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Abbiamo ancora bisogno dei musei demoetnoantropologici? Riflessioni a margine di un volume

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il centro in periferia

di Alessandra Broccolini 

L’occasione per tornare a riflettere sul futuro dei musei demoetnoantropologici ci è stata offerta dalla Biblioteca Calabrese di Soriano Calabro che nell’ottobre 2022 ha ospitato un incontro di presentazione del volume Patrimonio in comunicAzione. Nuove sfide per i Musei DemoEtnoAntropologici, pubblicato nel 2021 per le edizioni Museo Pasqualino e curato da Pietro Clemente, Lia Giancristofaro e dalla sottoscritta. Il volume raccoglie i contributi di un convegno che era stato organizzato presso l’università di Chieti nel 2019 dalla collega Lia Giancristofaro e dall’associazione SIMBDEA, la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici.

Pochi mesi prima della pandemia che molte cose ha cambiato, era stata per molti di coloro che si occupano di musei demoetnoantropologici l’ultima occasione per incontrarci e parlare di musei locali, prima dei due anni che ci hanno confinato a casa e che hanno visto “scivolare” con la chiusura dei musei, i piccoli musei territoriali ancora più in fondo nell’agenda delle priorità, sia nazionali che locali. Era stata anche l’ultima occasione per molti di incontrare Gianfranco Molteni, museologo che a lungo aveva lavorato nel sistema museale senese e fondatore di numerosi musei demoetnoantropologici. Gianfranco Molteni dopo qualche mese dal convegno sarebbe scomparso e in questo volume ci ha lasciato uno dei suoi ultimi testi.

L’associazione SIMBDEA ha sempre lavorato per tenere viva la riflessione sulla museografia locale, anche rischiando a volte di far apparire obsoleto e marginale il suo progetto e crede fermamente che i musei territoriali rappresentino una risorsa e un presidio territoriale, con un grande potenziale per le comunità locali, perché sono il prodotto di processi locali di patrimonializzazione connessi con il territorio e con una visione ampia del patrimonio culturale.

I musei cosiddetti “demoetnoantropologici” li conosciamo come musei che sono spesso nati da una museografia spontanea che il più delle volte non ha avuto il sostegno di particolari competenze scientifiche; musei “scalzi”, inquieti, come li ha definiti Mario Turci (Turci, 2021). E tuttavia, sono progetti che hanno rappresentato una rottura con la museografia tradizionale, perché hanno sfidato la concezione colta del museo inteso come luogo dell’élite e hanno aperto questo ad una fruizione locale e ad una funzione sociale legata al territorio e alla comunità. Sono stati i primi musei nati dal basso, i primi dispositivi culturali nei piccoli paesi a presentare il patrimonio culturale in una forma ampia, che vedeva l’oggetto inserito dentro il suo contesto; i primi ad aprire il patrimonio culturale al tema dell’immaterialità della cultura perché portavano e portano una visione della cultura che possiamo dire “antropologica”, dove l’oggetto non è fine a sé stesso, esposto e valorizzato nelle sue forme estetiche, o per la sua antichità storica, ma perché è inserito nel suo contesto territoriale, memoriale, affettivo, valoriale, conoscitivo, spirituale, quindi culturale, anche se in parte essi hanno riproposto la forma del museo di collezione, centrata sull’oggetto e sui temi del lavoro.

Chieti, convegno sui Musei

Chieti, convegno su Nuove sfide per i Musei etnoantropologici, 2019 (ph. O. Ranalli)

Nel contributo presente nel volume Gianfranco Molteni li chiama infatti ironicamente “i musei della zappetta”, o meglio era questo l’appellativo che i suoi colleghi senesi davano ai musei demoetnoantropologici quando si rivolgevano a Molteni; è un aneddoto che lui stesso racconta nel volume e che restituisce il tono lievemente dispregiativo e ironico con il quale la museografia classica guardava (e guarda) ai musei locali (Molteni, 2021). Musei di oggetti umili e poveri, intorno ai quali spesso è stata costruita una narrazione, un racconto, a volte di tipo didattico, altre volte più memoriale, un racconto spesso nostalgico e rivolto al passato, alla vita degli umili, al “com’era” prima della frattura prodotta dalla modernità.

Il volume mostra una ricchezza di esperienze locali, soprattutto abruzzesi, prodotte dai piccoli musei locali. Ma affronta anche delle questioni critiche sulla condizione attuale di questi musei, problemi che conosciamo bene, la crisi che attraversano, la loro mission, la precarietà degli allestimenti e della gestione, il problema degli standard, gli scarsi investimenti locali e regionali, la ripetitività e la ridondanza degli allestimenti, il problema della catalogazione, e a volte l’oblio cui sono relegati, anche a causa di una certa indifferenza locale. Sono temi che soprattutto Lia Giancristofaro affronta nel suo contributo sui musei abruzzesi (Giancristofaro 2021) e Gianfranco Molteni, che racconta delle difficoltà dei musei calabresi (Molteni 2021).

Chieti, convegno sui Nuove sfide per i Musei etnoantropologici, 2019

Chieti, convegno su Nuove sfide per i Musei etnoantropologici, 2019 (ph. O. Ranalli)

Fino a qualche anno fa eravamo piuttosto orgogliosi del primato che i musei demoetnoantropologici avevano a livello nazionale. Nelle statistiche nazionali l’ISTAT ci restituiva dei numeri molto alti e ci diceva che i musei demoetnoantropologici erano la categoria più numerosa di musei. Di questi, la maggior parte era costituita da quei musei “di civiltà contadina” che appartengono alla categoria “musei della zappetta”. Musei piccoli, piccolissimi, ma numerosissimi, spesso collocati in paesi demograficamente di piccole dimensioni, dove a volte rappresentano le sole realtà museali. Oggi però questo primato lo abbiamo perso; sappiamo che i musei demoetnoantropologici sono stati superati dalla categoria dei musei di storia dell’arte [1], anche se per molti musei locali è difficile individuare una categoria dove collocare il museo perché si tratta a volte di strutture al loro interno eterogenee.

Il mio stesso contributo nel volume si basava ancora su vecchi dati ISTAT. Non a caso avevo intitolato trionfalmente il mio articolo Sono 625 e parlano di noi. Musei demoetnoantropologici ed evoluzioni patrimoniali. Il numero 625 stava ad indicare il numero dei musei DEA presenti sul territorio nazionale; un numero che oggi, nel 2022 è notevolmente diminuito. Gli stessi dati mostrano infatti la chiusura di molti di questi piccoli musei dopo la pandemia [2], mentre gli altri che sono rimasti in vita, come scrive Molteni in questo volume, sono spesso dei musei-deposito, chiusi, polverosi, che faticano a trovare una connessione con il presente. Stanze della memoria e della nostalgia che non vivono dentro le comunità locali, se non quando si connettono al mondo della scuola diventando luogo di visita per studenti della scuola primaria.

Chieti, convegno sui Nuove sfide per i Musei etnoantropologici, 2019

Chieti, convegno su Nuove sfide per i Musei etnoantropologici, 2019 (ph. O. Ranalli)

La prima domanda che ci siamo posti con questo volume, e che continuiamo a porci da tempo, è quindi se abbiamo ancora bisogno di questi musei “demoetnoantropologici”, nella forma di musei della “cultura contadina” che hanno assunto originariamente, quale possa essere il loro ruolo nel contemporaneo; se possono essere solo oggetti di riflessione come esempi di museografia spontanea o se possiamo rinvenire in questi musei una mission più contemporanea.  Da tempo ci domandiamo se hanno nel tempo sviluppato progetti utili per mettere in valore e per raccontare oggi un territorio, per fare crescere culturalmente una comunità. E negli anni, come è noto, sono nate numerose esperienze alternative di musei etnografici che hanno sperimentato nuove forme di allestimento museale, più evocative, più comunicative, più svincolate sia dalla forma del museo-testo, del museo scientifico teorizzata da Cirese, che dalla museografia spontanea nostalgico-memoriale. Di queste forme alternative, Pietro Clemente e Vincenzo Padiglione sono stati i maggiori teorici in Italia come dimostra una densa stagione di dibattiti e una ricca letteratura che è stata prodotta negli ultimi trent’anni (Cirese, 1977; Clemente, 1996, 2004, 2021; Clemente, Rossi, 1999; Padiglione, 2001, 2006, 2008; Padiglione, Caruso, 2011; Lattanzi, Padiglione, D’Aureli, 2015).   

Per questa ragione, vista la forte eterogeneità delle esperienze museali locali, il primo lavoro che sarebbe urgente fare è quello che l’associazione SIMBDEA aveva provato a fare anni fa senza successo perché priva di risorse, ovvero un censimento nazionale di musei locali. Lo stesso Molteni nel corso del convegno nel 2019 ci aveva invitato a non abbandonare il progetto di un censimento nazionale. L’ultimo censimento nazionale risale infatti agli anni Novanta/Duemila (Togni, Forni, Pisani, 1997; MIBAC, 2002) e da allora le ricognizioni prodotte sui musei locali sono state parziali e soprattutto carenti sui processi di patrimonializzazione intrapresi da questi musei e sul ruolo da essi esercitato nella vita locale; le indagini esistenti sono spesso settoriali, limitate da prospettive localistiche e di incerta collocazione tematica, prive della necessaria attenzione alle dinamiche sociopoietiche che fanno del museo un potenziale indicatore di comunità patrimoniale. Assistiamo invece ad una grande eterogeneità di esperienze che questi musei hanno prodotto. A volte si tratta di luoghi più che altro memoriali, altre volte dialogano con le arti creative, altre ancora con la storia recente perché fanno riflettere sul mutamento, sullo strappo prodotto dalla modernizzazione e dalla scomparsa del mondo contadino, e connettono le generazioni abbracciando una evidente funzione pedagogica.

file-progetto-rovianoSi tratta di esperienze che implicitamente, anche se radicate in una prospettiva localistica, esprimono una visione territorialista perché parlano del territorio e dialogano con i temi della sostenibilità: fanno riflettere su alcuni valori che il territorio ha prodotto storicamente, nella vita della gente comune, e che oggi, con la crisi non solo climatica e ambientale, può forse servire per re-immaginare il futuro. Per rispondere quindi alla domanda, se abbiamo ancora bisogno del museo etnografico, la risposta implicita del volume è certamente affermativa, a patto però che il museo diventi capace di intercettare il presente del territorio e delle comunità locali, i bisogni della gente, che diventi una antenna sul territorio intercettando saperi, creatività, socialità, proponendosi come luogo di incontro, di raccordo, di discussione.

Museo della civiltà contadina di Roviano

Museo della civiltà contadina di Roviano

Ma in che modo i musei demoetnoantropologici possono fare ciò e trasformarsi da musei “della zappetta”, da stanze-deposito in antenne territoriali e presidi culturali? Tra i numerosissimi esempi delle possibili evoluzioni che i musei locali stanno sperimentando posso portare due casi nel Lazio. Il primo è il Museo della Civiltà Contadina “Valle dell’Aniene” di Roviano, un paese satellite di Roma città metropolitana, di circa 1200 abitanti e distante circa 50 chilometri dalla Capitale. Qui il locale museo demoetnontropologico da qualche anno, grazie al suo direttore, è riuscito ad aprire il museo, che ha un allestimento classico di collezione sulla cultura contadina della valle, ad una serie di iniziative che coinvolgono la comunità; prima fra tutte la ripresa di una pratica artigianale legata alla realizzazione di fantocci rituali, le pupazze, o le pupe, diffuse nei rituali di Lazio e Abruzzo. Si tratta di fantocci realizzati in cartapesta e struttura di canne e fil di ferro, che durante le feste nei paesi di Lazio e Abruzzo vengono fatte ballare da un ballerino che le “indossa” e poi bruciate in uno scoppiettante gioco pirotecnico. Da qualche anno il museo è diventato luogo di ritrovo dei “pupazzari” che qui trasmettono la loro arte di realizzare i fantocci, con laboratori che coinvolgono tutti e si concludono con occasioni conviviali, una esibizione rituale ed eventi culturali.

305308619_446980057449590_1705416242577014364_nIl secondo esempio recente vede coinvolto il Museo Antropologico delle Genti di Ciociaria ad Arce in provincia di Frosinone, realizzato nel 2004 dalla Comunità Montana Valle del Liri e della Regione Lazio. Anche in questo caso si tratta di un piccolo paese di 5000 abitanti con un museo costruito su una solida base scientifica e iconografica, con ricerche storiche e consulenze demoetnoantropologiche. Un museo inaugurato nel 2004, che non rientra nei classici musei di collezione di oggetti della cultura agropastorale, ma che vuole riflettere sul piano soprattutto storico-iconografico sulla Ciociaria, le sue rappresentazioni dal punto di vista dei viaggiatori e sulle sue trasformazioni. L’apertura del museo a istanze contemporaneiste è legata ad una recente iniziativa del suo direttore antropologo che ha fatto realizzare qui una “installazione etnografica” ispirata alla museografia di Vincenzo Padiglione, dedicata ad una varietà di pecora autoctona a rischio erosione genetica, la pecora quadricorna, che è stata diversi anni fa scoperta in pochi esemplari, studiata dall’ARSIAL, l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio e rimessa in allevamento da un appassionato locale.

Museo della Ciociaria

Arce, Museo Antropologico delle Genti di Ciociaria

L’istallazione, realizzata dalla scenografa, Carmela Spiteri, rappresenta un esemplare di pecora quadricorna realizzata con lana cotta e fil di ferro, nel cui ventre è possibile vedere un mondo “migliore”, composto da prati verdi e pecore festose al pascolo. Un sogno sul futuro che apre il museo ai temi dell’immaterialità e della biodiversità coltivata e allevata. Una occasione per aprire il museo ad un dialogo con gli allevatori dell’area e con le istallazioni e le arti creative. Un futuro possibile di un museo che potrebbe diventare luogo di visibilità e di conoscenza delle attività produttive locali nell’allevamento, ma anche per la biodiversità coltivata, spesso portata avanti da agricoltori invisibili e silenziosi.

Sono solo due piccoli esempi, i quali tuttavia si spiegano soprattutto grazie alla presenza nei due musei di direttori demoetnoantropologici. Bisogna infatti specificare che la Regione Lazio ha fin dalla fine degli anni Novanta promulgato una legge regionale che ha istituito nell’ambito dell’Organizzazione Museale Regionale, il Sistema Museale Tematico Demoetnoantropologico DEMOS, una rete di musei demoetnoantropologici, che riunisce sia i musei realizzati su base scientifica e professionale, sia esempi di museografia spontanea. Uno degli aspetti più significativi della rete Demos è nel fatto che sono musei diretti per statuto da persone formate con competenze demoetnoantropologiche. Questo aspetto non è di secondaria importanza, non solo perché imprime ai musei locali una dimensione professionale che si connette ad una funzione territoriale del museo, ma anche perché può offrire una possibilità di esperienza lavorativa professionale a molti giovani formati nelle scuole di specializzazione in Beni Demoetnoantropologici, pur nella penuria di mezzi e di risorse economiche nelle quali versano questi musei, i cui direttori appaiono spesso degli eroi solitari mal retribuiti.

logomuseidemossubiancoPer evitare che quelli che ho illustrato finiscano per diventare esempi sporadici è evidente che la potenzialità che i musei demoetnoantropologici mostrano nei confronti di una apertura al territorio contemporaneo debba essere supportata da un lato dalla presenza di competenze professionali demoetnoantropologiche in campo museale, dall’altro dalla capacità degli enti locali regionali di sviluppare censimenti regionali e reti museali con investimenti economici che esprimano la volontà di immaginare il museo come luogo di investimento anche affettivo e culturale da e per il territorio.

Il museo demoetnoantropologico può e deve saper dialogare con la comunità sui temi di interesse per il futuro, deve saper ricucire la storia, praticare un dialogo intergenerazionale, sperimentare forme di creatività culturale, riflettere sui temi locali della sostenibilità, sostenere la biodiversità locale, promuovere la cultura territoriale e i suoi prodotti. Sono tutti obiettivi e un lavoro che solo in parte può ricadere sulle realtà locali, sui comuni, sulle realtà associative locali o sui direttori, ma che necessita di risorse e di un lavoro di raccordo regionale, di investimenti sul capitale umano e simbolico, oltre che potenzialmente economico, espresso dai paesi.

Oggi, come sottolinea Pietro Clemente nel saggio di apertura al volume, le definizioni, le norme e il dibattito nazionale e internazionale sui musei e sul patrimonio culturale sono cambiati. Ne sono testimonianza le convenzioni internazionali, promosse dall’UNESCO e dal Consiglio d’Europa, le raccomandazioni UNESCO sui musei, le discussioni sviluppate in seno all’ICOM, l’esperienza italiana della Carta di Siena. Si va sempre più riconoscendo la funzione sociale del museo nel territorio, sempre più smaterializzata, quindi aperta all’immateriale e soprattutto in stretto dialogo con l’eterogeneità delle comunità locali e non più solo in dialogo con il progetto di un’attrattività turistica. Il museo sempre più viene visto come un attivatore di comunità, di partecipazione. E in questa evoluzione patrimoniale, sono stati proprio i piccoli musei locali a giocare, spesso in modo invisibile, un ruolo importante proprio per i motivi che abbiamo sottolineato; perché sono stati nella loro “povertà” di risorse, nel loro spontaneismo, pionieri di una visione ampia del patrimonio culturale e sovente nati dal basso, quindi da gruppi locali che si erano già attivati con progetti di patrimonializzazione.

In questa evoluzione patrimoniale cui sono andati incontro i musei un ruolo determinante lo hanno giocato gli ecomusei, realtà delle quali non si parla nel volume, ma alle quali è necessario estendere la discussione. Gli ecomusei hanno avuto e stanno avendo un grande successo in Italia e nel mondo (De Varine 2022) e il dibattito sulla loro diffusione e sulle esperienze che hanno prodotto è ampio ed impossibile da riassumere (Jalla 2011; Maggi, 2004; Grasseni, 2010). È utile, tuttavia, sintetizzarne brevemente alcuni aspetti che ci aiutano a raccordare gli ecomusei ai musei locali.  

Il primo aspetto è la messa in pratica di una nozione ampia di patrimonio culturale, che supera la tradizionale classificazione dei beni culturali, perché non solo fa dialogare i diversi beni culturali presenti in un territorio, beni storico-artistici, archeologici, demoetnoantropologici, così come il Codice li riconosce, ma si rivolge ad un patrimonio culturale ampio, liberandolo da un oggetto e da un contenitore esclusivo, ma guardando al contrario al territorio e soprattutto alla comunità di fruitori. In secondo luogo, l’ecomuseo lavora con e per le comunità presenti in un territorio avendo come destinatari gli abitanti di un territorio. E quindi affranca il museo da una visione esclusivamente centrata sul turismo o su una concezione colta del sapere. Infine, gli ecomusei guardano in modo permanente alla sostenibilità perché partono da una concezione/visione territorialista, intesa come prodotto dell’incontro (Alberto Magnaghi direbbe della “fecondazione”; Magnaghi, 2010) tra ambiente naturale e attività umane.

9788880497646_0_536_0_75Gli ecomusei nascono da progetti orientati al territorio e non si basano in modo esclusivo su una collezione collocata dentro un contenitore. Sono quindi dispositivi che guardano anche ad una funzione sociale del patrimonio e di educazione al territorio. Nella forma degli “ecomusei di comunità” gli ecomusei rappresentano un’evoluzione del paradigma museale classico, in dialogo in modo più esplicito e dichiarato con le risorse territoriali e con i suoi attori nel presente. Si tratta di progetti che oggi superano le 250 unità sparse sul territorio nazionale [3] e che hanno visto la nascita di diverse legislazioni regionali dedicate. Gli ecomusei rappresentano l’evoluzione verso un patrimonio 2.0 che guarda in maniera consapevole non più ad un museo-contenitore, tempio del genio creativo di pochi (Cameron 1971), ma ad un museo-forum che vuole coinvolgere l’intera comunità nei suoi patrimoni materiali e immateriali, come saperi, pratiche locali, rituali festivi, forme dell’abitare. Anche gli ecomusei presentano progetti fortemente eterogenei che richiederebbero una mappatura che ne valuti la partecipazione delle diverse comunità, le dinamiche di patrimonializzazione e la reale efficacia partecipativa contenuta nella loro mission.  

I rapporti tra ecomusei e musei demoetnoantropologici non sono stati sempre pacifici e inclusivi soprattutto da parte degli ecomusei che spesso si sono posti in discontinuità rispetto al museo demoetnoantropologico, avendo come obiettivo il superamento della forma del museo di collezione. La nascita di legislazioni dedicate agli ecomusei in quasi tutte le regioni italiane non ha favorito una integrazione fra i due modelli museali (Clemente 2018). Solo in alcuni casi gli ecomusei hanno accolto e integrato il museo locale aiutando questo a condividere un progetto più ampio. Eppure, i progetti ecomuseali, soprattutto nelle aree più marginali, spesso sono nati proprio perché esistevano esperienze pregresse di museografia demoetnoantropologica.  

Per concludere questa breve riflessione a margine di un volume che ha voluto rilanciare una riflessione su un nuovo possibile ruolo per numerosi musei locali disseminati nel nostro Paese, posso solo sottolineare da un lato la necessità che si pervenga con progetti di scala nazionale ad una mappatura delle esperienze museali ed ecomuseali per valutarne la mission, il ruolo esercitato localmente e la connessione con il territorio, e dall’altro la necessità di favorire esperienze di rete tra esperienze museali che operino per un superamento delle frizioni tra musei demoetnoantropologici ed ecomusei; le quali frizioni, se per un antropologo rappresentano sempre un interessante oggetto di fieldword etnografico per decostruire i processi di patrimonializzazione locali, a volte costituiscono un ostacolo per dare visibilità  a progetti museali che restituiscano una centralità ai territori. 

Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Note
[1] https://www.istat.it/it/files//2019/12/LItalia-dei-musei_2018.pdf (consultato settembre 2021)
[2] https://www.istat.it/it/files//2022/02/REPORT_MUSEI-E-ISTITUZIONI-SIMILARI-IN-ITALIA.pdf.
[3] https://sites.google.com/view/ecomuseiitaliani/home 
Riferimenti bibliografici 
Cameron, D. F., “The Museum, the Temple or The Forum”, in Curator, a. XIV, 1971: 11-24. 
Cirese, A.M, Oggetti, segni musei. Sulle tradizioni contadine, Torino, Einaudi, 1977 
Clemente, P., Graffiti di museografia antropologica italiana, Siena, Protagon editori, 1996. 
Clemente, P., Museografia e comunicazione di massa, Roma, Aracne, 2004. 
Clemente, P., “Rete dei piccoli paesi, musei, patrimonio”, in Dialoghi Mediterranei, n. 38, 2018. 
Clemente, P., Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche nel nuovo millennio, Palermo, Edizioni Museo Pasqualino, 2021. 
Clemente, P.; E. Rossi, Il terzo principio della museografia. Antropologi, contadini, musei, Roma, Carocci, 1999. 
De Varine, H., L’ecomuseo singolare e plurale, Gemona del Friuli, Utopie concrete, 2022.
Giancristofaro, L., “Oggetti, periferie, memorie: allontanare lo sguardo per imparare a immaginare”, in A. Broccolini, P. Clemente, L. Giancristofaro (a cura), Patrimonio in comunicAzione. Nuove sfide per i Musei DemoEtnoAntropologici, Palermo, Edizioni Museo Pasqualino, 2021: 97-126. 
Grasseni, C. (a cura), Ecomuseologie. Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Rimini, Guaraldi, 2010. 
Jalla, D., “Oltre l’ecomuseo”, in S. Vesco (ed.), Gli ecomusei. La cultura locale come strumento di sviluppo, Pisa, Felici editore, 2011. 
Lattanzi, V., V. Padiglione, M. D’Aureli, “Dieci, cento, mille musei delle culture locali”, in M. Salvati, L. Sciolla (a cura), L’Italia e le sue regioni, vol. III Culture, Roma, Istituto per l’Enciclopedia Treccani, 2015: 153-173.  
Maggi, M., Gli ecomusei in Piemonte: situazioni e prospettive, IRES, Torino, 2004. 
Magnaghi, A., Il progetto locale: verso la coscienza di luogo, Torino, Boringhieri, 2010. 
MIBAC, Il patrimonio museale antropologico. Itinerari nelle regioni italiane, riflessioni e prospettive, Roma, Cangemi, 2002. 
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Padiglione, V., a chi mai aveva visto niente. Il Novecento, una comunità, nuovi racconti, Roma, edizioni Kappa, 2001. 
Padiglione, V., Storie contese e ragioni culturali. Museo del brigantaggio, Itri, Edizioni Odisseo, 2006. 
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Togni, R., G. Forni, F. Pisani, Guida ai musei etnografici italiani: agricoltura, pesca, alimentazione e artigianato, Firenze, Olkhski, 1997 
Turci, M., “Sempre inquieti. Musei e restituzione patrimoniale”, in A. Broccolini, P. Clemente, L. Giancristofaro (a cura), Patrimonio in comunicAzione. Nuove sfide per i Musei DemoEtnoAntropologici, Palermo, Edizioni Museo Pasqualino, 2021: 27-32. 
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Alessandra Broccolini, professore associato di antropologia culturale presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Sapienza Università di Roma, si occupa di antropologia dei patrimoni culturali e di patrimonio culturale immateriale. Dal 2016 è presidente di SIMBDEA. Ha svolto ricerche in Italia su fenomeni festivi, carnevali, politiche dell’identità, saperi legati alla biodiversità, ecomusei e processi partecipativi nel patrimonio culturale. Ha svolto numerosi lavori di ricerca e inventario sul patrimonio etnoantropologico, materiale e immateriale per enti pubblici nazionali e regionali. Tra le pubblicazioni recenti: Santi, Pantasime e Signori. Feste della Bassa Sabina, Roma, edizioni Espera, 2013 (a cura di Alessandra Broccolini ed Emiliano Migliorini); “Intangible Cultural Heritage Scenarios within the Bureaucratic Italian State”, in Regina F. Bendix, A. Eggert and A. Peselmann (eds.), Heritage Regimes and the State, Gottingen, Universitatsverlag, 2012; e “Carnevali indigeni del XXI secolo” (a cura di K. Ballacchino e A. Broccolini), Archivio di Etnografia, n.s., a. X, n. 1.2 2017.

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