di Shkelzen Hasanaj
È ampiamente condivisibile la tesi secondo la quale, quando si parla di pluralismo culturale, si fa riferimento al rapporto tra diverse culture in una prospettiva universalistica, che vede le proprie origini negli anni Sessanta del secolo scorso. Facendo un passo indietro, notiamo che è ampiamente condivisa la tesi che i primi passi del pluralismo culturale si possano ricavare nei lavori di Franz Boas in antropologia, Margaret Mead e Edmund Husserl in filosofia. Questi studiosi costruiscono i loro giudizi sulla critica del pensiero positivista, del dualismo cartesiano e del paradigma razionalista a esso conseguente. Contrariamente a questa convinzione, le origini remote del paradigma pluralista possono essere collocate in un’epoca notevolmente precedente.
La consapevolezza di questa lunga storia può portare alla luce argomentazioni fondamentali per comprendere le realtà culturali della nostra epoca. Esistono, a mio giudizio, due fattori che più di tutti hanno contribuito a comprendere l’approccio pluralista. Il primo si può rintracciare negli scritti di Giambattista Vico, in particolare nei Principi di Scienza Nuova, che è senza dubbio uno dei primi testi che ha messo in luce l’epistemologia pluralista. L’altro va ricercato negli scritti di Johann Gottfried Herder, considerato il padre della autocoscienza culturale, e successivamente negli scritti di Isaiah Berlin, ritenuto uno dei massimi pensatori che ha contribuito alla rivalutazione del concetto di pluralismo come categoria culturale.
Sappiamo che la dottrina del pluralismo culturale pone un focus sulle questioni connesse al rapporto tra culture e tra identità-uguaglianza. Un confronto che assume spesse volte i toni dell’etnocentrismo, come spiega il filosofo Steven Lukes nel suo celebre saggio Liberals and Cannibals [1]: tutto ciò che è diverso dalla nostra cultura deve essere combattuto e non sono ammesse interpretazioni relativistiche, che permetterebbero, come sosteneva il filosofo Max Weber [2], un’analisi quanto meno avalutativa delle culture [3], libera da giudizi che comunque orienterebbero la preferenza verso un gruppo piuttosto che verso un altro [4]. Una gerarchia delle culture potrebbe giustificare alcune discriminazioni e pratiche imperialiste. Il filosofo e storico della politica Tzvetan Todorov ricorda che l’Occidente si è distinto per le crociate intraprese tra i fedeli, il genocidio degli Indiani d’America, dall’assimilazione delle minoranze alle realtà odierne applicate in Iraq e Afghanistan dai neocon statunitensi [5]. Porre allo stesso livello tutte le culture in maniera avalutativa, come sosteneva Max Weber, conduce a ritenere il giudizio di un uomo, in quanto espressione di un determinato comportamento, semplicemente per ciò che è, senza correlati oggettivi che determinano la verità o la falsità [6].
Analizzando le teorie di Giambattista Vico, di Isaiah Berlin, di Steven Lukes e di altri illustri studiosi, Francesca Rigotti, propone un’analisi, definita universalistica, che conduce al pluralismo culturale. Seguendo questa ipotesi analitica, si potrebbe tentare di individuare negli scritti di Giambattista Vico e Johann Gottfried Herder i primi approcci di una prospettiva epistemica in grado di porre al centro del proprio procedere l’importanza delle culture e delle loro diversità, per tentare di offrirne una visione pienamente autentica [7].
Tutto questo si può collegare allo sviluppo e alla lettura dei valori simbolici di popoli extra-europei o geograficamente distanti, così da sottolineare quali elementi essenziali si ritrovino in culture anche assai lontane a prescindere dalle epoche e dai costumi.
In termini berliniani, il pluralismo culturale è la via del superamento, nella coesistenza più che nella conciliazione, di contrastanti valori, che seppure incompatibili non risultano tuttavia incomprensibili [8]. Infatti, Berlin analizza il soggetto individuale e il soggetto immerso nella società, spingendosi fino a una concezione di universalità dei diritti, sostenuta da Norberto Bobbio come fondamentale tutela dell’individuo dalle pretese universalistiche della collettività [9].
Nella sua idea di pluralismo, in cui si ritrovano elementi caratteristici del monadismo culturale e dell’utilitarismo [10], le culture e le forme di vita sono pilastri fondamentali nella costruzione del sistema di valori di una società, valori da non considerare mai come assoluti, semmai disseminati di elementi essenziali [11]. Berlin infatti considera l’esistenza di una pluralità di valori posizionati sullo stesso piano, non giudicabili in base a un principio assoluto [12], bensì capaci di intrattenere tra di essi relazioni che attraversano i tempi e che creano continuamente ponti tra culture diverse [13]:
«se i valori fondamentali sono incomparabilmente diversi e incommensurabili, allora – non soltanto nel caso delle divergenze tra culture, ma anche nella circostanza del disaccordo tra i membri di una stessa cultura condivisa, come pure in quella di un conflitto a un individuo – non è detto che si possa necessariamente arrivare a un’unica risoluzione dei conflitti o all’espressione di una singola preferenza» [14].
È utile adesso ripercorrere l’ipotesi relativista, seguendo da un lato la definizione attribuita da Silvia Vida [15], per cui «ciò che la tesi del relativismo dimostra è che il conflitto è una caratteristica inevitabile dell’esperienza morale – non che esso è razionalmente irrisolvibile» [16], dall’altro la visione di Berlin, che rifiuta questa tesi, ritenendo che una concezione matura della morale debba riconoscere i conflitti come una caratteristica permanente dell’esperienza umana.
Secondo Berlin, «la libertà politica (liberty) che garantisce la libertà (freedom) di scelta è oggettivamente valutabile perché gli esseri umani non possono evitare di dover scegliere tra fini e valori intrinsecamente confliggenti» [17]. Egli vuole così sostenere che il mondo umano sia caratterizzato da una scelta tra fini egualmente fondamentali e pretese egualmente assolute, in cui la realizzazione anche parziale dell’una implica la rinuncia dell’altra; da qui l’idea di conflitto morale come inestirpabile, sia nella vita privata sia in quella pubblica, e della libertà politica come elemento fondamentale per la realizzazione della politica stessa. In questo modo Berlin dimostra come il pluralismo sia parte fondamentale della costruzione dell’ordinamento politico nell’ottica di una società aperta [18].
È opportuno adesso evidenziare alcuni contributi teorici dei massimi pensatori dell’epistemologia multiculturale: Giambattista Vico e Johann Gottfried Herder. Stando alle ricerche di Isaiah Berlin, Amoroso, Galli e di altri studiosi, pare che il primo ad aver utilizzato il termine «pluralismo culturale» sia stato il filosofo Giambattista Vico, secondo il quale ogni cultura autentica ha la propria peculiare visione e la propria scala di valori [19]. Tra XVII e XVIII secolo Giambattista Vico mette radicalmente in dubbio i modelli morali, estetici e sociali del suo tempo, che troveranno critica sistemica soltanto nell’Illuminismo. L’analisi vichiana dimostra come i teorici del diritto naturale e del contratto sociale avessero fondato la loro visione teorica sulla convinzione aprioristica di una natura umana fissa e immobile, attribuendo all’uomo primitivo alcuni attributi propri dell’uomo civile della loro epoca. Vico li accusa di aver disconosciuto l’idea stessa di sviluppo preferendo l’ipotesi di un’astratta natura umana uguale e immutabile che avrebbe generato diritti, doveri e leggi universali [20].
Al contrario, Vico sviluppa un metodo originale basato sulla conoscenza sociale e linguistica, creando le stesse condizioni per la nascita di uno studio della storia della civiltà che abbraccia non solo l’antropologia e la storia, ma anche gli studi di giurisprudenza, letteratura e mitologia. Alcuni studiosi hanno considerato la sua maggiore opera, I principi della scienza nuova, come uno dei testi centrali della nascita dell’epistemologia multiculturale [21]. Altri autori, invece, l’hanno definita un monstrum, che tiene al proprio interno molti argomenti: diritto, politica, religione, mitologia, poesia e linguaggio e, in definitiva, tutto ciò che riguarda il mondo umano e le sue origini, in contrapposizione a un impianto analitico cartesiano fondato sul raggiungimento della verità attraverso procedimenti razionali. Ad ogni modo, gli viene unanimemente riconosciuto il merito di definire per la prima volta un modello conoscitivo che considera lo sviluppo della coscienza dell’uomo sociale e della sua cultura congiuntamente alle sue capacità creative e al continuo progresso della società organizzata.
Vico si dissocia da quegli studiosi della sua epoca che ritengono che le prime forme organizzative tra uomini abbiano origine con l’instaurazione dei regimi monarchici. Egli rintraccia le origini della società umana nelle prime associazioni organizzate di proprietari delle fattorie (futuri padroni), utili a fronteggiare gli attacchi degli uomini selvaggi (naturali, futuri schiavi da assoggettare). Egli afferma che in un primo momento i garanti dell’ordine e del rispetto delle leggi cercarono il rispetto dell’intera comunità, assicurando pari diritti al suo interno; solo in un secondo momento, i garanti della legge abusarono della rigidità dell’ordinamento comunitario, istigando alla rivolta gli schiavi, che iniziarono a chiedere il riconoscimento dei loro diritti e garanzie per il proprio futuro. Questo, a suo giudizio, segna la costruzione del primo ordinamento civile, fondato sul riconoscimento e il rispetto dei diritti di tutti.
Secondo questa interpretazione, ogni cultura autentica ha i propri valori e la propria visione del mondo, che le permettono di conservare i propri caratteri originari pur nell’interazione e nell’incorporazione di altri sistemi valoriali nel corso del proprio sviluppo. Per Vico è inevitabile che gli uomini dell’epoca presente non comprendano interamente l’agire degli uomini delle epoche anteriori, visto lo sforzo interpretativo che richiederebbe decifrare comportamenti e linguaggi radicalmente mutati. Vico è convinto che la parola umana abbia una sua specifica importanza e centralità in questo processo, poiché intrattiene un rapporto esclusivo con la facoltà immaginativa, così da rendere possibile la comunicazione con le civiltà passate. Nello specifico, l’intenzione di Vico è quella di dimostrare che per poter comprendere le vite, i riti, gli usi e le parole di creature lontane nel tempo e nello spazio si deve cercare, mediante l’immaginazione, di cogliere i mezzi espressivi ad essi propri, per poi tentare di fornirne un’interpretazione.
Per Berlin, i criteri seguiti da Vico sono i medesimi utilizzati dai moderni antropologi sociali, poiché, considerando accessibile il comportamento delle società primitive solo mediante previa comprensione dei loro usi e delle loro tradizioni, egli ritiene gli uomini di queste culture non come creature che possano essere descritte attraverso leggi naturali di carattere fisico-biologico, ma come abitanti di un mondo in cui quei comportamenti, quelle parole, quelle immagini e quei linguaggi sono strutturali e performativi. Sempre secondo Berlin, Vico ha avuto la straordinaria capacità di rendere conto dell’esistenza di una varietà di comunità linguistiche molto diverse tra loro, che costituiscono di per sé un indice di auto-espressione umana e che permettono di individuare in modo decisivo le differenze storicamente intercorse nell’avvicendarsi delle società, poiché tali cambiamenti sono depositati nell’intimo dei loro linguaggi.
A sua volta Johann Gottfried Herder è stato definito il padre della autocoscienza culturale oltre che uno dei principali critici del romanticismo classico, del razionalismo e della fede dell’onnipotenza scientifica. Herder sosteneva, infatti, che ogni civiltà, ogni situazione e periodo storico o civiltà possiede una propria caratteristica inconfondibile, che non può essere compresa mediante leggi universali e uniformi, trascurando le differenze essenziali che costruiscono la loro particolarità [22]. Ogni popolo, ogni società, ogni epoca e ogni civiltà ha i propri modi di pensare e di agire, che risultano radicati nella loro costituzione al punto da divenirne tratti ineludibili e caratterizzanti del loro essere. Come spiega Isaiah Berlin, nei primi scritti di Herder il rifiuto dell’esistenza di valori assoluti e universali e il suo pluralismo [23] descrivono sistemi culturali anche incompatibili gli uni con gli altri, caratterizzati dal conflitto come proprietà inemendabile degli uomini [24].
Nel panorama degli studi sociologici è stato uno strenuo oppositore dell’utilizzo dei modelli assoluti e astorici, mettendo altresì in evidenza la difformità tra il metodo di analisi dei fenomeni della natura fisica e quello applicato ai fatti umani, entrambi in qualche modo fallaci, vista la mancanza di regole immutabili per classificare le culture. In particolare, Herder guarda alla situazione storica tedesca e alle relative divisioni politiche e culturali e sottolinea come, fin dall’inizio del Settecento, alcuni personaggi di rilievo della cultura in Germania avessero iniziato una campagna di disprezzo verso i costumi francesi, parimenti a quella che serpeggiava in Francia nei confronti dei tedeschi. Per Herder è impossibile per un popolo prendere come modello di riferimento culture straniere, poiché giudicare una cultura con i criteri di un’altra cultura è un’impropria risultanza della mancanza di immaginazione e comprensione. Ciascuna cultura ha i propri valori, che devono necessariamente essere rispettati nella considerazione del differente contesto spaziale e temporale in cui essi si sviluppano. La sua forza, spiega Berlin, «è l’evocazione delle singole culture e non i legami esistenti fra di esse» [25]. Per comprendere una cultura occorre adoperare le facoltà di intuizione, di rispetto e simpatia, le sole in grado di permettere una comprensione che tenga conto delle differenze.
Herder vede nelle differenze, più che nelle analogie, i fattori identitari dell’individuo, poiché i tratti comuni sono legati a stratificazioni culturali spesso lontane nel tempo o non sufficienti a creare un senso di appartenenza. Risulta particolarmente rilevante che al centro della riflessione di Herder vi sia il concetto di appartenenza, poiché questa ultima non solo costituisce la condizione necessaria per lo svolgimento e la cooperazione del lavoro sociale, ma rivoluziona anche la visione del soggetto, le cui facoltà razionali sono viste in un farsi sinergico con la varietà delle culture inserite in un processo continuo e inevitabile. Possiamo concludere, riprendendo le parole di Berlin:
«ciò che si trova alla base del suo pensiero è il tema della cultura che a suo giudizio: non si deve giudicare una cultura con i criteri di un’altra cultura; che civiltà differenti hanno differenti sviluppi, perseguono differenti scopi, incarnano differenti maniere di vivere e sono dominate da differenti atteggiamenti verso la vita, cosicché per comprendere occorre compiere un atto immaginativo di “empatia”, nella loro essenza, comprenderle dall’interno per quanto è possibile, e vedere il mondo attraverso i loro occhi» [26].
Conclusioni
Con questi appunti abbiamo tentato di analizzare il paradigma del pluralismo culturale e le fondamenta teoriche su cui si basa non solo questo complesso sistema analitico, ma anche la moderna antropologia e sociologia multiculturale. Per farlo, abbiamo cominciato con una breve ricognizione sull’approccio etnocentrico o positivista e relativista, per poi genealogicamente risalire alle analisi filosofiche di Vico e Herder, così da rintracciare – e retrodare – i prodromi del sistema epistemologico multiculturale.