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di Sura Bizzarri e Toti Clemente
Una sagoma sottile, una silhouette che saltella sull’orlo del tramonto e dell’alto muro, al di là un colle di lapidi, bianche, monotone, tutte uguali, riverberate e striate di arancione. Il primo brivido della sera, dopo una giornata calda che non ha mai allentato la presa.
Il ragazzino si muove come un felino, in perfetto silenzio, uno sguardo al di là e uno al di qua del muro, poi avanti e dietro; il suo corpo magro e longilineo è una molla pronta a scattare, ad appiattirsi o a spiccare un salto verso il basso.
Dopo un pomeriggio solitario nel bosco, a cercare sassi, a esplorare il fiume e a risalirne la corrente, l’incontro con un gruppo di sbandati, ragazzi più grandi, evidentemente ubriachi di vino e voglia di trasgredire. Lui neanche li conosce, quei ragazzi, lui è solo un pretesto per permettere loro di esercitare l’impudico mestiere della sopraffazione. Ogni gesto del ragazzino, ogni espressione del suo volto, ogni suo tentativo di andarsene sono derisi e bloccati dal gioco crudele del gatto col topo, presa allentata per esser subito rinforzata.
È la festa del paese, la più bella sera dell’anno, i colori del giorno si smorzano mentre i suoni cominciano a salire; bimbi che si rincorrono per strada, musica sparata dagli altoparlanti, ragazzi che gridano e vecchi che imprecano giocando a carte.
Mario se ne è tenuto lontano, a lui piace contemplare le cose dal di fuori, avere uno sguardo altro, osservare la sua terra e pensare a quanto ne sia profondamente legato. È riuscito a sfuggire ai ragazzi del pomeriggio, dopo che lo hanno frustato con felci lunghe e ruvide, dopo che lo hanno malmenato e deriso. Ma sa che il branco è sulle sue tracce, sa che deve tenersi in allerta, pronto a recepire l’attacco.
Mario è fatto così, un ragazzetto schivo ma in realtà molto attento, capace di captare ogni allarme, di sostenere ogni situazione, di fiutare il pericolo e riuscire a tenersene fuori. Quando è nel suo ambiente, Mario è un animale, scaltro, imprudente, coraggioso.
E in questa sera di festa, scampato il pericolo del pomeriggio, si sente ragionevolmente forte, tanto da potersi confondere con gli alberi scuri della notte e poter schivare un secondo eventuale attacco.
Si accovaccia sul muretto ancora caldo, poi si sdraia e nell’aria scura sente lontana la voce della sorella, le preghiere delle donne in processione, la musica della pista illuminata e i sussurri delle chitarre, le vibrazioni del basso, le carezze vellutate della tastiera. A lui non importa far parte della festa, a lui basta assorbirla, da solo, gioire dell’euforia collettiva.
Ma Mario è stanco, ha camminato con le gambe immerse nell’acqua ghiacciata del fiume per tutto il pomeriggio, ha subìto un attacco violento e ha saltato la cena. I suoi occhi si chiudono nell’imbrunire, i suoi pensieri spaziano guidati dal suono che lo rende partecipe, seppure non presente. E il sonno buono di chi immagina il futuro incerto, quindi prodigioso, scioglie i suoi muscoli contratti.
È il leggero vento freddo che spira dalla collina dei morti a svegliarlo, le antenne subito dritte. Il rumore della festa sta scemando, ecco i primi fuochi d’artificio che tingono le lapidi di colori esplosi. E nel silenzio, fra uno scoppio e l’altro, uno scalpiccio poco gentile sul terreno. Il leggero brivido di freddo ha svegliato quello più forte della paura.
Mario si alza senza fretta, le orecchie tese per captare la direzione del rumore nella sterpaglia, il calore del suo corpo rattrappito si libera nell’aria e l’odore della paura lo assale all’improvviso. Sente qualcosa lì vicino al suo orecchio, un respiro grosso che ne richiama altri, come grossi uomini delle caverne i ragazzi lo circondano, hanno lame lucenti nelle mani, i bagliori le fanno luccicare, come denti aggressivi che vogliano azzannarlo.
Subito il suo cervello animale calcola le distanze, le vie di fuga, le possibilità di saltare giù dalla muraglia. Ma non appena prova a muoversi la prima lama, la prima bocca dai denti d’acciaio si conficca nella sua coscia tesa, squarciando il muscolo in un fiotto di sangue. È lo stesso gioco del pomeriggio, ma più cattivo, ancora più feroce e disumano.
Mario conosce bene ogni sasso, ogni pietra e granello di polvere di quel muro che segna il confine fra i morti e i vivi e in uno slancio di sbieco si getta a capofitto nel campo delle lapidi, correndo qua e là nella confusione dei bagliori, nei tonfi sordi del suono che riecheggia. Il suo zigzagare fra quei poveri cristi colpevoli di una colpa non loro, esecutori di barbarie che mai avrebbero voluto commettere illumina nomi a caso, nomi stranieri, nomi senza volto e storie evidenti. E il riverbero di quei fuochi d’artificio sembra risvegliare una battaglia mai vinta.
Mentre i ragazzi grossi e ubriachi inseguono Mario l’intero colle dei morti si risveglia contro la sopraffazione, in difesa di una giustizia necessaria e, forse, finalmente possibile. Nel buio rischiarato di macchie violente di luce una baionetta buca improvvisamente il terreno frapponendosi fra le grosse gambe di un ragazzone spaesato dai botti.
E una caviglia forte e barbara di passi pesanti viene bloccata dalla presa decisa di una mano bianca, tesa, resistente, anch’essa fuoriuscita improvvisamente da un sepolcro. Un ginocchio ormai senza carne sbucato dal centro della terra ostacola una corsa furiosa e bicipiti, anche malmesse, omeri e peroni consumati dal tempo impediscono in ogni direzione l’attacco infame del branco ubriaco.
Sul campo di lapidi immobili i ragazzoni cadono uno ad uno su tombe illuminate da bagliori lontani, davanti ai loro occhi inebetiti i nomi stranieri di una intera brigata caduta su quel colle.
Il sabato notte di guerra di Mario è costellato di esplosioni e di un esercito risorto per mondarsi di peccati mai commessi; braccia, gambe e armi che ormai non sanno più sparare si frappongono con insistenza fra il ragazzino e i suoi aggressori, senza uccidere, senza ferire, col solo intento di evitare la violenza cieca della sopraffazione, di dare equilibrio a un gioco di forza sproporzionato e profondamente immotivato.
Non uno di quei grossi ragazzi viene risparmiato, placcato e bloccato e, in fin dei conti, difeso da se stesso. Un gioco collettivo di gesti intervenuti dal terreno per salvare una vita e saldare il debito con la guerra. I fuochi d’artificio finiscono, la musica riprende con volume moderato e le urla del tardo pomeriggio diventano brusìo, la gente si avvia verso casa, i ragazzi parlano sommessamente ai bordi della piazza, gli ultimi calci al pallone.
Mario è solo nel campo dei morti, la coscia squarciata che pulsa di sangue vivo e nonostante questo ancora capace di correre; si ferma a fasciarla e trascorre qualche minuto nella solitudine desolata di un cimitero di guerra, è il suo modo di rendere grazie al prodigio che gli ha salvato la vita, è il suo modo per dare un volto a quegli uomini morti prima che lui nascesse. È il suo modo di confrontarsi con la vita, con le sue insidie e le possibilità. Mario torna a casa, stupefatto e conscio di aver vinto una battaglia.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
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Sura Bizzarri, nativa di San Marcello Pistoiese, in Toscana, il suo primo romanzo La primavera del Botticelli uscito nel 2009 è stato adottato come testo di lettura dal liceo scientifico locale. Sono seguiti altri lavori, anche collettivi, da lei curati. Si tratta per lo più di esperienze di sperimentazione organizzate ricalcando episodi di city telling. Nel 2018 è uscito il suo ultimo romanzo, I ragni zingari, storia adolescenziale omosex che mette in evidenza gli episodi di estrema solitudine che caratterizzano il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. È socio fondatore dell’associazione Letterappenninica, che si occupa di preservare e diffondere la cultura delle Terre alte.
Salvatore Clemente, palermitano che scopre la passione per la fotografia negli anni settanta. Inizia con una Yashica FRII, per poi passare a Contax. Necessità di autofocus lo portano all’uso di fotocamere Nikon per approdare infine al digitale (prima Nikon, adesso Fuji). Ha realizzato molteplici reportages nel corso di diversi viaggi (Cina, India, Pakistan, Peru’, Vietnam, Cile, Argentina, Marocco, Sud Africa, Birmania, Bolivia, ecc…). È autore con M. Lo Chirco del volume Un’immagine, un racconto, pref. Nino Giaramidaro, Palermo 2009.
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