente oltre un dualismo ingenuo che contrappone l’Essere e gli enti come se fossero complanari; saremmo oltre «una divinità teistica esterna» raffigurata come un «divino babbo Natale» o  un «celestiale Signor Aggiustatutto»; ma non saremmo al di là della possibilità di rivolgerci a un Tu pur sapendo che fruisce di uno statuto ontologico irriducibile a ogni ipotetico «io» umano.

Se si supera il teismo in questa direzione apofatica – e non di un anonimo panteismo immanentistico – resta la questione del male, delle sofferenze inutili, del dolore innocente: perché un Dio-Soggetto permette l’oceano sconfinato di tragedie di cui è costellata l’evoluzione universale? È questa, a mio parere, la radice esistenziale dei dubbi teoretici sulla configurazione, sia pur analogamente, personale dell’Assoluto. Forse è preferibile tenere aperta questa domanda angosciante anziché affrettarsi a dichiararla inconsistente in un orizzonte di stampo spinoziano in cui propriamente sparisce ogni differenza fra bene e male.

Dialoghi Mediterranei, n. 28, novembre 2017

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Augusto Cavadi, tra i pionieri della filosofia-in-pratica contemporanea, già docente  presso il Liceo “G. Garibaldi” di Palermo, è attualmente presidente della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Collabora stabilmente con La Repubblica-Palermo. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica, con particolare attenzione al fenomeno mafioso, nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); La filosofia vi farà liberi. Un’interpretazione delle pratiche filosofiche (BBN editrice, 2012); Il Dio dei leghisti  (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015).
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2 risposte a Aporie della dottrina e verità del Cristianesimo

  1. Pietro Spalla scrive:

    Augusto Cavadi si chiede perchè negare che in un Dio «sorgente dell’amore» e «Fondamento dell’essere» ci possa essere “qualcosa che assomigli a una Soggettività, a una Consapevolezza, a una Responsabilità?”. Però poi riconosce che l’ipotesi di un tale Dio Soggetto mal si concilia con l’esistenza del male ingiusto. Ma ci sarebbe da chiedersi come mai nella teologia moderna, pur sollecitata da questa aporia, non trova adeguato spazio l’ipotesi di un Dio soggetto ma “debole” (ne ha parlato Vattimo) o di un Dio malato e/o prigioniero (ne hanno parlato gli gnostici) o di un Dio i cui pezzi frammentati nella creazione, cui accenna Cavadi, sta all’uomo e non a Dio stesso riunire? Penso che la paura di essere contaminati da un poco scientifico antropocentrismo non dovrebbe farci escludere la possibilità che Dio sia sì immanente nella sua creazione ma vi giaccia inerte, latente, come incantato, in attesa di essere risvegliato proprio dagli uomini (è una visione non lontana da quella di Jonas e vicina a certe intuizioni esoteriche).

    • Augusto Cavadi scrive:

      Ringrazio il signor Pietro Spalla per le ipotesi teologiche che, se non capisco male, vanno “oltre” – e non “contro” – la mia ipotesi di un Dio in qualche misura e in qualche modo Soggetto (Trans)personale.
      PS: L’abilità dialettica dell’acuto interlocutore mi fa avanzare un’altra ipotesi, questa volta legata al mondo dell’al di qua: che si tratti di un avvocato per professione e di un esoterista per passione…

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