Stampa Articolo

Alberto M. Cirese. Etnocentrismo ed etnoperiferismo

cirese-con-lelaboratore

Cirese e l’Elaboratore

speciale cirese

di Piero Vereni

Una delle ultime cose che ricordo di Alberto Cirese a lezione era un punto “teorico” su cui insisteva più di una volta, in quei primi anni Novanta, e cioè che lui sapeva (o sperava, non ricordo se fosse un verbo profetico o ottativo) che i libri di antropologia culturale, che nelle librerie stavano in vendita tra la Varia e le Scienze sociali, avrebbero presto trovato una loro collocazione negli scaffali a fianco dei manuali di matematica, di ingegneria e di programmazione informatica.

La sua era una generosa fantasia leibniziana, l’illusione di una lingua perfetta (Eco 1999) che avrebbe potuto meta-linguisticamente fare da ponte tra i linguaggi umani della riflessione filosofica e umanistica. Quanto la matematica era riuscita a imporsi come il sistema più adeguato per parlare della natura, così, diceva Cirese, il lavoro scientifico che ci si prospettava era quello di elaborare un metalinguaggio formale (per inciso coincidente con i fondamenti della logica aristotelica) in grado di parlare della parentela, dei proverbi, della differenza tra cosa e segno, della struttura della versificazione popolare e, potenzialmente, di tutta la produzione culturale umana.

91a4t2egrclIn queste note vorrei riflettere su come quel sogno epistemologico (che per alcuni potrebbe essere stato un incubo, in verità) abbia avuto delle conseguenze interessanti sul tipo di ricerca praticata da Alberto Cirese, in particolare nella gerarchia dei saperi e dei progetti di ricerca, riportando al centro quel che invece, in quegli stessi anni, le pratiche delle scienze sociali stavano ponendo ai margini. Il percorso di Cirese, in questo senso, è stato quello di mettere sempre più di lato la differenza (paese che vai, usanza che trovi) per far primeggiare l’altro versante del dilemma antropologico (tutto il mondo è paese). Come se lui, partito dalle tradizioni popolari legate alla sua storia familiare, e transitato per la cultura popolare “nazionale” (con l’inevitabile aporia sarda), una volta giunto a confrontarsi con la diversità di sistemi di parentela “non occidentali” e con la concezione maya dello scorrere del tempo si fosse trovato sul baratro di una differenza inesigibile nella logica a lui consueta del rapporto egemonico/subalterno e avesse optato per una riconnessione radicale alla centralità del pensiero occidentale, riscoperta proprio girovagando, nel modo controllato e formalizzato che gli era proprio, nelle periferie del mondo.

La mia prima lettura di Cirese fu la dispensa Io sono mio fratello (Cirese 1985), che segnò la mia conversione al suo pensiero molto più di Cultura egemonica e culture subalterne, che tenni fastidiosamente sullo sfondo dei miei studi, attratto com’ero da Lévi-Strauss o Margaret Mead, in quegli anni, piuttosto che da Costantino Nigra o Giuseppe Pitrè. Nella “analisi formale dei sistemi di parentela” proposta in quella dispensa universitaria scorgevo realizzarsi quell’idea scientifica di antropologia che avevo visto in forma grafica nella geometria cristallina dell’“operatore totemico” che sta al centro del Pensiero selvaggio (Lévi-Strauss 1996 [1962]: 166), e che avevo letto in forma di enunciato linguistico nelle elucubrazioni di Dan Sperber (1984). Quando vedevo gli schemini regolari dello strutturalismo lévi-straussiano, o i pensieri concettosi del post-strutturalismo sperberiano (secondo cui le credenze in apparenza irrazionali altro non erano che «enunciati semi-proposizionali di proposizioni semi-rappresentazionali») provavo qualcosa di simile all’istinto di classe (intellettuale, ça va sans dire) e sentivo che, come antropologi, ce l’avremmo potuta fare.

sperferIn un mare di relativismo culturale (poco importa se morale o cognitivo) Cirese stava diventando (non solo ai miei occhi, mi sento di dire) l’isola (o almeno la “testa di ponte”) della razionalità pan-umana, che si prefiggeva di tenere saldo quel che il dato etnografico aveva scosso profondamente nella sua stabilità. Non che ci fosse molto di nuovo, nella sostanza, ma la forma che “il calcolatore” poteva dare alla “doppia cugina incrociata” o ai sistemi di parentela a otto classi sembrava veramente combinare la ferrea geometria dei cristalli strutturalisti con l’apparente lucidità degli enunciati della filosofia analitica. Quando il suo sistema di calcolo automatico permise di elaborare i “conversi parentali” e scoprimmo che ci voleva una frazione di secondo per stabilire “chi sono io per te se tu per me sei la figlia della figlia del fratello del padre di mia madre”, per qualche momento avemmo davvero la sensazione che l’antropologia fosse, finalmente, diventata una scienza, e che la profezia ciresiana fosse la semplice generalizzazione diacronica di un’evidenza che stavamo sperimentando dal vivo.

Ricordo, in particolare, l’effetto stralunato che mi diede vedere il quadrato semiotico di Greimas (che dalla narratologia universitaria avevo imparato ad apprezzare da poco) utilizzato per raffigurare in modo finalmente comprensibile il sistema di parentela kariera a quattro classi, e come quel senso di stordimento fosse dovuto all’incredibile consonanza di pensiero tra un intellettuale franco-lituano e un aborigeno australiano fedele alla sua cultura tradizionale.

9788807817373_quarta-jpg-444x698_q100_upscaleRibadisco, la parentologia antropologica aveva già da metà Ottocento lavorato sulla regolarità delle variazioni nella terminologia e nelle relazioni parentali, e le Strutture elementari della parentela di Lévi-Strauss (che Cirese aveva fatto conoscere al pubblico italiano ben prima di innamorarsi della programmazione in Basic) contenevano un quadro di regolarità e un ritmo argomentativo che lasciarono esterrefatti molti degli antropologi anglosassoni sui cui dati la teoria dei modelli parentali “meccanici” era stata elaborata dal genio francese. Ma è come se Cirese cercasse, traducendo Lévi-Strauss nel linguaggio di programmazione, di far piazza pulita di quel côté letterario che lui vedeva ancora gravare sulla riflessione della nascente scienza antropologica, e che tanto lo infastidiva nella svolta ermeneutica (che Cirese, io credo erroneamente, lesse come una variante locale di un più generale e drammatico collasso postmoderno del pensiero scientifico occidentale).

Cirese, come accennato, ha cercato di applicare questo metodo formalizzante non solo alla parentela, ma in generale alla cultura, ponendo in tutti i casi una gerarchia formale tra natura e cultura: la natura non è tanto un magma di interessi, passioni o pratiche dell’animale uomo da etnografare sul campo, ma piuttosto lo spazio dell’essere in potenza, il sistema generale della combinatoria delle varianti potenziali del sistema indagato. Per capirci, ACAREP o GELM, i programmi in grado di generare sistemi di parentela teorici, si basano in ogni caso su GEPR, il sistema GEnetico-PRocreativo “naturale”, che vede nell’accoppiamento una premessa necessaria della riproduzione. Che questo presupposto di base impedisse alla parentologia ciresiana di includere adozioni, matrimoni omosessuali, figli “illegittimi” e di distinguere nella sostanza i parentes dai genitores era un punto che aveva angustiato Cirese solo in parte, mentre gli impedì di confrontarsi con tutta la riflessione post-biologica della parentela che si stava sviluppando in quegli stessi anni.

La leggerezza con cui Cirese (non) si confrontava con il dibattito internazionale sulla parentela dipese dal fatto che il suo obiettivo si collocava molto al di là di qualunque interpretazione specifica della parentela, deciso com’era a raggiungere una “antropologia post-anti-etnocentrica” (Cirese 1998), a rimettere cioè il puro “pensiero umano” (fatto coincidere, come già segnalato, con la logica aristotelica) al centro della riflessione antropologica. Il “selvaggio cerebrale” di Lévi-Strauss (Geertz 1973) diventa, nell’antropologia ciresiana, addirittura coincidente con il computer (Cirese 1994) e il “modo di pensare” coincide con l’umano ipso facto oltre qualunque “modo di sentire”. La “mente umana” non è più un luogo fenomenologico dove convivono passioni e argomentazioni, ma solo lo spazio formale di articolazione del pensabile in quanto calcolabile.

il-dire-e-il-fare-nelle-opere-dell-uomo-con-promemoria-bibliografico-degli-scritti-dell-autoreMentre cioè l’intellettualità mondiale aveva scoperto il brulicare dell’etnicità, della diversità, della passione locale, e sembrava disposto a «spostare il centro del mondo» (Tiong’o 2000) per dare ragione alla provincia inquieta dei sentimenti e delle passioni umane, Cirese si lancia a spron battuto nella direzione inversa, ricollocando la logica, e non la retorica, al cuore dell’epistemologia delle scienze sociali, in una sorta di rivalutazione universalista dell’etno-centrismo, per porre ai margini del vero sapere le varietà dell’ethnos e le lotte del vulgus, con l’intento di con-centrarsi invece definitivamente sulla sequenza razionale della deduzione argomentata leibnizianamente, intendendo così liquidare una volta per tutte la passione dallo spazio sacro del sapere veramente scientifico.

Questa rivalutazione universalista dell’etno-centrismo (tutto il mondo è paese) per rendere finalmente periferica nel sapere antropologico la cacofonia della passione etnica (localista, relativista, irrazionalista) si poté porre come obiettivo filosofico di un progetto intellettuale straordinariamente denso solo grazie a un atto di fede non surrogato da alcuna evidenza: che la comunicazione tra gli umani avvenga per mezzo di qualche meta-livello cognitivo, e non dentro la storia delle concrete interazioni accertate. La traduzione, per Cirese, non poteva che passare attraverso un meta-linguaggio teorico e formalizzabile almeno in linea di principio, ed era appellandosi alla necessità logica di quel meta-linguaggio che la Ragione (o la Mente, nella sua unità e universalità) venne posta al centro del suo progetto antropologico.

Oggi, temo, partiamo spesso da altri presupposti, e accettiamo con il giusto sconcerto che le traduzioni non sembrino dipendere da alcun livello meta- ma siano invece quel che salta fuori quando gli esseri umani, al di là di quel che intendono verificare o dimostrare, provano a comunicare tra loro, mettendo al centro delle loro interazioni la cooperazione e lasciando al margine la competizione su chi, alla fine, abbia ragione e chi torto.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Riferimenti bibiografici
Cirese, A.M., 1985, Io sono mio fratello. Proposte di analisi formale dei sistemi di parentela, Università di Roma ‘La Sapienza’, dispense per il corso di Antropologia culturale I, a.a. 1985/86.
Cirese, A.M., 1994, Il calendario maya e il calcolatore, «Il Mondo 3. Rivista di teoria delle scienze umane e sociali», 1: 324-356.
Cirese, A.M., 1998. Il dire e il fare nelle opere dell’uomo. Con promemoria bibliografico degli scritti dell’Autore, Gaeta, Bibliotheca.
Eco, U., 1999, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari, Laterza.
Geertz. C., 1973, “The cerebral savage: the structural anthropology of Claude Lévi-Strauss” in The interpretation of cultures: selected essays, New-York, Basic Books: 345-359.
Lévi-Strauss, C., 1972, Le strutture elementari della parentela, a cura di A. M. Cirese, A. Serafini, Milano, Feltrinelli. Ed. Or. 1949
Lévi-Strauss, C., 1996, Il pensiero selvaggio, Milano, Marco Tropea Editore. Ed. or. 1962.
Sperber, D., 1984, Il sapere degli antropologi, Milano, Feltrinelli.
Tiong’o wa N. 2000, Spostare il centro del mondo, Roma, Meltemi.

 ______________________________________________________________

Piero Vereni, professore associato di Antropologia culturale nell’Università di Roma “Tor Vergata”, insegna «Urban & Global Rome» nel campus romano del Trinity College (Hartford, Connecticut). Dal 2018 è abilitato di prima fascia nel settore M-DEA/01 Discipline Demoetnoantrologiche. Ha effettuato ricerche sul campo sul confine della Macedonia occidentale greca (1995-97) e sul confine irlandese (1998-99). Si è occupato di antropologia politica e delle identità e antropologia dei media, e attualmente conduce ricerche di antropologia economica sulla diaspora della paternità bangladese, sul sistema carcerario in Italia, sulla diversità religiosa a Roma e sulla funzione politica delle occupazioni a scopo abitativo. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: “Come si rimane. Diaspore religiose e strategie di permanenza culturale”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, Rivista trimestrale, 1/2020. “Il nodo gordiano e il filo di Arianna. La forma dello spazio nella crisi del Covid-19”, in Documenti geografici, 1 (ns), gennaio-giugno 2020. “De consolatione anthropologiae. Conoscenza, lavoro di cura e Covid-19”, in F. Benincasa e G. de Finis (a cura di), Closed. Il mondo degli umani si è fermato, Roma, Castelvecchi, 2020.

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>