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La ruota e il vento: gli zingari di D’Amico

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di Silvia Mazzucchelli 

Orfani del vento. L’autunno degli zingari (Mimesis, 2022), l’ultimo libro di Tano D’Amico, si apre con l’immagine di un gruppo di ragazzini che tengono in mano una bandiera. I loro volti occupano la parte superiore della fotografia. Sono insolitamente seri e immobili, in posa davanti al fotografo, che sta leggermente di lato, come una presenza discreta e familiare. Sulla bandiera è impressa una grande ruota, che ricorda quelle dei carri dei coloni americani, alla ricerca di una terra da conquistare tra le immense praterie del lontano Ovest.

Ma il paragone finisce qui, il sogno di un nuovo Eden e di una terra promessa da fare propria non esiste per gli zingari. La ruota non sta per il mezzo che indica un fine, ma è il fine stesso. Il movimento, la mutevolezza, lo spostamento, significano privarsi volontariamente delle radici. E solo chi non affonda i suoi piedi nella terra può permettersi di muovercisi liberamente. La libertà è un lusso che può concedersi solo chi non ha nulla da perdere, chi considera la terra come un grembo che accoglie, non un lembo da possedere. Ma nei volti di quei ragazzini c’è qualcosa che stride, non tengono la bandiera con entusiasmo o speranza. Nessuno di loro sorride.

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

La ruota immobile al centro del fotogramma indica un tempo fermo nel passato, quando le origini nomadi erano il tratto identitario che caratterizzava la storia del loro popolo. La parola gitano, come l’inglese gypsy e il francese gitan, deriva a sua volta dal latino aegypt(i)anus, da una leggenda sulla loro presunta origine egiziana. Rom in Europa, Lom in Armenia e Dom in Medio Oriente sono invece i nomi con cui i popoli Zingari designano sé stessi, una parola di origine indiana che vuol dire uomo libero. E così sono stati considerati per molto tempo, liberi, nomadi e refrattari al potere e alla sottomissione. «Sono l’unico popolo che non ha mai fatto guerra a un altro popolo. Hanno sempre camminato. Una cultura, la loro, senza mura, senza torri. Una cultura orizzontale come una tenda, come una strada, come una decisione che si prende tutti quanti insieme», scrive Tano D’Amico. 

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Oggi, tuttavia, la ruota ricorda più lo strumento di tortura e di martirio che il simbolo della libertà. Significa sedentarietà e costrizione, marginalità ed emarginazione. Oggi gli zingari non sono più figli del vento, ma orfani di quella forza sfuggente e impalpabile che li rendeva inafferrabili. Sono bloccati, scomodi prigionieri relegati ai bordi delle grandi città, sempre in procinto di essere cacciati da un recinto per essere sospinti in un altro. Prima del boom economico erano maniscalchi, arrotini, stagnini, allevatori di animali da tiro, professioni che trovavano spazio nel mondo contadino, mentre il loro peregrinare faceva notizia tra i paesi attraversati, portando colore e diversità, assieme a diffidenza e paura, in comunità isolate e in gran parte analfabete.

L’industrializzazione ha messo in crisi l’economia Rom, ne ha chiuso gli sbocchi. Melquìades, emblema dello zingaro che conosce il mondo e le sue prodigiose magie, come la calamita e il cannocchiale, giace dimenticato a Macondo fra le pagine di Cent’anni di solitudine. Al suo posto un vuoto generato da uno smottamento identitario destinato a riempirsi di macerie.

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Doppiamente stranieri, sia nei confronti della cultura di appartenenza, sia rispetto alla cultura dei paesi ospitanti, «hanno perso la loro identità, senza avere le risorse necessarie per acquisirne un’altra, espulsi da una parte, emarginati dall’altra, con la loro organizzazione del tempo e dello spazio difficilmente negoziabili», scrive Anna Rita Calabrò. Il nomadismo è evaporato, lasciando come residuo uno sterile sradicamento.

«Ho cercato gli zingari quando il mio mondo era ormai crollato. Non avevo più giornali, gli operai e la loro cultura erano stati sconfitti a Mirafiori, il Sud aveva perso ciò che rimaneva della sua cultura per un terremoto terribile. Ho seguito le loro vicende, le loro feste i loro lutti». Tano D’Amico non ha reticenze nel rendere esplicito il nesso tra due solitudini, la propria e quella del popolo Rom. La ruota della foto in prima pagina è il doppio del suo obiettivo, ma anche un grande cerchio che ricorda un’iride con la pupilla fissa sul soggetto. E se è vero che fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di chi viene ritratto, all’incertezza esistenziale degli zingari il fotografo offre la solidarietà del suo sguardo, cioè il bisogno di mettersi in relazione e di capire l’altro senza la necessità della parola.  

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Il fotografo del movimento, come spesso è stato definito per la sua vicinanza ai movimenti degli anni Sessanta e Settanta, è ora il fotografo di un popolo che nel movimento ha fissato la sua più forte connotazione esistenziale. Tano D’Amico conosce i campi dove vivono gli zingari. Gli spazi desolati, le roulottes e le mercedes sgangherate trasformate in abitazione, i rifiuti che si intravedono sullo sfondo, le povere dimore, gli oggetti rotti, scartati dai gage, i non zingari, che diventano parte delle loro vite, mentre le città ordinate, in lontananza, fanno da contraltare al disordine gitano.

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Le sue foto sono efficaci perché riescono a mettere in primo piano una relazione che scaturisce da un contatto fisico, come se stesse accarezzando i suoi soggetti. Le immagini dunque si toccano e ci toccano. Per questo fotografare non è prendere con violenza, ma curarsi del soggetto che si fotografa, prenderlo insieme, comprenderlo. Il passaggio dalla pelle alla pellicola, la “piccola pelle”, fragile come se fosse viva, è impercettibile. Lo sguardo di Tano D’Amico è una mano che ne sfiora la superficie come quelle delle madri zingare che accarezzano i loro figli. È sui loro volti e sui loro corpi che si sofferma la premura del fotografo. L’alito vitale che fecondava il popolo Rom è ormai sterile, e gli zingari, i maschi, nelle foto di D’Amico non sono solo orfani, sono assenti. È sulle donne che il fotografo concentra la sua attenzione, a partire dalla figura della madre.

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Le immagini di oggi si fondono con le suggestioni di ieri e i ricordi si fanno storia. Le madri zingare che «sulla soglia delle camere a gas si accosciano e allattano i bambini per l’ultima volta», si legano a un’altra madre zingara, quella di un’altra tempesta che dà il titolo al celebre quadro di Giorgione, dove una donna nuda allatta un bambino, mentre un soldato sta a poca distanza da lei con una «picca senza punta, di quelle che servono a stanare le bestie che hanno trovato rifugio nella macchia».

L’antidoto che il fotografo offre contro questa brutalità senza tempo, come le madri fanno con i figli, è la dolcezza. Una madre si perde con lo sguardo in una dimensione che sfugge all’obiettivo e al bambino che allatta oppure, orgogliosamente assisa in trono, scruta con puntiglio quello stesso obiettivo assieme al suo piccolo in braccio.

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Queste donne, queste madri, diventano allegorie di un mondo, non solo zingaro, che non conosce il possesso ed esalta l’amore. Qui la madre è segno. Come suggerisce Olivier Lugon, la frontalità si rivela un segno, più che uno strumento di documentazione, tende ad assumere lo status di immagine-tipo. La sua presenza è ieratica, accogliente come la terra.

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Un’altra madre, questa volta in un’automobile, appoggiata al finestrino, ci riporta alla memoria altre madri in fuga dalla Dust Bowl americana degli anni 30. La mano sotto il mento le conferisce un’aria pensierosa e distante, simile a quella della celeberrima Migrant Mother di Dorothea Lange, Florence Thompson, Madonna laica che per tutti è diventata l’icona della Grande depressione. Ma la madre zingara non è migrante, perché chi migra è costretta a lasciare un posto che è suo per un altro che non lo è ancora, mentre lei non ha coscienza di avere un luogo proprio.

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Talvolta accade che le madri siano oltre che prive di una terra anche orfane degli stessi figli. Come accade a Margota, bambina di sedici giorni morta grazie all’incuria e all’indifferenza della gente buona e pulita che circonda i campi, dei solerti difensori dell’ordine, di chi non usa più le picche ma i manganelli, degli amministratori a cui sta a cuore la “legalità”. O quella di Irene, morta di freddo, come in un campo di sterminio, tanti anni fa.

Il vuoto lasciato da Margota e Irene è colmato dalle bambine fotografate da Tano D’Amico. La lunga scia di volti che scorrono è una litania silenziosa che prova a dare conforto al dolore e al vuoto. Come quelle ritratte da Letizia Battaglia nei quartieri degradati di Palermo, vorrebbero simboleggiare la bellezza che si oppone all’emarginazione. Ciò che resta del nomadismo qui è sinonimo di fragilità, candore, innocenza. E la loro bellezza non è un fatto estetico, non sta nella capacità tecnica del fotografo di percepirla nell’oggetto, ma è adesione, coinvolgimento, totale immersione.

Nel suo Misericordia e tradimento (Mimesis, 2021), Tano D’Amico riproponeva parole che sembrano appartenere ad un vocabolario religioso. In realtà misericordia vuol dire avere pietà con il cuore, senza il quale non si ha bellezza. E la misericordia delle immagini è una presa di posizione; è il volto di chi è debole e non può che opporre la sua debolezza contro il potere.

Orfani del vento (ph. Tano D'Amico)

Orfani del vento (ph. Tano D’Amico)

Eppure sembra che queste bambine siano bloccate in un presente senza futuro, sulla soglia di un sogno svanito, persino quando giocano a pettinarsi e farsi belle. O come accade alla bambina che indossa un abito bianco da principessa e un paio di scarpe nere, luride e smisurate. Un dettaglio che il fotografo ha valorizzato e su cui doveva cadere il nostro occhio, proprio come per la povertà dell’ambiente che la schiaccia in uno spazio senza via d’uscita.

Per questo la scelta di Tano D’Amico non è solo artistica e politica, ma anche esistenziale. Il fotografo è dentro l’istante, legato al destino di coloro che stanno nell’immagine. Il suo sguardo è quello del naufrago che cerca di tornare verso una patria che non c’è più. I movimenti hanno esaurito la loro carica utopica e vitale, gli operai hanno perso la loro identità di sfruttati, gli studenti non sono più portatori di desiderio e ribellione. Un nóstos che per lui è impossibile, come per gli zingari che, a differenza del fotografo, non hanno mai avuto alcuna patria verso cui fare ritorno. 

Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023

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Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude Cahun. Della stessa autrice ha curato Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha collaborato con numerose riviste, fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Da circa due anni sta conducendo uno studio analitico sul lavoro fotografico e poetico di Giulia Niccolai.

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