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Almanacchi, almanacchi nuovi, lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

 (foto Angelo)

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di   Alessio Angelo   e  Pietro Simone Canale

In tempi di dittatura mediatica i libri, quelli fatti di carta e inchiostro, sono ancor più compagni e beni preziosi e le biblioteche presidi di democrazia da difendere ed estendere. Nel silenzio del luogo dove per vocazione le parole trovano casa e assumono voce e corpo, si incontrano gli autori assenti e i lettori attenti, si educa alla libertà intellettuale e civile, ai valori desueti del lento e paziente ascolto dell’altro.

Franco Venturi (1914-1994), storico e profondo conoscitore della cultura e della politica del Settecento, riporta nella prefazione al primo volume di una delle sue più importanti opere, Settecento riformatore, una riflessione attenta sullo stato delle biblioteche in Italia. Era il 1968, l’Italia cresceva economicamente e si poteva a pieno diritto riflettere sul rilancio della cultura italiana. Secondo lo storico, « l’Italia è [...] uno dei Paesi in cui è più difficile e faticoso giungere a contatto con i testi», e le biblioteche sul territorio nazionale sono di «difficile accesso quanto la biblioteca di Babilonia di Borges e sono insieme depositi nei quali le tracce del passato possono più facilmente obliterarsi, rovinarsi e scomparire».[1]

Oggi le parole di Venturi appaiono ancora troppo attuali e troppo vere. Limitandoci alla sola città di Palermo, la situazione degli istituti che conservano il patrimonio librario cittadino e regionale appare alquanto scoraggiante. All’inizio del 2013 la Società di Storia Patria, fondata da Isidoro Carini e Raffaele Starrabba nel 1873, chiude perché non riceve più finanziamenti dalla Regione siciliana da dodici mesi. Nel novembre dello stesso anno un gruppo di professori e ricercatori dell’Università di Palermo lancia un appello pubblico rivolto alle istituzioni, affinché si intervenga sullo stato della Biblioteca Comunale di Palermo e della Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”. Nel giugno del 2014 due lettere aperte vengono inviate rispettivamente al Presidente della Repubblica[2] e al Presidente della Regione,[3] perché si eviti la fine della Società di Storia Patria annessa all’Istituto Gramsci Siciliano. Appelli che puntualmente rimangono inascoltati o giacciono nell’indifferenza della società civile. Di certo non migliore è la situazione nella provincia palermitana, in cui pochi comuni possono vantare una biblioteca comunale aggiornata nei testi e aperta al pubblico.

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Quando la biblioteca è lontana o poco accessibile, il mondo dei libri può essere tuttavia scoperto per strada,  su bancarelle mobili, attraverso modi e forme che sussidiano le debolezze e i limiti del sistema bibliotecario e sembrano recuperare vecchie e sperimentate abitudini popolari. Tra le antiche arti per via c’era infatti quella di chi girava per fiere e mercati e vendeva o barattava libri, fogli volanti, almanacchi, stampe. Dentro un’economia basata ancora sullo scambio, la scrittura circolava assieme alle immagini per strada, nelle piazze, tra la gente. Venditori itineranti di libri tornano oggi, in tempo di crisi, a cercare all’aperto i loro clienti, vanno loro incontro, come a creare un nuovo welfare culturale, uno spazio in cui scrittori e lettori si ritrovano a contatto, senza mediazioni e senza diaframmi. Così accade anche a Palermo ma non solo.

Nuove forme di realtà, di presenze improvvisate, di riappropriazioni di spazi pubblici si rendono visibili in una Palermo apparentemente disordinata, dove le «biblioteche muoiono»[4] ma nello stesso tempo non è poi così strano imbattersi in Pietro Tramonte e nella sua Biblioteca Privata Itinerante di Piazza Monte Rosalia. Una Biblioteca che non tende la mano all’elemosina istituzionale, né tantomeno indossa l’abito adatto per essere ospite del solito banchetto. Eppure, a poche decine di metri dall’Istituto di Storia Patria chiuso per mancanza di fondi, la Biblioteca di Pietro Tramonte appare presidio in cui l’individuo si organizza, resiste, ricerca una propria autonomia, risponde e supplisce all’assenza delle istituzioni, improvvisando uno spazio condiviso, dedicato alla lettura, di facile accesso anche ai diversamente abili, una particolarissima forma di book-crossing, che assicura prestito e consultazione, nonché una amabile e sconclusionata catalogazione a scaffalatura aperta che lascia largo spazio alla serendipity.

Non abbiamo la pretesa di possedere la lettura univoca di una molteplicità di realtà e mondi immaginati che interagiscono o semplicemente convivono nell’irriducibile e irredimibile Palermo. Tuttavia, l’associazione tra certe pratiche emergenti, individualiste e collettanee, e l’assenza dello Stato in alcune richieste della comunità locale, ci suggeriscono la prospettiva anarchica o spontaneista come plausibile interpretazione. Questa stessa prospettiva è stata analizzata e promossa, ad esempio, da Colin Ward, in una recente ristampa per i tipi della casa editrice indipendente Elèuthera, Anarchy in Action, uscita in italiano già nel 1996 col titolo Anarchia come organizzazione. In questo volume, l’autore dedica un breve capitolo alla teoria dell’ordine spontaneo, riproponendo il Kropotkin de La Conquista del Pane, in cui si afferma che, data una comune necessità, le persone procedono a soddisfarla, andando per tentativi ed errori, attingendo alla propria esperienza e nondimeno all’improvvisazione, approdando infine a un ordine più funzionale e duraturo rispetto a quello imposto.

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Nei manuali di biblioteconomia è sempre delineata chiaramente quale debba essere la finalità di una biblioteca e in che modo essa debba essere gestita. Non sempre però si riflette sulla sua funzione nel contesto di una industria culturale volta all’estremo profitto. Gesualdo Bufalino, nel suo denso discorso “Per l’inaugurazione di una biblioteca” in occasione della consegna dei lavori della Lucchesiana di Agrigento il 15 dicembre del 1990, definiva la biblioteca «un avamposto, un fortino edificato in partibus infedelium».[5] Un presidio, un rifugio, perché ancora oggi il libro è ritenuto una «infezione mortale», e non v’è bisogno di guardare a Pechino o a Teheran per trovare lande aride e desolate, sprovviste di libri, perché abbandonate prima di tutto dalle istituzioni. Ignazio Buttitta chiamava le case senza libri «stalle». I quartieri e le città senza servizi culturali sono destinati a diventare periferie del mondo.

Ecco perché una biblioteca come quella di Pietro Tramonte resta uno spazio prezioso, un’opportunità  inclusiva, gratuita, amichevole, un’attività centrata sulle persone, piccola ma significativa «parte di un progetto di rinascita [...], un luogo di libertà e di creatività per ogni cittadino», un servizio che ripensa gli spazi urbani e li sottrae alla commercializzazione e all’industria del divertimento fine a se stesso.[6]  Se è vero che le  biblioteche hanno bisogno di un bibliotecario che combatta «in nome di una civiltà istruita e informata come componente necessaria della democrazia»,[7] Pietro Tramonte emerge in questa realtà nascosta tra i vicoli all’ombra della chiesa di San Domenico e definisce se stesso un combattente e la sua biblioteca un «posto di combattimento» quotidiano. In prima approssimazione Pietro Tramonte sembrerebbe affetto da un morbo che la letteratura di tutti i tempi ci ha sempre raccontato, quello della bibliomania. Giuseppe Bencivenni Pelli (1729-1808), direttore della Real Galleria di Firenze dal 1775 al 1793,[8] annotava sul suo diario le caratteristiche di questo morbo: «questi benedetti libri sono il mio vizio, e conoscendo che mi scomoda, non ostante non so disfarmene, perché qui la passione domina. Probabilmente dopo che averò terminata la compra dei libri relativi a Firenze mi verrà voglia degli altri appartenenti al resto dello stato».[9] Una libido legendi che si manifesta nell’accumulo e nell’emozione fortissima derivante dal contatto con il libro: «tutto ciò che è scritto mi commuove, dalla Bibbia all’elenco telefonico».

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Anche Tramonte ci tiene a precisare che è pronto ad accogliere perfino gli elenchi telefonici! Egli parla con i libri come fossero creature, li umanizza e su di essi proietta il diritto a vivere che discende dal diritto a leggere: per Tramonte tutti i libri sono «pecorelle» e da «buon pastore» non fa distinzioni nel suo «gregge».E tuttavia, mentre il bibliomane i libri «li possiede per possederli, per pascere la propria vista; la sua scienza sta tutta nel riconoscere se siano oppure no di buona edizione, se rilegati bene»,[10] per godere eroticamente pur solamente dell’odore,[11] il furor bibliographicus di Tramonte non gli impedisce di rendere libero un patrimonio di circa 25 mila volumi, sdoganando dal libro il parametro commerciale del valore economico. Viene meno l’aspetto tecnico-burocratico a vantaggio di una riappropriazione dello spazio, della libertà e del movimento. Forse per questo lui stesso si definisce un bibliofilo e non un bibliomane.

Sembra di rivederlo Peter Kien [12], spodestato dalla sua casa-biblioteca, vagabondare per una realtà di mondo a lui sconosciuta, cercando di ricostruire quel luogo di pace determinato dal rigido ordine dei suoi libri pregiati. Alla ricerca di  quella biblioteca ricca, sicura, ben ordinata e chiusa da tutti i lati nella quale niente poteva distoglierlo, superflui persone e mobilio; lo spazio di cui si prendeva cura in un misto di pathos e ossessione, unico mondo possibile, garante della sua presenza, oramai in frantumi. Quel luogo adesso è una strada; di come trattare quei libri di ogni scrittura e pregio non ha più forse memoria ma rimane un infaticabile desiderio di occuparsene. L’aria familiare di quella “cantina” atipica di cui parla Tramonte e la gentilezza coinvolgente di quest’uomo con l’aria da buon vicino sono l’impulso per la produzione di uno spazio simbolico, finalmente affrancato dalle logiche del mercato. Molti altri Kien in un mondo senza testa vagano con il capo pesante, stanchi e pronti a lasciare il carico in una sistemazione provvisoria, cercando di ricostruire ciò che è andato perduto o ciò che ci è interdetto, un luogo consacrato alla lettura, intimo e necessario rimedio alla superficialità della mera informazione.

Agli sforzi di questo appassionato e sofferente bibliotecario – febbrile, come forse lo definirebbe Borges incontrandolo/descrivendolo in una delle sale esagonali, centro esatto della interminabile Biblioteca di Babele – si aggiungono le volontà dei molti più o meno inconsapevoli bibliotecari, donne e uomini di una città difficile in ogni sua espressione, che in una straordinaria relazione di scambio/dono hanno operato e operano portando via meno libri di quanti ne abbiano lasciati. Dei tanti aspetti che emergono dall’incontro con la biblioteca di strada e il suo particolare gestore e dai suggerimenti che affiorano dall’intervista (che riportiamo integralmente), quello del dono è senza dubbio centrale poiché correlato alla sua produzione sociale, alla sua genesi e rigenerazione continua, al suo divenire e alla sua trasformazione. Interrogato sulle dinamiche di formazione e accrescimento del patrimonio libraio, Pietro Tramonte risponde: «La gente viene, lascia dei libri e ne porta via altri. Solitamente accade che la gente ne porti via meno di quanti ne abbia lasciati». La centralità della questione dono come produzione sociale di una collettività è racchiusa in questa risposta laconica ed esplosiva.

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Il dono si esaurisce solo in apparenza in un atto semplice: a svelarne la complessità e le potenziali implicazioni sono intervenuti alcuni dei più importanti maestri delle discipline antropologiche. Dell’amplissima letteratura, di cui non possiamo dare qui conto, basterà citare Marcel Mauss che, tra i primi, studiò il fenomeno.  L’analisi del materiale etnologico da lui raccolto e selezionato lo spinse a sostenere che in molte delle società osservate – se non in tutte,  preconizzando l’idea di una struttura universale – gli uomini si legano e fanno società rivaleggiando in doni, scambiando beni che non hanno un valore utilitario,[13] così che non esistono realtà sociali separate da simboli e rappresentazioni collettive.  Accettare questo paradigma significa riconoscere che i doni, siano essi beni o servizi, hanno la capacità di generare relazioni e legami sociali. Come afferma Jacques T. Godbout, «definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone»[14]

Questo sistema ritrovato per le vie di Palermo differisce di certo dai più noti e studiati sistemi di prestazione che possiamo leggere nelle monografie etnografiche o nei saggi di etnologia. Eppure in questo baratto di libri si opera collettivamente e quasi “religiosamente”, con dinamiche tipiche del sacrificio, convertendo la bancarella di un rigattiere in una biblioteca di strada, rendendo sacro appunto un vicolo angusto e decentrato, un piccolo slargo convertito  in un luogo di incontro tra il sapere scritto e il pellegrino/lettore, il passante che da compratore si fa donatore. Dietro questo scambio di doni non vi si riconosce, infatti, un sistema di potere o di prestigio, piuttosto un principio di reciprocità con una tendenza costante a un disequilibrio accettato e volontariamente attuato. Dapprima la sproporzione tra chi riceve e chi dona viene ridotta dal valore relativo e dalla possibilità di scegliere gli oggetti di scambio. Il divario che ne rimane viene bonariamente accettato, invocando un principio di collaborazione, un desiderio di produzione sociale di una realtà determinata. Se accettiamo la necessità manifesta nell’uomo/donna di agire nella società in cui vive e non solo di sopravvivere all’interno di essa o di reificarne tacitamente le pratiche, siamo in grado di riconoscere questo valore aggiunto di partecipazione.

Abbiamo chiesto a Pietro Tramonte di rilasciarci un’intervista riguardo alla sua iniziativa, per averne testimonianza, ma anche per riuscire, per quanto possibile, a collocare questa esperienza nel contesto e nelle dinamiche di una città inquieta e complessa come Palermo. Adesso chiediamo ai lettori di leggere le sue parole, e ancor di più di recarsi presso la Biblioteca privata itinerante, e dopo averlo fatto, chiedersi:

Siamo dinanzi a un ammasso di cartacce, di vecchi giornali, di libri malmessi e peggio allocati, cartacce impilate in fradice scaffalature che occupano notte-giorno il suolo pubblico, togliendo parcheggi e quindi priorità alla città di Palermo? Oppure siamo di fronte a una nuova forma di Biblioteca popolare di quartiere, nata dall’iniziativa di un privato, singolo pensatore che si organizza in maniera autonoma, innescando tra baratto e gentilezza il meccanismo che ha portato, in pochi mesi, un pugno di libri su una bancarella a moltiplicarsi per circa venticinquemila volumi, e che ha trasformato uno spazio nascosto e poco utilizzato della città in un luogo di incontro e condivisione?

 (foto Angelo)

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Noi abbiamo già risposto.

Pietro Tramonte è l’ideatore e il creatore della Biblioteca Privata Itinerante. Ci parli un po’ di questa biblioteca. Iniziamo dal nome. Perché “itinerante”?

La biblioteca è “itinerante” perché, oltre ad avere realizzato questa biblioteca in una viuzza di Palermo, sono spesso in giro per feste patronali e fiere di paese, su invito dei sindaci e delle amministrazioni comunali, portando con me fisicamente la biblioteca. Certamente non tutto. Un po’ di libri, nuovi, vecchi, e di qualsiasi genere. Una bancarella di libri fa sempre folklore. Inoltre, i libri creano piacere, provocano emozioni. Il libro ti dà emozioni. Rivedere un libro di scuola, ritrovare un nome conosciuto genera emozioni nella persona che viene a visitare la Biblioteca Privata Itinerante.

Sulle emozioni ci torneremo dopo. Intanto ci racconti com’è nata questa iniziativa

Questa iniziativa nasce dal nulla, soltanto da una mia idea, da una mia passione. Anzi, dalla mia passione per i libri. Naturalmente ogni passione ha necessità di essere coltivata, di avere dedicato del tempo. Ogni giorno, dalle 11 alle 20  io sono qui al mio posto di combattimento.

Qual è il suo posto di combattimento?

Il mio posto di combattimento è qui in Piazza Monte S. Rosalia, dove raccolgo e seleziono migliaia di volumi. Questa la mia battaglia giornaliera.

Quando è nata questa iniziativa?

È nata nei primi mesi del 2013, tra febbraio e marzo. Mi sono fatto due inverni qua e ciò vuol dire acqua e vento. Queste stradine, dovete sapere, hanno un microclima micidiale.

Come si è incrementata questa biblioteca?

La biblioteca ha incrementato il suo patrimonio quotidianamente con il semplice sistema del baratto. La gente viene, lascia dei libri e ne porta via altri. Solitamente accade che la gente ne porti via meno di quanti ne abbia portati. Spesso su dieci libri lasciati, ne sono portati via 2-3 al massimo. Ripetuto tutto ciò ogni giorno per due anni, capirete, che questa biblioteca, da un paio di migliaia di volumi se ne ritrova oggi con 25 mila.

Un numero esorbitante, anche visti gli spazi che ha a disposizione. La maggior parte sono all’esterno, nella piazza e nella viuzza, perché dentro è pienissimo.

È pieno zeppo. Non posso nemmeno camminare dentro. Anzi, se avete scaffalature metalliche, le baratto volentieri con libri. Anche mal messe, nulla va buttato. Tutto si può sistemare.

In qualche modo rispetta un ordine di sistemazione?

 (foto Angelo)

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Ho cercato di dare un ordine per macromaterie: storia, matematica, astronomia, scienze sociali, romanzi. Sono però raggruppamenti molto generici. Sarebbe l’ideale sistemarli in categorie più specifiche. Così si potrebbe fruire meglio del patrimonio di cui la biblioteca dispone. Purtroppo lo spazio è tiranno! Lo spazio è quello che è. 

I libri all’esterno restano sempre fuori?

Non ho spazio all’interno. I libri restano fuori. Sono ben coperti dai teli impermeabili con cui ho sistemato le scaffalature esterne. Finora non hanno mai subito danni dalla pioggia e non hanno nemmeno mai incontrato i quaranta ladroni…

Lei prima parlava delle emozioni suscitate dai libri. C’è mai stato uno scambio di libri, che le ha recato un’emozione, l’ha fatta sussultare?

I libri suscitano emozioni. In questo luogo ho visto molta gente emozionarsi al contatto con un libro. Tempo fa un’anziana signora, insieme con il marito, si è commossa perché tra i libri della biblioteca ha ritrovato una copia del libro che il marito le aveva regalato quando erano fidanzati. Una cosa semplice, se vogliamo banale, ma che ha emozionato anche me. L’altro giorno, invece, un signore ha ritrovato il libro che aveva regalato a un’amica e che l’amica aveva scambiato con altri della biblioteca.

Ci vuole raccontare una sua emozione personale legata a un libro in particolare?

Ormai potrei emozionarmi soltanto con una Bibbia a 42 linee di Gutenberg. Qui ho di tutto.

Cosa ha di particolare questa biblioteca rispetto alle altre?

Non saprei. Però vi posso dire che mi piace molto quando la gente viene qua e mi dice: «che bella location!» per dire posto; oppure i ragazzi che mi chiedono se faccio il bookcrossing per dire baratto. Quello che mi piace è anche l’ombra che regna perpetua a parte un’oretta la mattina. A parte lo scherzo, questa biblioteca è molto apprezzata dalle persone che vengono in carrozzina, perché gli scaffali in strada sono facilmente accessibili per queste persone con mobilità ridotta. Quando vengono sono felici, perché sono pochi – così mi dicono – i posti a Palermo, dove usufruire così facilmente e liberamente dei libri. E anche un posto molto apprezzato dalla gente che viene con il cagnolino, perché non ha necessità di lasciarlo all’ingresso. È un posto speciale anche per la gente che si incontra. In questa biblioteca ho visto transitare gente da ogni angolo del mondo. L’altro giorno c’era qui un professore dell’università di Saragozza, che mi ha anche spiegato da dove proviene il nome della sua città. Possiamo dire che stando qui, sia per i libri, sia per la gente che si incontra, si riesce a girare il mondo.

Lei prima ci diceva che questa biblioteca ha il merito di far sentire la gente a proprio agio. Ci spieghi meglio.

Questa biblioteca fa sentire la gente a proprio agio per i modi gentili con cui accolgo la gente. Modi gentili, che spesso qui al Sud, vengono male interpretati. Io do il buongiorno a tutte le persone che vengono qua. Le persone a volte si chiedono: «ma che vuole questo? Perché mi ha salutato?». Io, invece, dopo il buongiorno aggiungo: «fate come se foste a casa vostra, anzi come se foste nella cantina di casa vostra!». Questa familiarità permette alla gente di avere un contatto più diretto e sincero con il libro. In un altro posto vi direbbero: «cosa state facendo? Questo non si può toccare perché altrimenti togliete la polvere e qui deve starci la polvere… ».

Questo modo di far sentire la gente a casa, insieme con la sensibilità che ha nel percepire le emozioni delle persone quando guardano un libro, e l’aver creato una biblioteca di 25 mila volumi circa, fa di lei un bibliotecario?

Assolutamente no. Come ho detto prima sono solo un appassionato di libri. Una persona che ha nel DNA l’amore per il libro. Mi ritengo un bibliofilo e ho voluto riportare nel nome “Biblioteca Privata Itinerante” la radice biblos. 

 (foto Angelo)

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Secondo lei, allora, le caratteristiche di sensibilità, familiarità e attenzione per le persone, dovrebbero essere caratteri -  stiche di un buon bibliotecario?

Dovrebbero esserlo, sì. Purtroppo spesso non lo sono. Spesso chi fa il bibliotecario, parlo per la nostra città, non ama il lavoro che fa. Nel lavoro di bibliotecario ci dovrebbe essere la passione, anche quella sofferenza del pathos. Una febbre, che spinge ad andare avanti. Cristoforo Colombo non avrebbe mai scoperto l’America se non avesse avuto quella voglia di andare avanti, quella molla della conoscenza.

C’è in questo momento un libro che la colpisce particolarmente? O dei libri che vuole mostrarci o di cui ci vuole parlare?

Una pecorella vale l’altra: sempre latte dà. Latte nel senso più nobile e buono del termine di cultura e conoscenza. Ognuno ha il suo bagaglio di libri che si porta dietro. I libri sono come delle tessere di un mosaico, ognuno di noi è formato da tasselli diversi. Un mosaico che piano piano prende forma.

Le facciamo anche qualche domanda personale. Lei quando e dove è nato?

Io sono del 1948, sono nato a Palermo da padre gibellinese e madre palermitana.

Ha sempre vissuto a Palermo?

Solo per alcuni anni. Dopo il terremoto nel Belice del 1968 mi sono trasferito al Nord con la mia famiglia. Facevo la scuola superiore a Mazara, ma sono stato costretto a diplomarmi a Como. Per un po’ di tempo ho vissuto a Roma, perché mio padre aveva vinto un concorso al Ministero della Pubblica Istruzione. Sono tornato a Palermo nel 1971 e qui ho lavorato per alcune ditte. Ho lavorato anche come correttore di bozze per l’editore Palumbo e per la casa editrice Telestar del conte Cassina, che ho seguito anche a Tripoli, dove ho trascorso la mia  “avventura araba”.

Le sue esperienze in Libia, a Roma, nel Nord Italia e a Palermo, hanno influito nella creazione della Biblioteca Privata Itinerante e continuano a influire?

Dietro la vita di ciascuno c’è un bagaglio di esperienze. È naturale che le esperienze, sia negative sia positive, e gli incontri siano alla base di questa mia iniziativa. Altrimenti non sarebbe mia, ma sarebbe di qualcun altro.

Ultima domanda. Ha mai avuto contatti con l’amministrazione? Regione, Comune?

Sono stato invitato dai consiglieri comunali della prima circoscrizione al Consiglio di circoscrizione per esporre la mia iniziativa. Pensavo mi volessero far sloggiare e invece sono stato applaudito. Sono stato anche contattato dal giornalista di “Repubblica” Mario Pintagro, che ha pubblicato un articolo sulla biblioteca il 3 ottobre del 2013.

Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
Note
[1]              F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1968: XVI-XVIII.
[2]              Lettera aperta al Presidente della Repubblica pro Istituto Gramsci Siciliano, http://www.istitutogramscisiciliano.it/?id_pagina=64&id_menu_pre=9 (ultimo accesso: 19/02/2015).
[3]              Appello per la sopravvivenza dell’Istituto Gramsci Siciliano, http://www.istitutogramscisiciliano.it/?id_pagina=63&id_menu=63&id_menu_pre=9 (ultimo accesso: 19/02/2015).
[4]              N. Harris, Il vivo Mattia Pascal, in «Biblioteche oggi», 3 , 2005: 35-43.
[5]              Il testo intero del discorso è stato pubblicato in G. Bufalino, Contro le ragioni della tenebra, in «Kalós. Arte in Sicilia», 3, 1997: 12-15.
[6]              Cf. A. Agnoli, Caro sindaco, parliamo di biblioteche, Milano, Editrice Bibliografica, 2011.
[7]              R. D. Lankes, Una nuova biblioteconomia per una Nuova Epoca, 57° Congresso nazionale AIB, 18 novembre 2011, http://quartz.syr.edu/rdlankes/Presentations/2011/RomeIT.htm (ultimo accesso: 19/02/2015).
[8]              R. Zapperi, Bencivenni Pelli, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1966, v. 8, http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-bencivenni-pelli_%28Dizionario-Biografico%29/ (ultimo accesso: 19/02/2015).
[9]              G. Bencivenni Pelli, Efemeridi. Diario, v. XI, 10 gennaio 1764: 104, http://pelli.bncf.firenze.sbn.it/it/progetto.html (ultimo accesso: 19/02/2015).
[10]             G. Volpi, Del furore d’aver libri, Palermo, Sellerio, 1988: 108.
[11]             A. Musco, Per un’antropologia del libro: lettura, scrittura e carta stampata tra Isidoro di Siviglia, Giovanni Tritemio, Tomaso Garzoni e Googleplex, in «Pan. Studi del Dipartimento di Civiltà Euro-Mediterranee e di Studi Classici, Cristiani, Bizantini, Medievali, Umanistici», 22 , 2004: 416.
[12]             Personaggio principale di Auto da fè, primo e unico romanzo di Elias Canetti pubblicato in tedesco nel 1935 ambientato in una Vienna dei primi anni 20. L’opera venne bandita dai nazisti e non ottenne il giusto riconoscimento sino alla sua ripubblicazione avvenuta negli anni 60.
[13]           A.Caillè, Il terzo paradigma.  Antropologia filosofica del dono. Torino, Bollati Boringhieri, 1998: 13.
[14]        G.T.Godbout,  Lo spirito del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 1993: 30. la definizione è riportata da Marco Aime in Da Mauss a MAUSS, introduzione a Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino, Einaudi, 2002: XII.

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 Alessio Angelo, laureato all’Alma Mater di Bologna in Antropologia Culturale ed Etnologia e specializzato in Libro, documento e patrimonio antropologico presso l’Università di Palermo. Ha svolto parte del suo percorso accademico in Spagna, in Cile e in Marocco. Si dedica allo studio e alla ricerca di temi antropologici e storici nel Mediterraneo. Ha collaborato con l’Università di Messina, l’Officina di Studi Medievali e la Fondazione Ignazio Buttitta. Attualmente lavora per l’Università di Bergamo al progetto di ricerca Euborderscapes sulla frontiera italo-tunisina.
Pietro Simone Canale, dottorando in Studi storici, geografici e delle relazioni internazionali presso l’Università del Salento, ha conseguito la laurea specialistica in Storia Europea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Palermo. Si è specializzato in “Libro, documento e patrimonio antropologico. Conservazione, catalogazione, fruizione”, master di II livello presso l’Università degli studi di Palermo. Ha conseguito il diploma presso la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Palermo.

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2 risposte a Almanacchi, almanacchi nuovi, lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

  1. Elio Piazza scrive:

    Ho molto apprezzato questo articoloperche’ umanizza il rapporto tra lettore e libro suscitandorisonanze interiori ed approcci familiari alla cultura.

    • Alessio Angelo scrive:

      La ringraziamo per l’attenzione e gli apprezzamenti rivolti al nostro lavoro.
      Siamo lieti che le sia piaciuto.

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