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A Ballarò. Saggio di foto-antropologia dialogica

 

Incominciare (ph. Stefano Montes)

Incominciare (ph. Mattia Montes)

di Stefano Montes 

Io lo guardo distrattamente, mentre lui direttamente: negli occhi. Io guardo di traverso, lui diritto. È come se ognuno di noi fosse la cornice dello sguardo dell’altro. E non è una novità, per me, al mercato, a Ballarò: ci si muove in un costante divenire di incorniciamenti della realtà, degli oggetti, degli sguardi altrui e, persino, dei corpi. Lui è il fruttivendolo del mercato: uno dei tanti. È all’angolo e mi guarda. Mi aggancia con gli occhi. Cerca di farlo. Mi dice con voce ferma, tuttavia non gridata, non abbanniata: Muluni ruci, bellu ruci. Tu rugnu! (Anguria dolce, molto dolce. Te la do!).

Gli sorrido, passo avanti, con indifferenza – forse eccessiva, forse troppa, non è da me – perché non ho intenzione di comprarla, l’anguria, e mi faccio scudo. Non mi fermo! Ce ne sono davvero tante, tutte ammucchiate, le une sulle altre, sulla bancarella, in giro per il mercato, ovunque. Non posso fare a meno di soffermare lo sguardo sul mucchio scomposto di angurie, sorpreso dal sole impigrito, caldo. Un bel mucchio, pittoresco! Guardandole, anche rapidamente, si ha questo strano, involontario effetto: sembra di sentire il fresco sulla pelle, il sapore dolciastro in bocca. Sembra di sentirlo sotto forma di colore: il rosso in bocca, il profumo al tatto. Le angurie sembrano tutte buone allo sguardo: fiammeggianti, stuzzicanti per il palato, in innocua attesa di essere divorate dai passanti, persino con i soli occhi. I sensi sono in subbuglio, direi, a una semplice occhiata: confusi e soddisfatti. Esagero? Beh, sono in tono con il luogo.

A Ballarò, l’iperbole impera. Persino il colore attira e fa cenno, ma io non cedo: passo oltre, senza indugio, senza attendere. ‘Sento di capire’, forse per la prima volta di fatto, cosa sia una sinestesia nella sua barocca, piena amplificazione; ‘sento di sentire’ il suo concreto effetto, indistintamente, nel corpo e nella mente. Riconosciamolo: oggetti e cose non sono mai semplicemente tali, dati in una prospettiva puramente contemplativa. «Le cose non sono davanti a noi come semplici oggetti neutri da contemplare; ogni cosa simbolizza per noi un determinato comportamento, ce lo ricorda, suscita in noi reazioni favorevoli o sfavorevoli, ed è per questo che i gusti di un uomo, il suo carattere, l’attitudine che ha assunto nei confronti del mondo e dell’essere esterno si leggono negli oggetti di cui si circonda, nei colori che preferisce, nei luoghi in cui sceglie di passeggiare» (Merleau-Ponty 2002: 36).

Sento tutto questo con il corpo e con la mente, ma vado oltre, continuo a passeggiare, mi dirigo verso la piazza. Che vuol dire andare oltre? Indica soltanto una discontinuità spaziale? Vuol dire, più esattamente, che io non abbocco, non compro, mi tengo al di qua di una linea di separazione. Mi sento tuttavia in colpa. Non dovrei. Non viviamo, forse tutti, all’interno di linee di separazione reali o immaginarie? Io non faccio eccezione. Io non sono altro che me stesso per istituzione di separazione – individuale e collettiva – con altri luoghi, con altre persone e tempi: ciò che conta è esserne consapevoli, decostruire l’istituirsi e se stessi nel corso del tempo, nel rivalersi dello spazio che accoglie o rifiuta. Io non sono ‘io’ se non per reazione ai modi in cui prossimità e distanza si riconfigurano nella mia stessa coscienza e nel dialogo con altri che ha luogo anche attraverso il corpo e i sensi. Io non sono ‘io se non per interazione – instaurata o da stabilire – con ciò che è altro da me. Accettare a fondo questo aspetto relativo all’alterità – vista in stretta connessione, non soltanto oppositiva, con l’identità a cui ricongiungersi – «dovrebbe generare una nuova dimensione della coscienza che noi chiameremo, seguendo Segalen, esotica, nella misura in cui essa cerca di accogliere ciò che è alieno e di elaborarne una teoria» (Affergan 1991: 6-7).

Io sono al mercato di Ballarò per comprare altro, non le angurie, anche se il rischio – nonché il piacere parallelo – dei grandi mercati popolari è proprio questo: lasciarsi andare ad acquisti non previsti, sovente incontrollabili. Ogni volta che vado al mercato, infatti, ho un’idea di ciò che devo comprare, torno poi a casa con altro, con tanto altro. Al mercato, la pianificazione degli eventi – una lista della spesa, benché in misura ridotta, lo è – può cedere il passo agli imprevisti prodotti fruttuosamente dalle interazioni con i venditori e con la merce stessa che esercita, già con la sua esposizione d’ordine finemente estetico e seduttivo, una forte attrazione sull’eventuale compratore indeciso. Passo avanti, quindi, senza comprare l’anguria, ma mi chiedo che cosa avrà voluto dire il fruttivendolo con “te la do!”. Voleva forse dire che il prezzo era buono e che l’anguria era una sorta di regalo? Avrei dovuto chiederglielo e interagire. Davvero, avrei voluto! Perché non l’ho fatto? Ho avuto un piccolo momento di incertezza, mi sono detto in una frazione di secondo: faccio una sosta, vediamo cosa mi racconta per convincermi e portare a termine l’operazione iniziata con il suo ‘sguardo che aggancia’ compratori. Ma non mi sono fermato. No, non l’ho fatto. Non ho voluto.

Il mercato come figura retorica (ph. Mattia Montes)

Il mercato come figura retorica (ph. Mattia Montes)

Ho altro per la testa. Ho il pensiero alla realtà, a come coglierla, a come risiedere nel divenire e trasporlo in un testo che renda – benché per inevitabile discontinuità – l’esperienza che vivo al momento, nel flusso. La realtà è davanti ai miei occhi, o no? Non direi, non proprio! È più complicato di così. La realtà sta anche al di qua degli occhi, al di qua di una sorta di balcone a cui pensiamo di essere sempre affacciati. La realtà è anche interiore e immaginaria, posizionata e contestuale. La realtà, in un mercato come Ballarò, è trasposta in figure retoriche compresse, sovrapposte e ricomposte. Si potrebbe parlare, senza esagerare, del mercato come compresenza di figure retoriche. Si potrebbe dire che il mercato è esso stesso figura retorica. Intanto, se lo avessi fatto, se avessi fatto una sosta, sarebbe stato difficile dire, in seguito, che non volevo comprare niente: che non ero interessato all’acquisto. Come avrei potuto sganciarmi a cose fatte, a interazione intrapresa? Una negoziazione richiede sempre un compromesso e un accomodarsi all’altro, alle sue intenzioni e interazioni in corso.

Siamo sempre nel reciproco accomodamento con noi stessi e con l’altro. Ogni tipo di interazione richiede un incipit di incontro – un aggancio che può essere un semplice sguardo di simpatia o attenzione – e un explicit di sganciamento che consente di allontanarsi, di tirarsi fuori dall’interazione intrapresa, senza offendere l’interlocutore e le sue aspettative. Resta il fatto che, anche quando ci rifiutiamo, siamo in pieno nell’interazione con noi stessi e con gli altri, con i nostri pensieri e fantasie. Le cose si complicano piacevolmente in ogni caso: io guardo qui e lì, ma devo fare attenzione anche a ciò che sta al di qua, al mio stesso posizionamento e ai miei fluidi pensieri; io guardo e interagisco con altri e con me stesso, con gli stessi aggiustamenti che apporto al mio piano d’azione iniziale. I pensieri corrono. I pensieri vanno all’etnopragmatica e allo studio delle interazioni in atto, eventualmente sulla base di registrazioni che consentono di rivedere infinite volte l’accaduto e analizzarlo in seguito con più calma. Intendo registrare anch’io? Intendo rivedere l’accaduto al di fuori della cornice presente all’interno della quale mi sto soprattutto situando in partecipe divenire? È un’ottima strategia di analisi, ma non voglio adesso. No, voglio fare altro questa volta.

Voglio lasciare che spizzichi di progetto – discussi in comune con Mattia, fotografo e co-autore – prendano il loro libero, irregolare corso durante il mio – e suo – tragitto in atto al mercato. Voglio cercare di rimanere il più possibile nel divenire di tempo e azioni senza irreggimentarmi più di quel che basta. Questo lavoro lo penso come «an experiment not a judgment. Committed not to the demystification and uncovered truths that support a well-known picture of the world, but rather to speculation, curiosity and the concrete, it tries to provoke attention to the forces that come into view as habit or shock, resonance or impact» (Stewart 2007: 1). Non valuto anzitempo, semmai mi proietto: nel processo, nel dialogo con Mattia, nella trasposizione in figure retoriche caratterizzanti, ai miei occhi, il mercato quali effettivamente sono la sinestesia e l’iperbole. So, con certezza, che si interagisce con lo sguardo, oltre che con le parole. Lo sguardo conta e detta persino legge. Lo sguardo incornicia e viene incorniciato. Il mulunaro (il venditore di angurie) ha cercato di agganciarmi con lo sguardo, io non mi sono concesso. Ma non è tutto. C’è di più. C’è, per esempio, il fluire dei pensieri, sovente trascurato nelle scienze sociali che non focalizzano debitamente l’attenzione sulla realtà in chiave non-rappresentazionale.

Non è ‘realtà’ anch’esso, a suo modo, il libero fluire dei pensieri? Che pensavo, per esempio, in quel momento e cosa mi ha portato ad agire in quel modo? Una teoria non-rappresentazionale – come la definisce Thrift per esempio – «follows the anti-substantialist ambition of philosophies of becoming and philosophies of vitalist intuition equally – and their constant war on frozen states» (Thrift 2008: 5). Anche il pensare può essere dunque visto come un movimento ed entrare di diritto negli oggetti di studio dell’antropologo con – almeno – una duplice valenza epistemologica e orientata: prendendo posizione su cosa esso sia; prendendo posizione su come pensarlo (Geertz 1988: 193). Mi viene improvvisamente in mente Che ci faccio qui? È il titolo di un libro di Chatwin che si adatta al mio contesto. Ognuno di noi dovrebbe sempre chiederselo – cercare il motivo esistenziale della sua presenza in un posto – se non altro per esaminare, da vicino e da lontano, il rapporto che si crea tra la vita e i contesti variabili in uso e prenderne coscienza. Io ho uno scopo? L’esistenza stessa non è forse un andare verso la realizzazione di qualche scopo? Verso cosa tendo io in quanto individuo sociale? Che ci faccio, qui, in questo momento? Io sono un ‘io’ nello spazio – come chiunque altro, d’altronde, in genere – il cui senso proprio deriva anche dal suo stesso posizionarsi da una parte e dall’altra, in una direzione o l’altra del mondo in cui viene inevitabilmente proiettato, qualcuno direbbe scagliato.

Io sono al mercato per comprare del pesce e fare, soprattutto, qualche foto. In parallelo, penso alla realtà del mercato, al suo significato. Ho un minimo scopo da portare a termine e mi basta per sentirmi rassicurato rispetto alla più generale ideologia del fare a tutti i costi; al contempo, penso in chiave auto-etnografica all’accadere degli eventi tutt’intorno a me. Niente di apparentemente complicato di primo acchito. Non sembrerebbe! Mi dirigo verso la piazza centrale del mercato. Vado. Con comodo. È l’occasione per percorrere piacevolmente uno spazio e, allo stesso tempo, per percorrere spizzichi di me stesso. Non ho motivo di affrettare il passo. Non ne ho motivo. Non lo faccio. Ho tutto il tempo che mi occorre e voglio. Mi godo questa strana sensazione di leggerezza che mi prende al mercato al cospetto di forme barocche, di oggetti accumulati, di persone che si accalcano.

Il troppo pieno (ph. Mattia Montes)

Il troppo pieno (ph. Mattia Montes)

Il mercato è, se dovessi dirlo in qualche parola, il luogo del troppo pieno. Io, da parte mia, coniugo il piacere della deambulazione con l’esigenza di dover acquistare qualcosa di spiccio da mangiare. Ho una passione per la deambulazione se non altro per una ‘ragione etnografica’: si è sempre in una situazione di compresenza di opposti movimenti temporali. Si passeggia nel tempo che diviene improrogabilmente, come sempre, senza arresto; invece, appuntandosi l’accaduto di tanto in tanto, il tempo tende a fermarsi e trasformarsi in enunciato scollato dall’irrompere incessante del presente del soggetto: i due movimenti sembrano inconciliabili, riversati in opposte direzioni. Passeggiando e appuntando, cosa succede per l’esattezza? Ne vogliamo parlare? Parlando parlando si chiariscono le idee. Perché si diventa più consapevoli delle classificazioni implicite che utilizziamo. Perché «il linguaggio è prima di tutto una classificazione e una disposizione del flusso dell’esperienza sensoriale che si traduce in un certo orientamento del mondo» (Whorf 1970: 39). Perché, parlando e trascrivendo, oltre che fotografando e immaginando, il soggetto viene alle prese con temporalità diverse: inconciliabili ma rivelatrici. Se si combinano le due azioni (passeggiare e appuntarsi l’ordine dell’accaduto per iscritto), divenire ed essere arrivano ai ferri corti: producono una disarticolazione di quel radicamento che ci è tanto caro, ma che è anche sinonimo di irrigidimento. Radicamento e decentramento si succedono, vengono in indubbio attrito. Semplicemente, succedono! E un nuovo modo di vedere le cose potrebbe prendere corpo. Speriamo!

La novità mi aggrada, la novità arricchisce. Io non mi pongo limiti. Io non mi curo particolarmente di quello che mi succede interiormente: ne prendo atto. Non mi curo di dirigere i miei pensieri: li osservo scorrere. Li osservo, mi osservo, osservo gli altri. Sono nel flusso. Passeggio e scatto foto, tra un pensiero e l’altro, tra l’affiorare di un senso o l’altro, nel loro rincorrersi, nel loro fondersi in un tutt’uno sinestesico. Qui, a Ballarò, a nessuno dà fastidio se si scatta qualche foto. Ci sono abituati, tutti quanti, con i tanti turisti che vengono e fotografano – sorridenti e ammiccanti – una cosa e l’altra, un venditore o l’altro! E, in qualche modo, è come se lo fossi anch’io un turista, come se fossi altro da me stesso: perché adotto, al loro pari, uno sguardo vergine, da lontano – prendo le distanze da me stesso, dalla mia sicilianità, dalla mia stessa prospettiva situata – per cercare di capire quali meccanismi si mettono in gioco in un luogo così particolare, vivace e divertente, che ricade sotto il mio sguardo angolato, sregolato, mentre mi muovo con noncuranza al suo interno secondo un duplice movimento metaforico e letterale.

Osservo da lontano, poi mi avvicino: oscillo. Sono nella prossimità, abbandono la distanza; torno alla prossimità, subito dopo, mi riavvicino. Alterno senza requie, senza scosse: la prossimità e la distanza. È un conseguente intersecarsi di prospettive; è un andirivieni epistemologico che permette di meglio addentrarsi nei meandri caotici e sfuggenti del mercato. In questo modo, va favorevolmente in scena un processo di variabilità di soggettivazioni e oggettivazioni. E gli oggetti vanno verso un divenire-soggetto e i soggetti a loro volta vanno verso un divenire-oggetto. Io sono in movimento, in quanto soggetto; mi confondo con altri oggetti, divento cornice oggettivata d’altri sguardi. Ed è, questa, una questione di cui tenere conto – adesso, nonché in seguito, se possibile – se non altro perché pensiamo sovente di essere soggetti radicati e immutati nella nostra identità di sempre: soggetti immobili. In realtà, non siamo altro che entità mobili sottoposte a un continuo processo di tensione tra il polo della soggettività e dell’oggettività – entrambe mutate in processo – dell’essere umano e del mondo, in relazione tra loro e con lo spazio cangiante oltre che con il tempo mutante. D’altronde, secondo Lévi-Strauss questo aspetto d’intimo dinamismo è strettamente legato alla conoscenza antropologica: «Non sarebbe possibile nessuna conoscenza se non si distinguessero i due momenti [la prossimità e la distanza]; ma l’originalità dell’indagine etnografica consiste in questo va-e-vieni incessante» (Lévi-Strauss 1988: 214). Forse Lévi-Strauss, a suo tempo, non pensava a una declinazione più fenomenologica della sua ipotesi conoscitiva, ma la sostanza non cambia nella sua ampia pertinenza gnoseologica: mettendo in primo piano il va-e-vieni metodologico ed esistenziale, l’incursione conoscitiva diviene più decentrata, meno radicata su un solo punto di vista individuale e monolitico. È necessario precisare – ancora – che l’andirivieni di cui parlo non riguarda soltanto lo sguardo da lontano che coglie l’insieme e lo sguardo da vicino che si sofferma sui dettagli. Non solo. L’andirivieni, in un mercato come Ballarò, riguarda inoltre un movimento duplice che si produce tra la rappresentazione e la ricezione. In un mercato si è particolarmente consapevoli, riflessione fatta, sul principio che il soggetto osservatore è, da una parte, alle prese con qualcosa che si pone sotto i suoi occhi come rappresentazione oggettivata, ma, dall’altra, è anche una sfida continuamente posta alla sua ricezione di ciò che vede e sente in chiave più soggettiva. Il mercato è il luogo in cui è molto difficile separare i due movimenti. Il mercato è il luogo in cui la rappresentazione oggettivata e la ricezione soggettivante tendono a incontrarsi.

La rappresentazione e la ricezione (ph. Mattia Montes)

La rappresentazione e la ricezione (ph. Mattia Montes)

Detto questo, precisate alcune questioni di fondo e di superficie, che si fa all’osso in un mercato? Si vende e si compra la mercanzia, ovviamente, ma non solo. Lo si ‘attraversa’, il mercato, interagendo con se stessi e con altri, con soggetti e con oggetti, creando un percorso ‘attraverso’ alcune scelte casuali e intenzionali; il ‘soggetto stesso che attraversa’ diviene uno spazio di scelte da oggettivare nel processo e di scelte oggettivate a cose fatte; più che uno spazio statico e immobile, così, il mercato diviene un processo vero e proprio, oltre che un’interrogazione – posta al soggetto, dal soggetto – sul suo darsi e compiersi nell’azione. Il fatto è che la coscienza stessa si spazializza; di rimando, lo spazio risulta essere dispositivo di raccoglimento e disvelamento della soggettività: le due cose vanno insieme (Lotman, Uspenskij 1975). Il fatto è che siamo e rimaniamo un ‘fuori’ da attraversare per meglio capire l’altro: «in ogni istante, ogni persona è ‘soggetto’ per se stessa e costituisce l’’ambiente’ per gli altri: tutto ciò che è ‘dentro’ per il soggetto è ‘fuori’ per l’Altro. Infine, per diventare essere sociale, il soggetto deve imparare a osservarsi, sotto certi aspetti, e soprattutto nelle relazioni intersoggettive in quanto ‘fuori’, in quanto ambiente per gli altri» (Devereux 1975: 64). In una parola: il dentro e il fuori richiedono un apprendistato. E non solo. Il soggetto dovrebbe – deve – guardarsi anche dall’esterno per acquisire i tratti della socialità e tornare a se stesso arricchito. Dovrebbe divenire non soltanto un principio antropologico ma, anche, un esercizio pedagogico da applicare nelle scuole, nelle università, ovunque sia possibile. La dialettica del dentro e del fuori ha avuto ottimi interpreti anche al di fuori dell’antropologia. Bachelard, per esempio, ha dedicato un bel capitolo alla questione (Bachelard 1975).

Qui, al mercato, ciò che più risalta ai miei occhi (e, in parallelo, agli occhi ‘fotografici’ di Mattia) è l’incrocio strettissimo di alcune categorie più tipiche della riflessione antropologica: per esempio il dentro e il fuori, ma anche – in modo sorprendente – il (troppo) pieno e il (troppo) vuoto. Il mercato è quel luogo dell’accumulo, sotto forme diverse, di queste categorie. Il mercato, nell’immaginario comune, è il luogo in cui si va a comprare di tutto, dove si trova di tutto. C’è troppo e si trova tutto. Il mercato, sorprendentemente, è anche quel luogo in cui, a sera, impera il troppo vuoto.  Non è il mio caso. Io, in pieno giorno, passo da una bancarella all’altra al momento; io scatto foto. Non faccio altro. Scatto: a volte, a casaccio; altre volte, con intento. Mi servo delle foto, ma non le concepisco a fini puramente estetici: sono per lo più appunti visivi, una sorta di ricognizione in divenire della mia stessa esplorazione – soggettivante e oggettivante – che traspongo in testo scritto. Mattia, mio figlio, dice che me ne servo come se fossero delle polaroid. Mi piace l’accostamento. Mi piace pensare per traslati: l’idea che ci sia un implicito trasporto mi conviene. Il bello delle polaroid è che i risultati dello scatto si possono vedere subito, senza dover aspettare lo sviluppo della pellicola. Nel tempo, ormai divenute obsolete, le polaroid sono state sostituite – dal punto di vista più vantaggioso degli effetti e della concreta convenienza economica – dagli apparecchi digitali. Un elemento concettuale va ribadito in ogni caso: in passato, le polaroid erano utili non soltanto per vedere subito la foto e ricadere nello slancio dell’entusiasmo generale degli astanti ma, anche, a un fotografo, in alternativa, per avere un’idea di ciò che si stava facendo e correggere eventuali errori di pianificazione dell’oggetto ritratto. Insomma, le polaroid servivano per pensare in anticipo quello che doveva poi essere il risultato finale: per andare avanti e indietro nel tempo. Per professionisti e per fotografi della domenica, poi, indistintamente, le polaroid erano la prova che la realtà abbisogna spesso di filtri per una sua migliore approssimazione. Che si faceva? Si guardava la foto, si comparava l’immagine e il referente, si tornava a fotografare o fare altro.

Il troppo vuoto (ph. Mattia Montes)

Il troppo vuoto (ph. Mattia Montes)

L’allusione, da parte di Mattia, alle polaroid mi fa pensare a un felice incastro associativo di immagini e scritto, di appunti e testo finale. È la mia idea di ricerca, più in generale, in antropologia: servirsi di tutti i dispositivi – traducendone forme e contenuti dall’uno all’altro – di cui ci si può avvalere al fine di cogliere meglio il reale e, persino, il surreale. L’idea più ingenua è che l’antropologo è un soggetto alle prese – dirette – con la realtà degli altri, con la loro cultura specifica. L’idea che, invece, più difendo – qui e altrove – è che l’antropologo è anche colui il quale si avvale di tutti i dispositivi possibili, per approssimarsi all’altro, traducendone senza sosta i contenuti da un dispositivo all’altro. Un telefonino, una polaroid, una foto, la lingua stessa, sono tutti dispositivi che consentono forme di traduzione tra loro e con la realtà altra! Secondo Lotman, «la stessa natura dell’atto intellettuale può essere descritta nei termini di una traduzione» (Lotman 1993: 16). Quindi? Descriviamo, descriviamoci! Tanto più che il ‘troppo pieno’ del mercato ha un altro effetto non meno importante: nell’accumulo di cose, i soggetti hanno tendenza a trasformarsi in oggetti, ad assumere mimetismi oggettivanti, mentre gli oggetti tendono a confondersi stranamente con i soggetti che li indossano o dei quali sono circondati.

Si potrebbe parlare di soggettivazioni e oggettivazioni. Si potrebbe pensare a Deleuze e alla sua idea di un continuo divenire-altro di cose e persone. Io, al mercato, applico lo stesso principio: mi lascio andare, tendo a divenire ciò che vedo e incontro. Lo faccio senza impegno: per lasciare libero spazio all’immaginazione. Fa parte del progetto che abbiamo messo in opera io e Mattia. Più che rivelare verità sotterrate, intendiamo dare un’idea delle linee di forza attanziali e attoriali che reggono la complessità di Ballarò. Siamo d’accordo. Siamo, noi stessi, termini di reciproca comparazione. Io scatto qualche foto, la guardo, la rifaccio, ci penso, traduco in altri termini, capisco meglio, ci ripenso. E lo stesso vale per Mattia. Se capita, io prendo qualche appunto vero e proprio, su carta. Mi fermo e scrivo. Annoto ciò che mi passa per la testa su un taccuino. Cosa esattamente? Quello che succede, le interazioni, i modi di dire e vendere la mercanzia, i miei stessi pensieri e le immagini del mercato incorniciate dal mio stesso procedere. La definisco, questa, un’analisi-partecipante: per distinguerla dalla più classica osservazione-partecipante. L’osservazione e la partecipazione contengono sempre, infatti, in base alla prospettiva adottata e alla concezione di interazione messa in atto, un principio di analisi spesso implicita. Non è che la teoria preceda. Non voglio dire questo. Intendo dire che la pratica stessa è già intrisa di teoria. Intendo dire che «la teoria non è costruita in base alla pratica, ma si rivela come una forma di pratica essa stessa» (Herzfeld 2006: 24). Se è così, tanto vale recuperare la pratica, ostentarla e rifletterci, man mano che si va avanti nel racconto dell’esperienza e delle interazioni!

Per gli eventuali riaggiustamenti, c’è tempo: io sono nel tempo, siamo tutti nel tempo, nessuno escluso. Il tempo è in ogni caso incoglibile come entità totalmente separata da una eventuale oggettivazione: non si può scrostare dalle azioni e dai pensieri che lo accompagnano nel processo. Bisogna prenderlo, il tempo, nel suo insieme complesso di aspetti eterogenei e sovrapposti, persino scomposti. Proprio perché complessa, la dimensione temporale deve essere vista e studiata nei modi in cui viene teorizzata, implicitamente ed esplicitamente, da altri antropologi e studiosi (Gell 1992). Un altro modo di studiarla, più vicina alla prospettiva presa in conto da me e Mattia, è quella di considerarla come un «symbolic process continually being produced in everyday practices» (Munn 1992: 116). Me ne faccio una ragione e la adotto come ipotesi di interrogazione, come se fosse – si direbbe in musica – una sorta di basso continuo del mio procedere intellettuale e pragmatico su cui si inseriscono varie linee melodiche consonanti e dissonanti: mentre attraverso parte del mercato. Non mi inoltro, quindi, in questioni teoriche preliminari o ben precostituite, pur interessanti, perché intendo lasciare libero corso all’interazione tra il mio esserci al mercato (la partecipazione) e gli spunti concettuali che si mettono in forma quasi da sé, man mano che avanzo e percorro parte del mercato (l’analisi). È una scelta personale e, allo stesso tempo, un metodo di ‘incursione antropologica’ che mette l’accento sul processo e il percorso vissuto in prima persona.

Soggettivizzazioni e oggettivizzazioni (ph. Mattia Montes)

Soggettivizzazioni e oggettivizzazioni (ph. Mattia Montes)

I riferimenti miei e di Mattia, in questo senso, sono molteplici: Deleuze, per esempio; oppure, non meno, de Certeau. Deleuze è preciso a riguardo: «Non sono mai l’inizio e la fine ad essere interessanti, essi sono solo dei punti. L’interessante è il mezzo» (Deleuze, Parnet 1998: 44). Deleuze prende come termine di riferimento – negativo – i francesi perché amano fare il punto, pensano soprattutto al passato, sono affezionati alle radici e ai punti di arborescenza invece di tracciare linee e di prolungarle in termini di elementi sociali e culturali. I francesi, per Deleuze non sono che un esempio, suppongo, forse dovuto al fatto che la Francia è la patria dello Strutturalismo. È anche doveroso dire che fare il punto non è un elemento negativo in sé: lo diventa, però, se corrisponde a una valorizzazione a senso unico delle radici e degli alberi visti come posizioni immobilizzanti o fisse. Un altro studioso il cui riferimento è essenziale, in questo lavoro mio e di Mattia, è de Certeau, il quale mette l’accento sul fatto che non è soltanto utile guardare allo spazio ‘dall’alto’, come se fosse una mappa che tutto comprende e racchiude nella distanza messa in opera escludendo il vissuto di chi esperisce e vive lo spazio in prima persona. Secondo de Certeau, è utile anche altro, soprattutto altro: attraversare lo spazio al suo interno, facendo delle scelte, creando un percorso che diviene forma di conoscenza collegata alle modalità di costruzione del racconto stesso. «Là dove la mappa divide, il racconto attraversa» (de Certeau 2001: 190). Naturalmente, le cose sono un po’ cambiate dai tempi in cui de Certeau scriveva L’invenzione del quotidiano. E questo si vede soprattutto in un mercato come Ballarò.

Non si tratta, qui, solo di sguardi incorniciati e di percorsi vissuti: al mercato si è sotto lo sguardo di tutti e tutti fotografano tutti e tutto. Nessuno si infastidisce però: lo si dà per scontato. Insomma, il processo di digitalizzazione ha accentuato le proposte di de Certeau e, forse, per alcuni aspetti, le ha superate. La questione potrebbe essere interpretata anche in senso negativo: la spettacolarizzazione del mondo e dei soggetti – tutti si sentono attori dice Augé a Disneyland (Augé 1999) – ha cambiato le carte in tavolo e ci ha trasformati in dispositivi. Il punto è interessante e va discusso, nuovamente, in seguito. Ci torniamo su nella prossima incursione che faremo a Ballarò. Per ora, è importante sottolineare il fatto che il mercato non è il luogo stantio della tradizione che molti sostengono: il mercato è anche il luogo della ‘messinscena’ in cui i turisti vanno a osservare e a fotografare, mangiare il cibo e vederlo nella sua ostensione a loro dedicata. Di tutto questo – come ho anticipato – ne ho parlato con Mattia, fotografo e fine osservatore fin dalla sua più tenera età. Ne abbiamo parlato mettendo su un progetto comune, volutamente un abbozzo per grossi capi, senza eccedere sulla sua irreggimentazione, basato sullo scambio di vedute e prospettive sul mercato di Ballarò: io, soprattutto, nel mio ruolo di antropologo; lui, invece, dal suo punto di vista di fotografo e appassionato di incorniciamento della realtà per immagini. L’interrogazione critica sulla valenza pragmatica della cornice è pertinente, qui, più in generale (Simmel 1902; Bateson 1977; Goffman 2001).

Tutti fotografano tutto (ph. Mattia Montes)

Tutti fotografano tutto (ph. Mattia Montes)

Guardare il mondo significa proiettare lo sguardo nelle sue molteplici cornici che, in qualche modo, lo irreggimentano e ne consentono una prospettiva. A me e Mattia, al di là del dispositivo statico che è la cornice, interessano, soprattutto, i processi di incorniciamento che non riguardano soltanto lo sguardo di un soggetto immobile in uno spazio delimitato e altrettanto immobile. A noi interessano, più particolarmente, quelle modalità d’ordine pragmatico attraverso cui si mettono in opera dei va-e-vieni tra soggetti e oggetti che, da entità statiche, si volgono – dinamicamente – in processi di soggettivazioni e oggettivazioni anche attraverso il corpo e le combinazioni sinestesiche. Diciamo che il nostro modo di concepire l’incorniciamento del soggetto e della realtà va nel senso di Merleau-Ponty: «Non c’è visione senza pensiero. Ma non è sufficiente pensare per vedere: la visione è un pensiero condizionato, nasce ‘in occasione’ di ciò che accade nel corpo, e dal corpo è ‘stimolata’ a pensare» (Merleau-Ponty 1989: 37-38). La foto, intesa in questa prospettiva, è uno strumento formidabile di rilevamento di incorniciamenti. Questo scritto (e le foto che lo accompagnano facendo da molteplice e interrelato contrappunto) è il primo capitolo di una serie di ‘negoziazioni’ – un confronto non solo tra noi, tra me e Mattia, ma anche tra dispositivi utilizzati – che intendiamo mettere in atto, a puntate, per incursioni reiterate, riflettendo sul mercato e sulle forme di senso dirette e trasversali che lo rendono luogo, oltre che di produzione e consumo, anche di crocicchi socioculturali e di modalità attuative della percezione al di qua e al di là dell’ordinario.

La prima domanda che ci si potrebbe porre, un po’ ingenuamente, dall’esterno, è la seguente: cosa c’è mai da negoziare? Non basta osservare cosa succede in un mercato e trasporlo in testo scritto o in immagine? Secondo me e Mattia, la contemplazione del mondo dall’esterno non è sufficiente o fine a se stessa, così come non è sufficiente, per cogliere la realtà, il punto di vista di un soggetto incentrato sul suo modo specifico ed esclusivo di vedere. Perché? «Proprio come l’esistenza umana, che non è mai semplicemente un dispiegarsi dall’interno ma il risultato di una situazione, di una relazione con altri, così la comprensione umana non nasce mai dalla contemplazione del mondo da lontano; essa è il risultato di emergenti e perpetuamente rinegoziati interazioni sociali, dialogo e impegno» (Jackson 2011: XIII). L’altra domanda che ci si potrebbe porre riguarda l’idea – mia e di Mattia – di procedere per ‘incursioni’ diverse di cui questa che il lettore ha sotto gli occhi non è che la prima puntata. Insomma, perché analizzare e riflettere su un mercato in varie e distinte volte? Perché rifletterci per spruzzi reiterati di esperienza e testo, senza un senso predefinito di epilogo fin dall’inizio? Non sarebbe meglio parlarne una volta per tutte, esaurendone la portata, dirigendosi verso conclusioni rassicuranti e liberatorie per noi e per i potenziali lettori?

No, noi non vogliamo liberarci di alcunché: vogliamo, al contrario, risiedere nella complessità dell’interrogazione e del processo. Pensiamo che il mercato sia un fatto sociale totale in divenire e non un ‘oggetto fisso da esaurire’ in un’unica istanza risolutrice; il mercato è, per noi, una interrogazione: sul divenire del nostro stesso progetto e sulle incursioni metodologiche di volta in volta attuate o prese come spunto di riferimento. L’altra risposta che si può dare alla domanda precedente ha a che fare con la scrittura e, al contempo, con il modo di fotografare. Io adotto, il più possibile, in queste incursione al mercato, una scrittura non rigidamente pianificata o risultativa, cioè operante a cose fatte; la mia scrittura (e la fotografia di Mattia) è più attenta al processo e alla sua forza ermeneutica indagatrice di nessi velati: una scrittura (e una fotografia) che non disdegna – mentre procede e si lascia andare alla sua forza agentiva – di tenere l’occhio vigile sull’immancabile discretizzazione teorica. Attraverso questo tipo di scrittura (e fotografia), si mira non più al risultato puntuale, già bell’e previsto o ultimato, ma a un intreccio di pensare e sentire più vicino ai processi esistenziali.

Ritengo che sia necessario, alle prese con un oggetto di studio così complesso quale è un mercato, ricorrere a una scrittura (e a una fotografia) di questo tipo: che cerca di attraversare categorie statiche, che si barcamena tra l’Immaginario e il reale. «Quello che la scrittura richiede […] è di sacrificare un po’ del suo Immaginario, e di garantire così attraverso la sua lingua l’acquisizione di un po’ di reale» (Barthes 1979: 84). Questa è anche la ragione per cui, io e Mattia, abbiamo pensato bene – per questa prima incursione al mercato – di metterla in atto come un vero e proprio attraversamento: di luoghi, scrittura e foto. Io e Mattia siamo in sintonia su questo aspetto, pur ritagliandoci la libertà di metterlo in pratica come meglio crediamo, liberamente, nello scritto e nelle immagini. Ognuno di noi, nel nostro ambito di interessi, è consapevole del fatto che, assumendo questa prospettiva, non può comunque fare a meno di rimandare a tradizioni disciplinari dibattute e controverse. In antropologia, per esempio, è nota la ‘ribellione’ di Bateson al funzionalismo malinowskiano che prevedeva una analisi sul campo che tenesse conto dell’insieme delle varie funzioni di una cultura. La risposta, sul campo, di Bateson è invece l’analisi di un solo rituale che, nella sua prospettiva, taglia trasversalmente le diverse serie parallele di una cultura, nello specifico la cultura iatmul. L’incipit di Naven è particolarmente significativo a riguardo: «Se fosse possibile presentare una cultura nella sua interezza, dando ad ogni aspetto esattamente lo stesso peso che quella cultura gli attribuisce, nessun elemento apparirebbe strano o arbitrario» (Bateson 1988: 7). Secondo Bateson, è difficile, se non impossibile, avere un quadro d’insieme che esaurisce una cultura – descrivendola – nella sua interezza. Inoltre, il posizionamento dell’antropologo, per quanto efficace e profondo, non gli consente di penetrare totalmente all’interno di una cultura e nelle considerazioni riguardanti i suoi singoli aspetti.

L'attraversamento (ph. Mattia Montes)

L’attraversamento (ph. Mattia Montes)

Pur consapevoli delle difficoltà e delle controverse prospettive, io e Mattia non ci tiriamo indietro, non desistiamo. Per molti aspetti, la nostra simpatia va a Bateson, alla sua ipotesi di trasversalità, ma non intendiamo sottovalutare lo sforzo compiuto in passato dai funzionalisti al fine di rendere la realtà – e la cultura – in quanto insieme olistico e interrelato. Ne teniamo conto perché, come ricorda lo stesso Bateson, «due descrizioni diverse sono sempre meglio di una sola» (Bateson 1984: 191). L’attraversamento, di cui parliamo e facciamo uso, è per l’appunto una strategia d’attacco il cui fine sta nel rimanere nell’ambito della trasversalità, ma anche del divenire di cui parlava Deleuze. È certamente difficile rendere conto di questi aspetti etnografici in termini di scrittura e di foto. L’esistenza scorre mentre la scrittura e la foto non sono altro che ritagli che mostrano discontinuità. Per quanto riguarda la scrittura, mi sono assunto io (Stefano) il compito di trasporre il nostro progetto in atto mantenendomi nella prossimità, il più possibile, dell’esperienza e dei ragionamenti. Per quanto riguarda la foto, Mattia si è assunto l’onere di compiere questa difficile trasposizione. Una foto particolarmente pregnante – che, ovviamente, abbiamo scelto a cose fatte tra alcune – riguarda una persona che è in attesa di ordinare la merce (o di riceverla) e, nel frattempo, poggia il braccio e la mano sul bancone mostrando il cosiddetto ‘dito del sarto’. Questa foto, ai nostri occhi, è particolarmente rappresentativa non soltanto perché un individuo si trova a essere tra due stadi del divenire, ma anche perché mostra quanto rivelatrice possa essere la foto nell’indicare dettagli e cogliere insiemi.

Ne parliamo, quindi, io e Mattia, scambiandoci punti di vista e percezioni, ragionamenti e immaginazioni; lo facciamo quasi alla spicciola, rimodulando il progetto iniziale, adeguandoci al caso e ai rimandi reciproci. È, la nostra, una forma di antropologia dialogica e collaborativa? Forse. Poco importano le etichette di prima mano, preliminarmente assegnate, anche se – lo ammettiamo senza indugio – i nostri spunti progettuali si basano proprio sullo scambio di informazioni e prospettive. Inoltre, il nostro intento – forse più ambizioso – è anche quello di far dialogare scritto e foto con leggerezza ma con i dovuti rimandi. Perché, d’altronde, restringere l’ambito del dialogo alle sole istanze umane? Il dialogo è un attraversamento di prospettive che include attori umani e dispositivi tecnologi, registri di scritture e stili di foto. Come si dice sempre più spesso nell’antropologia odierna, il dialogo è anche interspecie. Mattia, più propriamente, dice che il mercato è un mondo a sé: denso, caotico e sorprendente. Lui parla di un mondo nel mondo. Lui parla di mondi che si incontrano e, persino, si scontrano all’interno di quell’altro mondo che è la città in estensione.

Il mercato è in effetti un luogo delimitato all’interno del quale valgono altre regole: è un luogo circoscritto spazialmente e nella sua forma di sistema regolata e sregolata. Mattia scatta – e scatterà – in analogo e in digitale cercando di mostrare questa sovrapposizione di mondi – di senso e sensi, corpi e persone – all’interno del tessuto urbano di Palermo. Mattia scatterà in digitale inizialmente. Per le foto che sceglieremo, però, alla fine, vorrebbe unicamente attingere all’analogico. Vedremo cosa succederà, se cambieremo idea o meno! Siamo nel processo e, anche con possibili riassetti, nel processo intendiamo restare il più possibile. Ci sono diverse ragioni per questa scelta propositiva e me le spiega. Innanzitutto, non gli dispiace avere una sorta di costrizione iniziale sulla quale lavorare. In analogico, com’è noto, non è possibile vedere subito il risultato dello scatto; di conseguenza, la fotografia deve inevitabilmente essere più meditata per il soggetto, deve tenere conto di un piano iniziale mentre il fotografo non può affidarsi che a un numero di scatti più limitato, forse più coerente. Lavorare con i limiti imposti da uno strumento – cercando allo stesso tempo di ovviare agli inconvenienti e di superarli – affascina Mattia. È, tutto sommato, la stessa ragione – l’altro capo della ragione – per cui io, ormai da anni, preferisco scattare continuamente con il telefonino, dando priorità all’emergere del caso: mi annego, così, nelle possibilità fornite dalla realtà fotografando senza sosta, concedendomi al caso che mi si presenta, di volta in volta, diversamente, svuotandomi di intenzioni preliminari. Per Mattia, si tratta di avere delle costrizioni, di sfidarle e superarle mettendosi alla prova. Per me, al contrario, si tratta di lasciarmi andare al flusso, senza ordine apparente, della realtà. Poi, l’altra ragione per cui Mattia vorrebbe soprattutto fare uso di foto analogiche è che il centro di Palermo – secondo lui il mercato è un centro nel centro – è imperfetto, non squadrato, non adatto a un formato tagliente come il digitale. Sono interessanti, dal mio punto di vista, i termini che usa Mattia perché hanno alcuni tratti tipici dei traslati. Il tagliente? Il non squadrato? Per spiegarmi i suoi piani di pensiero e azione, Mattia si serve di quelle che sono metafore che mettono il soggetto – e la realtà in quanto referente da cogliere – a fronte di un certo metalinguaggio operativo. Intendiamo, entrambi, approfondire questo aspetto, non necessariamente qui, in una sola volta: anche nel proseguo delle nostre future incursioni al mercato.

Va detto subito, però, che, dietro quelle che sembrerebbero pure scelte stilistiche (per me e per lui, nello scritto e nell’immagine), si annidano i diversi modi di cogliere il reale da parte di soggetti diversi, con strumenti diversi, ma comparabili. L’immersione in un mercato rionale può sembrare scontata e naturalmente data: data dall’abitudine o dalla necessità della semplificazione. In realtà, la sua rappresentazione è sempre molto complessa, sovrapposta e stratificata. Un mercato delle merci è caotico, almeno di primo acchito. Ma si deve anche tenere conto del fatto che, per i venditori, ci sono logiche – addirittura d’ordine estetico e non solo funzionale – che presiedono all’ostensione della merce (Bonanzinga 2006). Insomma, due movimenti scopici verrebbero a incrociarsi, persino a scontrarsi: il punto di vista dei compratori che hanno tendenza a vedere il mercato nel suo insieme barocco (il disordine che soddisfa) e il punto di vista dei venditori che, per poter fare il loro lavoro, mettono in atto logiche ordinatrici (l’ordine che si offre). A cosa attenersi, dunque, in una incursione etnografica? Così come anticipato fin dall’inizio, a me e a Mattia non interessa attenerci a un progetto preconcepito, ragione per cui abbiamo pensato questa etnografia come un attraversamento in cui diverse categorie non necessariamente trovano una loro congiunta compostezza e unità. Ordine e disordine possono convivere in un mercato e, in effetti, convivono. Un elemento che sicuramente va ribadito, in questa altalena ininterrotta di ordine e disordine tematico esistente in un mercato, è che queste categorie – e le loro forme di realizzazione – non sono fini a se stesse. Quello che appare un elemento d’ordine o disordine risulta invece avere una funzione conativa sul compratore e rappresentare un richiamo all’acquisto.

Nel divenire (ph. Mattia Montes)

Nel divenire (ph. Mattia Montes)

Parlo dei mimetismi tra persone e cose, tra colori e forme. Una foto particolarmente indicativa in questo senso riguarda un venditore di pomodori che indossava una maglietta rossa quanto gli stessi pomodori. Al di là di ciò, rimane da discutere un punto che ha valore operativo. Io e Mattia dobbiamo trasporre il mercato in testo e immagine. Come farlo? Nella sua ricchezza straripante o, eventualmente, per sottrazione, attribuendogli un ordine di un certo tipo. In sostanza, si può cercare di rendere il mercato, in quanto tale, in quanto insieme, esaltando la sua ricchezza barocca oppure, al contrario, pensando di sottrarre alcuni suoi elementi rendendo più asciutta, persino più classica e ordinata, la sua rappresentazione. La domanda è: fino che punto si può andare, in un senso e nell’altro, senza tradire la sua realtà costitutiva? E, questione non scontata, si può dire che esiste una ‘realtà di partenza’ fissa – per tutti – oppure un mercato, al pari di qualsiasi altro oggetto complesso, è comunque riformulato dai criteri stilistici dell’autore che, talvolta, lo ricreano e diventano spesso riferimento costante?

Io e Mattia, a puntate, lavoreremo su questi elementi, senza avere l’ambizione di rispondere una volta per tutte alle interrogazioni poste, con l’intento, semmai, di incrociare gli sguardi e di fare incursioni teoriche materiali e trasversali. Siamo consapevoli del fatto – ineludibile – che esiste una bella differenza tra il prospetto e l’immersione. Né la foto né lo scritto sono la realtà, bensì un ritaglio vincolante. Efficaci o meno che siano foto e scritto, si tratta pur sempre di ritagli! Il fatto è che, noi, in quanto soggetti siamo immersi nella realtà circostante, mentre la foto o lo scritto non rendono che un prospetto. Nel caso della foto, questo effetto di resa prospettica è maggiormente evidente proprio perché l’immagine coglie ciò che sta davanti a noi o dietro o di lato, ma mai nella sua completezza e totalizzante immersione. L’ambizione di molti fotografi e antropologi-scrittori è, giustamente, quella di rendere il ritaglio della realtà nella sua maggiore affinità possibile con l’immersione di un soggetto nello spazio e nel tempo. Ciò è del tutto evidente in un mercato popolare in cui domina l’eccesso (e il troppo pieno) e il soggetto si trova in una situazione immersiva del tutto particolare. A fronte di tutto questo, lo sforzo mio e di Mattia è quello di coniugare scritto e foto in un dialogo che riporta i ritagli individuali verso una maggiore completezza e ‘parvenza’ d’immersione.

Il dialogo interspecie (ph. Mattia Montes)

Il dialogo interspecie (ph. Mattia Montes)

Detto questo, un’altra osservazione, apparentemente spicciola, che mi sembra stimolante riportare qui, riguarda il punto di vista di una amica di Mattia al corrente del nostro progetto di scrittura e di fotografia antropologica. La sua amica dice che, nonostante non le dispiaccia andare al mercato, preferisce nettamente fotografare i paesaggi, quindi elementi meno caotici, più in sintonia con uno stato d’animo tranquillo e pacifico. È senz’altro vero che il mercato è il luogo dell’eccesso e dell’abbondanza, persino del disordine. Non si può certo dire il contrario! Ho però risposto a Mattia che, proprio perché un mercato è caotico, un fotografo potrebbe pensarlo come un progetto di lavoro in cui si tratterebbe di sottrare dal caos alcuni suoi elementi specifici al fine di arrivare a una rappresentazione più lineare e ricomposta, comunque non alienante o turbata. Abbiamo pensato, tutt’e due, alle foto di Franco Fontana, il quale lavorava spesso per sottrazione. In ogni caso, quale che sia l’approccio adottato, si tratta di tradire la realtà? Mattia ha replicato che, in qualche modo, a prescindere dalla scelta stilistica, la realtà viene sempre tradita. Io sono del tutto d’accordo. Tanto vale, allora, mettere in risalto quegli aspetti che più si prediligono e convincono. In potenza, si prospettano – non soltanto per il fotografo ma, anche, per lo scrittore – due inversi posizionamenti: si può sottrarre peso al disordine della realtà al fine di fornire una rappresentazione più minimalista della realtà oppure sottolineare il disordine della realtà offrendone una versione ancora più amplificata dei suoi aspetti caotici.

Un punto che mi proietta nel mio passato di letture letterarie è la questione della costrizione o del vincolo. Perec e gli oulipiani scrivevano, per l’appunto, obbligandosi a prendere in conto un vincolo iniziale che dovevano, poi, rispettare nel proseguo della narrazione e descrizione. Una delle opere più famose di Perec – una vera e propria sfida per la narrazione e descrizione – è La Scomparsa: il romanzo è scritto con l’intento di non utilizzare mai la ‘e’. La questione è dunque, più in generale, complessa e racchiude diversi elementi di rilievo: lo stile di un autore, i modi reputati più efficaci a cogliere la realtà, il metalinguaggio messo in opera, il rapporto con la propria arte o visione del mondo, il senso di sfida offerto da un lavoro, le scelte obbligate, etc. Intanto, pur passando avanti, rifiutandomi di comprare l’anguria, penso che, la mia, sia stata un’occasione mancata. Il fruttivendolo, a modo suo, parlava di dono. Il dono è un argomento di vasta portata antropologica. Non credo, certo, che il fruttivendolo abbia letto Mauss. Anche se tutto è possibile in questo mondo di verità inattese! Quel che è certo è che, parlando di dono, il fruttivendolo ha in qualche modo – per acquisizione professionale, suppongo sviluppata nel tempo – smussato quella che è, in generale, data come un’opposizione tra le azioni relative alla compra-vendita e quelle più specifiche relative al dono posto in essere tra persone a cui si è legati affettivamente o con le quali si vuole instaurare una qualche solidarietà. Se dono qualcosa a qualcuno è perché c’è un legame con la persona alla quale faccio il dono; oppure perché intendo, comunque sia, avviare un rapporto di tipo non economico. Il fruttivendolo, dicendomi che mi regalava l’anguria, tendeva a inserirsi, idealmente, tra coloro i quali non ‘vogliono guadagnare’ ma mantenere, invece, un rapporto affettivo o di solidarietà con l’altro. Niente economia, quindi, ma un ostentato dare disinteressato, o quasi! Era questo il messaggio del fruttivendolo in soldoni: io non ci guadagno; non ci guadagno molto. È effettivamente così? Io, il fruttivendolo, non lo conosco nemmeno però. È una strategia di vendita, ritengo, che rientra nel bagaglio di quella che Jakobson definiva la funzione persuasiva esercitata dall’emittente del messaggio sul destinatario. Insomma, lui ci ha provato! Ha provato a convincermi a comprare l’anguria. Fa parte del suo lavoro. Poteva andargli bene, ma così non è stato: perché il destinatario del messaggio esercita, a sua volta, il suo potere di ricezione effettuando una contro-manovra persuasiva. Questo breve scambio con il mulunaro (il venditore di angurie) fa riflettere ulteriormente sul valore del mercato come luogo di scambio di messaggi funzionali all’acquisto e alla vendita di mercanzia.

Per strati ordinati (ph. Mattia Montes)

Per strati ordinati (ph. Mattia Montes)

L’ipotesi più ingenua vorrebbe il mercato come semplice luogo di acquisto e vendita, direttamente, indipendentemente dalla varietà e dalle funzioni dei messaggi: in realtà, si può vendere e acquistare soltanto scambiandosi dei messaggi efficaci che richiamano l’attenzione del compratore (la funzione conativa) e che tendono, comunque, a stabilire e mantenere la comunicazione (la funzione fatica). A suo tempo, in termini generali, Jakobson aveva ribadito il fatto che «la diversità dei messaggi non si fonda sul monopolio dell’una o dell’altra funzione, ma sul diverso ordine gerarchico fra di esse» (Jakobson 1966: 186). Dal mio punto di vista, il mercato è un luogo in cui, nonostante vi sia intervento pieno di tutte le funzioni, prevalgono soprattutto la funzione conativa e la funzione fatica. E questa prospettiva si può applicare non soltanto agli scambi verbali e gestuali veri e propri, ma anche alla merce in quanto tale: «i beni sono messaggi essi stessi» (Giacomarra 2006: 77). Persino l’abbanniata può essere intesa in quest’ottica: un messaggio orientato verso il compratore la cui intenzione è quella di persuaderlo della bontà della propria merce (la funzione conativa), nonché un messaggio che tende a stabilire un contatto e a prolungarlo (la funzione fatica). Nelle discussioni avute con Mattia questo aspetto è venuto a galla con forza persino negli aspetti legati all’immagine e alle foto. Ci riserviamo, in futuro, di dedicare una incursione specifica al mercato legata alla diversa funzionalità dei messaggi e alla loro specifica utilizzazione nel dialogo tra venditori e clienti, magari registrando e analizzando in seguito.

Resta il fatto che intendiamo il mercato, nella sua essenza come un intreccio di elementi il cui fondo culturale è centrale e inamovibile. «Scambiare beni materiali significa scambiare anche beni immateriali: parole e idee, usi e costumi, quanto chiamiamo cultura» (Buttitta 2006: 15). Qui, il taglio multi-prospettico che privilegiamo è soprattutto l’attraversamento. È più adatto a una immersione contrappuntistica: che è quella che privilegiamo. L’attraversamento non è soltanto ritaglio tematico in senso longitudinale, ma anche valorizzazione della trasversalità in quanto tale, in quanto sganciamento del significato a un solo dispositivo o codice di apparente appartenenza primaria. Continuo allora il mio percorso. Continuo, osservo, partecipo, prendo appunti, traduco, mi lascio prendere dalla situazione. Non ho nessuna «intenzione di portare a termine un progetto di ricerca concepito in anticipo, né, all’opposto, di fare vani tentavi di trasformarmi in nativo» (Dwyer 1982: xvi). Lo ribadisco. Cerco di rimanere nel divenire delle azioni e dei pensieri. Attraverso, semplicemente, il mercato lasciandomi trasportare dalle scelte del momento. Lo attraverso, da un capo all’altro, sia figurativamente sia materialmente. È come se volessi, situandomi in un percorso dato, prodotto anche dall’intervento del caso, costruire una narrazione attraverso i vari passaggi che connettono il mio stesso attraversamento. Ma non è forse vero che qualsiasi etnografia – per quanto referenzialmente volta – è tesa a cogliere la realtà, è orientata «da un’implicita struttura narrativa, da una storia che noi raccontiamo sulle persone che studiamo» (Bruner 1986: 139). Che narrazione viene a mettersi in opera in questo attraversamento? Quale struttura si costruisce? Lascio che il lettore faccia la sua parte e tragga le sue conclusioni. Io amo passeggiare: consento che il mio corpo e i miei pensieri mi dirigano. Ma non è questo soltanto.

Mimetismi (ph. Mattia Montes)

Mimetismi (ph. Mattia Montes)

Non è semplice questione di rilassamento o di fuga dalla routine quotidiana. Mi piace riflettere sul senso del passeggiare senza scopo e sulla stretta associazione che si produce tra i flussi di pensiero (anch’essi senza uno scopo prevalente o diretto) e le azioni in apparenza non agentive. Ricordo, anni fa, una installazione di un artista sulla High Line di New York. L’artista era Tony Matelli. Il titolo dato alla scultura, del 2014, in bronzo dipinto, era Sleepwalker. L’installazione riguardava, in chiave simbolica, l’uomo che va avanti, alla cieca, verso un destino che ignora e che potrebbe essere fatale. Si trattava di un uomo che, con le mani tese, sembrava andare a tentoni, senza scopo e alla deriva. Ebbene sì, parlando di passeggiata, soprattutto in senso metaforico, il rischio è questo: intenderla come un non-sapere rispetto a ciò che si sta facendo; intenderla come un perdere di vista gli obiettivi che significa anche perdere anche se stessi. L’implicito è che l’essere umano dovrebbe sempre avere ben chiari in mente gli scopi del suo divenire: scopi e umanità sarebbero un tutt’uno inscindibile. Io non sono comunque d’accordo. Nel passeggiare io ci vedo comunque anche altro.

Nel passeggiare e nell’azzerare – almeno per qualche tempo, facendo una pausa – gli scopi, io ci vedo la capacità, simile alla meditazione, di rigenerarsi e di allontanarsi da una società eccessivamente consumistica, volta a ottenere a tutti i costi, diretta al profitto e al guadagno ingannevole. In fondo, al pari della passeggiata, anche l’atto dello stesso perdersi può avere una duplice valenza. Perdersi – per poi ritrovarsi al meglio, più saldi di prima – non è così negativo come sembrerebbe di primo acchito: può volere rappresentare la rinascita o il rinnovamento dell’‘io’ individuale e sociale. Io cammino a passo volutamene lento, scattando qualche foto qui e lì, osservando accuratamente, riguardando e selezionando a tratti le foto scattate. Selezionare le foto scattate e scartare quelle che non piacciono non ha un precipuo valore estetico: questa mi piace e la conservo; questa non mi piace e me ne sbarazzo. No, non è così, vuol dire altro, per me, in questo momento! Selezionare le foto – durante un tragitto che vuole essere una esplorazione antropologica – consente di andare fruttuosamente avanti e indietro nella costruzione della realtà che si vuol rendere: significa porsi da vicino e da lontano rispetto a un oggetto barocco quale è il mercato. Si è comunque più consapevoli, grazie alle foto, di ciò che è appena stato (il passato recente); allo stesso tempo ci si proietta, con maggior forza, nell’incursione del divenire in corso (il presente) creando dei legami possibili tra le dimensioni temporali e causali. Si è più consapevoli del proporsi dello spazio e del tempo al soggetto in una sorta di sintassi che combina le due dimensioni. La fotografia si trasforma, in questo modo, in una modalità del pensiero antropologico e non è più in un mero strumento tecnico o in una pura ricerca del bello. Così, almeno, la intendo io.

Il mercato come luogo dell'interazione efficace (ph. Mattia Montes)

Il mercato come luogo dell’interazione efficace (ph. Mattia Montes)

Potrei dire, di più, che io penso attraverso la foto in alcuni contesti: penso per immagini, nelle immagini, e ciò mi consente di riconfigurare la scrittura. Diventa, la mia, una esplorazione in cui due prospettive si incontrano e si rimandano: quella effettiva di chi passeggia immerso nella realtà guardandosi intorno (io in quanto soggetto in carne e ossa) e quella prodotta dalle foto appena scattate (la proiezione di ritorno del mondo sotto forma di immagine). E adesso? Le foto di cui parlo adesso, in sostanza, mi servono come contrappunto al mio stesso pensare e avanzare in un mercato da trasformare in testo scritto. Ma non è tutto. Non contento di questa duplice prospettiva contrappuntistica, mi avvalgo dell’aiuto di un fotografo a cui ho chiesto di documentare il suo modo di vedere un mercato popolare così da creare due narrazioni parallele, ma non distinte, per il lettore del saggio nella sua forma finale.

Il fotografo è Mattia Montes, il quale, fin da piccolo, ha sviluppato – nei suoi innumerevoli viaggi in famiglia e da solo – un suo senso delle immagini e della fotografia. La domanda che ci poniamo è: può la fotografia costruire una sintassi del vedere indipendente, ma parallela e accostata strettamente, a una sintassi del vedere per iscritto? Io e Mattia crediamo di sì. Ci vogliamo provare. Pensiamo, più particolarmente, a un contrappunto – la nozione, dimenticavo di dirlo, viene da Said (Said 1998) – di immagini e parole a partire da quell’oggetto di studio denso che è un mercato popolare. Si tratta, naturalmente, di vedere in che modo la nostra incursione sperimentale si sviluppa, nell’atto specifico, in una sostanza concretamente realizzata per ordine paralleli, forse pure incrociati, comunque riverberati di dialogo comune. Vedremo! Intanto, caro lettore, lo hai già sotto gli occhi il testo! Che vuol dire? Per quanto mi sforzi di rendere il divenire, passo passo, è impossibile infatti presentare un ‘attraversamento’ nella sua esistenziale interezza al lettore che non ha vissuto l’esperienza. E ciò vale, indistintamente, per le foto e per lo scritto.

In piazza, dove sono nel frattempo arrivato, ci sono tanti turisti: tutti appollaiati su sedie e tavolini alti. La piazza è straripante. Sono sorpreso, non me ne aspettavo tanti. Che fanno? Mangiano, tra le altre cose, stigghiuola e polpo. Non riconosco subito le stigghiuola e chiedo al venditore cosa sono esattamente. Mi risponde, lesto, che sono stigghiuola siciliane. Era necessario aggiungere ‘siciliane’? Beh, sì, molti, in questa piazza sono stranieri e vogliono gustare le specialità siciliane. Meglio ribadirlo, quindi, in ogni caso, con chiunque. A scanso di equivoci, lo si dice! Bisogna essere certi che il messaggio arrivi a destinazione nei giusti termini. Non è forse il cibo – soprattutto quello locale – parte integrante della vacanza? Certo che sì! L’alterità del gusto – e il suo addomesticamento o mera accettazione – è uno degli elementi di forza del racconto che va fatto, al ritorno, ad amici e parenti, sulla vacanza appena trascorsa. Una vacanza non può dirsi veramente conclusa, infatti, se non con la narrazione – a casa, al ritorno – degli eventi e con l’ostentazione delle foto scattate.

Il gesto e il gusto (ph. Mattia Montes)

Il gesto e il gusto (ph. Mattia Montes)

Per quanto riguarda il gusto, il fatto è che io non potrei mai associare le stigghiuola con il polpo. Io parlo per me stesso. Lo so bene. Io parlo per capire. Io parlo e cerco di vedermi come un riflesso di ciò che dico per meglio capire. Io metto apertamente in scena la mia prospettiva: per compararla e decentrarla. Nel mio immaginario gustativo, stigghiuola e polpo fanno parte di due diversi universi semantici: due universi che non si incontrano. Non si incontrano come non si incontrano il mare e la montagna o il bianco e il nero. Invece, vederli sul bancone – i polpi nella prossimità delle stigghiuola – non mi convince per niente. Il gusto dell’uno non andrebbe d’accordo con quello dell’altro. Ma non importa! So bene che è una costruzione culturale. So altrettanto bene che, in un mercato, il gesto e il gusto sono consonanti: vanno nello stesso senso. Si devono convincere i turisti e il loro modo di concettualizzare il cibo deve essere addomesticato. Bisogna dargli subito la possibilità di scelta senza tanti indugi. Li vedono sul bancone – i polpi e le stigghiuola – e sanno cosa mangeranno. Io, di primo acchito, mi sono detto: ma che c’entra? E questa è pure la ragione per cui ho chiesto al venditore se fossero effettivamente stigghiuola. Chiedendo, speravo quasi che mi dicesse che erano altro. Il venditore mi ha risposto senza esitare, continuando a soffiare un grosso ventaglio sulle stigghiuola per alimentare il fuoco. Mi risponde e riprende subito dopo ad abbanniare.

L’abbanniata non è che uno dei modi – efficace – di attirare il compratore e segnalare la presenza del venditore sul posto. È come dire: sono qui, se mi cercate, mi trovate senza problemi! In effetti! Basta seguire l’origine del grido e il venditore è localizzato. L’abbanniata è un elemento costitutivo del mercato. Senza dubbio. In un mercato non deve regnare il silenzio e la tranquillità. Un mercato è il regno dell’eccesso: c’è tanto, c’è di tutto, tutti devono saperlo, nessuno deve sfuggire alla regola dell’abbondanza e della circolazione frenetica delle merci. I venditori abbanniano continuamente, lo rammentano gridando, in un loro modo specifico che li caratterizza singolarmente. Anche se, forse, in un mercato popolare, non ce ne sarebbe bisogno di abbanniata. È ridondante. Forme e colori sono talmente ostentati e intrecciati, nei mercati, che sembra quasi di entrare in un altro mondo fin dall’inizio della visita: un mondo che è già seduzione e attrazione nel modo stesso in cui colori e forme si rimandano e si sovrappongono (Cusumano, 2012). Ma non si tratta solo di questo: di amplificazione dello sguardo e della portata della dimensione visiva. Tutti i sensi, in un paradigma dell’eccesso, devono entrare in gioco, in modo dilatato, arricchendosi reciprocamente in una sorta di continua, ininterrotta sinestesia. Non solo la vista, quindi, ma anche la dimensione sonora deve essere straripante e intrecciata agli altri sensi: si abbannia, si chiacchiera, si interagisce con lo sguardo e si scherza a voce alta, come se si volesse scongiurare a tutti i costi ogni forma di intimità, mentre i colori sgargianti la fanno da padroni ovunque, in ogni angolo di strada. Nel mercato, non ci può essere intimità e silenzio: ciò viene ribadito a ogni istante, incessantemente.

Il mercato come delimitazione

Il mercato come delimitazione (ph. Mattia Montes)

Nel mercato, a Palermo, tutti stanno con tutti, fianco a fianco, sfiorandosi e urtandosi; tutti sono in una dimensione pubblica, mai privata, e lo percepiscono. Tutti sfiorano tutti; tutti urtano tutti. Tutti scherzano con tutti, tutti prendono in giro tutti. Tutti osano, persino con i clienti che non si conoscono. Il pescivendolo, dopo aver pulito il pesce, per attirare la mia attenzione mi apostrofa in questo modo: giovane, è pronto! Mi prende in giro, ovviamente. E mi piace pure. Una volta, ho detto al pescivendolo: mi può dapiri i sgombri (mi può aprire gli sgombri)? Mi ha risposto: cierto, ci vuoli però a chiavi (certo, però ci vuole la chiave). Io non ho battuto ciglio e ho ribattuto: e cuomu effari uora, ma scurdavu a casa a chiavi? (e come devo fare adesso, la chiave l’ho dimenticata a casa?). Insomma, si scherza a ruota libera, si accorciano le distanze, si usa il ‘tu’ senza impaccio, in modo spiccio. Siamo in un mercato popolare dove le regole del mondo esterno non si applicano in toto. L’abbanniata è il primo elemento che colpisce, naturalmente. Non può essere altrimenti: tutti i venditori decantano la loro merce a voce altissima essendo in competizione gli uni con gli altri e devono farsi sentire, devono superarsi. Alcuni sono pure molto originali nell’abbanniare e decantare la loro merce, mettendo in opera, per quanto in piccolo, una funzione poetica e allo stesso tempo conativa: cioè un modo atto ad attirare, attraverso rime, il possibile cliente. Ma lo sguardo, per quanto in sordina inizialmente per chi entra in un mercato popolare, ha un suo ruolo di grande importanza anch’esso. Credo che, all’interno delle varie viuzze del mercato, sia anche più funzionale dell’abbanniata il gioco di sguardi e le frasette pronunciate a mezza voce per attirare il passante e trasformarlo in cliente. In ogni caso, l’insieme del messaggio – costitutivo del grido e dello sguardo – fa parte di quella che, più in generale, è la funzione conativa, cioè quella funzione che si esercita sull’interlocutore al fine di persuaderlo della bontà di qualcosa: in questo caso, nel caso del mulunaro, della bontà della mercanzia e del prezzo modesto, irrisorio, rispetto a ciò che effettivamente si compra.

L’idea più generale è che bisogna stabilire comunque un primo contatto. Il passante non è un mai un individuo che si trova lì, per caso, neutralmente inteso, ma un soggetto che bisogna convincere ad avvicinarsi e comprare qualcosa. Il passante deve essere trasformato in possibile acquirente. L’acquirente deve comprare in un posto preciso e non in altri. Tutti i mezzi sono utili a questo effetto. La concorrenza è forte. Il venditore deve dunque fare breccia e, per farlo, alcune volte si impegna in un dialogo con altri venditori, abbanniando e contro-abbanniando. Io, arrivato in piazza, decido di tornare finalmente indietro. All’altezza del pescivendolo, sento un fruttivendolo scherzare con un individuo di colore che conosce. Il ragazzo di colore si ferma, in bici e chiede all’altro come va. Per tutta risposta, il fruttivendolo replica: Ma ti facisti viriri ru dutturi? Ai a tiesta tutta sgummata. Talè cà! (Ma ti sei fatto visitare da un medico. Hai la testa tutta deformata). Il ragazzo di colore ridacchia e ribatte: No, è ki aiu i cuorna duri (no, è che ho le corna dure, sono un tipo in gamba). Mentre io mi allontano, i due continuano a scherzare. Le battute sembrano pesanti, per niente gentili. Ma loro ci ridono su e non si risparmiano. Io, tra una abbanniata e l’altra, non riesco più a sentire cosa dicono. Malgrado i miei sforzi, non sento più niente. Sono troppo lontano. Sono però improvvisamente invaso dall’odore acre e pungente delle stigghiuola del venditore che si trova all’angolo. È un odore forte e piacevole per me. L’odore si spande nell’aria e arriva prima ancora che si giunga sul posto, che io giunga sul posto. È un odore che si confonde con altri odori e, persino, sembra combinarsi con la dimensione – altra – dei colori sgargianti dei vari tipi di frutta.

È proprio questo l’universo delle sinestesie. Se dico ‘rumore bianco’ – non a caso è il titolo di un romanzo di DeLillo che mescola due dimensioni sensoriali – sto facendo riferimento a ordini sensoriali diversi, mescolandoli e combinandoli insieme: la vista e l’udito in questo caso. La sinestesia viene considerata una figura retorica – insieme a tante altre – il cui scopo è proprio quello di produrre un effetto letterario in qualche modo distante dagli usi comuni. Ma non solo. La sinestesia e le altre figure retoriche sono comunemente usate nella lingua orale e sono anche un modo per cogliere la realtà quotidiana al meglio, oltre che a manifestare se stessi e le proprie emozioni. Direi che la sinestesia è la figura retorica imperante a Ballarò. D’altronde, le foto di Mattia – la sua lettura parallela del mercato – lo confermano. Con questa idea che mi frulla in testa, in cerca di ulteriori giustificazioni e conferme, continuo il mio tragitto di ritorno. Mi viene in mente che devo pure comprare dei fagiolini, ma non ne vedo da nessuna parte. Chiedo in giro, ma mi dicono che unné tiempu (non è tempo). A un certo punto, l’occhio cade su un negozio di un fruttivendolo, in cui, in basso, in un angolo, c’è una cassettina tutta ricolma di verde. Eccoli, sono loro! Mi avvicino e vedo che i fagiolini non sono a buon mercato. D’altronde, sono merce fuori stagione e il prezzo è adeguato al periodo. Chiedo al ragazzo di darmene mezzo chilo. Lui mi guarda un secondo, perplesso, poi dice in un italiano poco comprensibile: “Io lo dire prima, costare caro, perché prendere, posare, persone non sapere cosa fare”. Dall’accento, credo di capire che si tratti di un tamil. In passato, ho studiato un po’ la lingua e lavorato con loro. Afferro subito cosa vuole dirmi: mi avvisa che non è roba a buon mercato e me lo dice per evitare di prenderli e poi, una volta resomi conto del prezzo alto, riportarli indietro perché non li voglio più. Io lo rassicuro. Sono cari, ma li compro. Certo, penso che non sia proprio la migliore strategia di vendita messa in atto da un venditore. Suppongo che il ragazzo sia un lavorante e non il datore il lavoro: altrimenti, avrebbe impreziosito la sua offerta di vendita sottolineando la bontà della merce per esempio. Più che tendere alla vendita, la sua strategia cercava invece di evitare la fatica di dover fare il lavoro a vuoto: di prendere i fagiolini e di doverli rimettere a posto. Questo conferma che, persino in un mercato dove tutto e tutti sembrano avere pari livello di primo acchito, bisogna tenere anche conto della gerarchia dei ruoli e della diversità dei lavori.

Con questi pensieri per la testa, continuo il mio tragitto al mercato e sto quasi per uscire e avviarmi verso casa quando vedo, in un grosso calderone ancora caldo, le pullanche (le pannocchie). Nonostante abbia già tutto ciò che mi serve, non resisto e ne compro un paio; le vorrei, peraltro, mangiare subito. Giusto per togliermi lo sfizio! Al ragazzo che mi chiede cosa desidero comprare, gli chiedo due pannocchie e gli dico pure che vorrei che li prendesse dal fondo perché ho visto una mosca posarsi su una pannocchia in superficie. Per tutta risposta, il ragazzo ridacchia e mi dice: nuatri semu ca pi vuavutri, siti vuavutri ca nni rati a manciari! (noi siamo qui per voi, siete voi che ci date a mangiare!). Vuol dire, in altri termini, che mi accontenta perché noi clienti provvediamo, comprando la mercanzia, al loro sostentamento. I clienti comprano, i venditori li accontentano. Ma capisco che è un modo per prendermi in giro e ironizzare sulla mia pretesa, forse ai suoi occhi un po’ snobistica. Mi considera sicuramente uno schizzinoso. Poi, incomincia a prendersi gioco di un altro ragazzo addetto alla vendita anche lui, chiedendo, implicitamente, la mia complicità. Lo scherzo dura a lungo e, per sganciarmi, senza offenderlo, ho bisogno di un buon explicit. Lo trovo dicendo che mi sembrano tutt’e due giovanissimi e che nessuno dei due dovrebbe, ipoteticamente, essere il datore di lavoro dell’altro. Sembra funzionare. Mi allontano mentre, a distanza, sento dire a uno dei due che l’altro, pur essendo il più giovane, è il vero e proprio datore di lavoro. È lui che regge la baracca!

L'esotico addomesticato (ph. Mattia Montes)

L’esotico addomesticato (ph. Mattia Montes)

Penso, ormai lontano, che il mercato, nel complesso, è una buona metafora della vita: solo che si tratta di una metafora iperbolica in cui si trova, di tutto e di più, in uno spazio simbolico contratto e carico di senso ossimorico. Io e Mattia siamo d’accordo su questo. Ognuno di noi, a partire dai propri strumenti di resa e analisi della realtà (foto e scrittura), pensa che diverse figure retoriche si incrociano in un mercato: soprattutto la sinestesia e l’iperbole, ma anche l’ossimoro o l’ipotiposi. Questo non vuol dire che gli utenti del mercato siano dei letterati o scrittori. Più specificamente, significa che le figure retoriche sono un mezzo di accesso alla realtà: un mezzo che tutti noi utilizziamo, indistintamente, nella vita quotidiana senza rendercene sempre conto. La domanda, un po’ ingenua, che potrebbe forse venire in mente a qualcuno, a questo punto, è la seguente: che importa riconoscere le figure retoriche, soprattutto in un mercato, e cosa si dice di nuovo – notandole e classificandole – rispetto a ciò che sappiamo già in altri termini? Riconoscere le figure retoriche, valutare il loro impatto e amalgamarsi nella vita quotidiana, consente quel necessario livello di comparazione metalinguistica tra campi e oggetti di studio diversi che sarebbe, altrimenti, impossibile avere. La comparazione è uno strumento di base, insostituibile del lavoro antropologico, applicabile alle figure retoriche e a tanto altro. Questo presupposto va, naturalmente, al di là dell’oggetto di studio preso in conto da me e Mattia: il mercato. Si possono mettere, infatti, in atto diversi livelli di comparazione fondati su vari gradi di astrazione per qualsiasi ‘oggetto’ di analisi e non soltanto per il mercato: tutti molto utili per riflettere sulla valenza della realtà e sui diversi modi di trasporla. Noi non abbiamo inteso fare ciò in particolare: mettere avanti la comparazione rimanendo in secondo piano in quanto soggetti dell’azione.

Nel caso nostro, mio e di Mattia, abbiamo soprattutto puntato sulla trasversalità dell’attraversamento al fine di rimanere – con tutte le difficoltà, anche di scrittura che comporta – nella prossimità dell’esperienza, nella vicinanza del contrappunto fornito da foto e testo. In questo caso, nel caso dell’attraversamento, il grado di comparazione si stabilisce – in senso longitudinale – nel ritaglio degli elementi diversi fornito dall’attraversamento stesso. Quale che sia l’approccio, resta comunque il fatto che le figure retoriche, tra le altre cose, hanno giocato un ruolo importante nel nostro attraversamento. Secondo Lakoff e Johnson, la metafora e le altre figure retoriche non sono un puro abbellimento letterario, ma un mezzo di conoscenza della realtà e dell’esperienza stessa. «È come se la capacità di comprendere l’esperienza attraverso la metafora fosse un senso, come la vista o l’udito o il tatto, dove le metafore forniscono i soli modi di percepire e di vivere gran parte del mondo» (Lakoff, Johnson 1998: 291). L’ipotesi, formulata più specificamente per la metafora da Lakoff e Johnson, può valere anche, secondo noi, per le altre figure retoriche e, più in generale, per tutti gli altri contrappunti che abbiamo messo in rilievo nel testo e nelle foto.

Avendo bene in mente questo aspetto, riproponendomi – riproponendoci – di riprenderlo in una prossima incursione etnografica al mercato, mi rendo conto di essere già materialmente fuori da mercato. Fuori? Sì, certo, un mercato ha una sua delimitazione all’interno della città e persino al suo interno questo aspetto gioca un ruolo fondamentale nelle molteplici forme di delimitazione che si vengono a produrre in modo prolifico. Molte foto di Mattia mettono l’accento su questo elemento: il mercato è un vero e proprio spazio della delimitazione! Un altro punto che abbiamo toccato ma che dovremo approfondire, in seguito, nelle future incursioni, per quanto riguarda la definizione di un mercato come Ballarò, riguarda l’esotico e la sua apparenza: se non altro perché è chiaro, fin dall’inizio, che Ballarò è un luogo attraversato anche dagli stranieri che lo visitano e, a volte, persino vi abitano.

Resti (ph. Mattia Montes)

Resti (ph. Mattia Montes)

Agli occhi di uno straniero, di un turista, Ballarò risulta essere un luogo seducente ed esotico. La nostra impressione, mia e di Mattia, è che, tuttavia, l’esotismo sia in qualche modo addomesticato: ‘apparecchiato’ per i turisti. Questo è tutto per quanto riguarda la nostra prima incursione a Ballarò. Non riteniamo utile fare una sintesi stringente: punto per punto di quanto abbiamo detto. Se volessimo però riassumere all’osso – anche per coloro i quali non frequentano gli autori citati; per coloro i quali non amano le miscele di autori ricomposte in maniera personale (è quello che, in parte, abbiamo fatto io e Mattia); per coloro i quali non amano i connubi fotografici e testuali – si potrebbe dire che io e Mattia ci siamo posti una domanda semplice, la cui risposta è tuttavia molto articolata e complicata: che vuol dire osservare?

L’osservazione non dipende soltanto dal grado di densità dell’oggetto da descrivere, ma anche dalle modalità messe in opera dal soggetto per osservare e dalle premesse metodologiche utilizzate. Ci preme dire che io e Mattia non ci siamo rassegnati a pensare ‘per progetti precostituiti’. Abbiamo preferito ‘andare alla deriva’, lasciandoci trasportare dal vento del divenire. Ovviamente, anche questa è una elezione di categorie che consente alcune osservazioni ma non altre. E allora? Ci riserviamo, nelle prossime incursioni a Ballarò, di utilizzare altri ‘strumenti’ al fine di mettere a punto ulteriori differenze e similitudini. In definitiva, sentiamo di ribadirlo, non ci interessa soltanto il mercato di Ballarò in sé, ma anche i modi attraverso cui concettualizzazioni varie prendono piega in una etnografia intesa per puntate, in qualche modo inesauribile. Diciamo che, in ultima analisi, scriviamo e fotografiamo anche per cercare di ridurre gli spazi di discontinuità epistemologica ed esistenziale posti tra il vissuto e i regimi di trasposizione in testo scritto e fotografico. In questo, il mercato si adatta convenientemente perché lascia, dietro di sé, sempre dei resti che hanno valore materiale e simbolico da trasformare in ulteriore elemento di riflessione e forma di continuità. 

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022 
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
Mattia Montes, viaggiatore fin dalla tenera età, prima in famiglia, poi da solo, ha sviluppato una passione di lunga data per la fotografia che ha trasformato, nel tempo e nei diversi luoghi in cui ha vissuto, in una riflessione sulle immagini e sull’immaginazione, nonché sulle modalità attraverso cui la fotografia stessa diventa sedimentazione della memoria ed elemento di soggettivazione individuale e sociale nel mondo. Oltre che alla pratica e teoria della foto, si interessa agli oggetti, al loro ruolo simbolico, e si considera appassionato collezionista di macchine fotografiche d’epoca.

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